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Archive for dicembre, 2012

Qualcosa di sinistra – da “Il Punto” del 21/12/2012

venerdì, dicembre 28th, 2012

Luigi de Magistris lancia il Movimento Arancione e prepara l’alternativa al Monti-bis. Idv, Rifondazione, Comunisti italiani e Fiom saranno della partita così come il magistrato Antonio Ingroia, che potrebbe essere candidato premier. Mentre Bersani apre all’accordo con i moderati dopo le elezioni

ingroia_demagistris-dipietroDiceva Marcello Marchesi, eclettico intellettuale italiano scomparso nel 1978, che «la rivoluzione si fa a sinistra e i soldi si fanno a destra». Chissà se nel dare vita al suo Movimento Arancione Luigi de Magistris avrà preso spunto da quella frase. Perché lui non ne ha mai fatto mistero: vuole fare «la rivoluzione governando». Slogan che gli ha permesso di vincere a Napoli e grazie al quale ora vuole puntare al colpo grosso. Roma. Il Parlamento. L’alternativa al governo Monti. «Siamo un Movimento di donne e di uomini con la schiena dritta che hanno il coraggio di combattere», ha spiegato l’ex magistrato presentando la sua creatura. Perno centrale di “qualcosa di sinistra” che si batte contro «un mondo dove i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri» e affinché «i partiti tornino ad essere quelli di Gramsci e Berlinguer». De Magistris, comunque, non è da solo. A “sinistra della sinistra” sono tutti in fermento. Vecchi e non, usato sicuro e facce nuove. Mettere tutti d’accordo non sarà facile, e il sindaco di Napoli ha assicurato che «questo non è il posto dove qualcuno si da una riverniciata». Ma il tempo stringe, e Bersani che apre a Casini (malgrado l’oltranzismo di Vendola) lo fa per un semplice motivo: arginare la possibilità di un Monti-bis che prende corpo in maniera sempre più concreta.

Via dunque alla nascita di un Quarto Polo che sia alternativo ai centristi, che permetta all’asse trilaterale Pd-Sel-Psi di trovare un alleato forte che garantisca una solida maggioranza nelle due Camere e che scongiuri lo spettro di altri cinque anni di rigore eterodiretto. Che, soprattutto, guardi a realtà come “Cambiare si può”, neonato soggetto politico-culturale che vede al suo interno la presenza di personalità quali il sociologo Luciano Gallino, lo storico Marco Revelli e il magistrato antimafia Livio Pepino (più esponenti di Fiom e Prc). «Ci sembra che il centrosinistra di oggi abbia molto poco di sinistra. È più sinistro, che di sinistra», ha recentemente dichiarato de Magistris. Che pure non ha chiuso le porte ai democratici, a patto che – ha aggiunto il primo cittadino campano – «Bersani metta in campo una proposta politica alternativa a tutto quello che il Pd ha fatto finora». Gli incontri e i contatti, negli ultimi giorni, si sono intensificati. Le elezioni alle porte costringono gli arancioni a lavorare a ritmi serrati, anche perché fra il 4 e il 13 gennaio bisognerà depositare il simbolo e le liste elettorali. Certo, un modo per uscire dall’impasse ci sarebbe: un’alleanza senza «se» e senza «ma» con l’Italia dei valori di Antonio Di Pietro. «Se c’è spazio per loro? Assolutamente sì», ha risposto de Magistris a chi gli chiedeva di un accordo con l’ex pm, che era in platea al Teatro Eliseo di Roma nel giorno del lancio del Movimento. Potrebbe essere un do ut des. Se infatti l’Italia dei valori entrasse a far parte della neonata famiglia arancione non ci sarà bisogno di raccogliere le firme da zero. E si potrebbe cambiare il simbolo ottimizzando i tempi. Elementi non secondari. Ma su quest’ultimo punto, nel partito di “Tonino”, le voci critiche non mancano. Sabato scorso, durante l’assemblea generale dell’Idv, il sindaco di Palermo Leoluca Orlando è stato chiaro: «Dobbiamo andare alle elezioni con il nostro simbolo, il gabbiano deve tornare a volare. Ma siamo al servizio di tutti coloro che in questo Paese sono contro Berlusconi e Monti». Ancora: «Se dovesse esserci la volontà di ampliare il fronte saremmo disponibili al dialogo, ma il partito deve continuare ad esistere. E comunque tutte le decisioni vanno prese attraverso un esecutivo nazionale» (che si svolgerà il prossimo 27 dicembre).

Di più ha fatto Francesco “Pancho” Pardi, il quale ha distribuito ad alcuni militanti un documento di due pagine in cui ha sottolineato che nel caso in cui il partito confluisca «nell’alveo del Movimento Arancione si verificherà al massimo il salvataggio di una parte assai limitata della nostra classe dirigente nazionale. E come questa si mescolerà a tutti gli altri soggetti confluenti – concludeva il senatore dipietrista – è materia di incertezza del futuro». E Di Pietro? Il suo intervento è stato un mix di rabbia e orgoglio. Il leader dell’Idv ha chiesto a Bersani «di rispondere a chi chiede l’unità del centrosinistra. Se saremo chiamati a rappresentare l’alternativa al governo Monti – ha tuonato rivolto al vincitore delle primarie – allora vuol dire che il vero centrosinistra siamo noi». Poi il messaggio, diretto senza giri di parole, ai possibili alleati: «È arrivato il momento di metterci la faccia, la firma e il nome. Noi non siamo asini da soma, non abbiamo bisogno di gente che dice: “Appena vinci sto con te”. Vogliamo unirci a quelle forze che la pensano come noi, a quelle realtà che parlano allo stesso elettorato. Le persone che si riconoscono nel Movimento Arancione sono quelle che condividono i principi dell’Italia dei valori. Chi vuole intraprendere un cammino insieme esca allo scoperto. Noi alle elezioni ci saremo, soli o ben accompagnati». Un appello il cui destinatario, fanno sapere fonti dell’Idv, non è solo de Magistris, ma anche tutte quelle forze sociali e sindacali con cui recentemente il partito ha aperto un dialogo. Non è un mistero che, grazie alla mediazione dell’ex segretario Fiom Maurizio Zipponi (ora responsabile lavoro dell’Idv), negli ultimi mesi i contatti fra Di Pietro e Landini si fossero intensificati. Poi, con la “maledetta” puntata di Report e il crollo verticale nei sondaggi patito dall’Idv (che oscilla ora fra l’1,5 e il 2%), i rapporti sono stati congelati. E, sempre per restare sull’argomento, il sindacato dei metalmeccanici figura tra le forze che hanno presentato in Cassazione i due quesiti referendari per abrogare le modifiche all’articolo 18 e all’articolo 8 dello statuto dei lavoratori. Nella “foto del Palazzaccio”, oltre a Nichi Vendola, ci sono anche il presidente dei Verdi Angelo Bonelli, il segretario del Pdci Oliviero Diliberto e quello di Rifondazione Comunista Paolo Ferrero. Gli ultimi due hanno espresso le loro perplessità su una possibile alleanza fra l’orizzonte arancione e il duo Pd-Sel. Per Ferrero, in particolare, «le proposte che fa Bersani aggravano la crisi. A rincorrere il Pd impieghiamo male il nostro tempo». Più cauto Diliberto: «”Con i democratici a tutti i costi” e “mai con loro” sono entrambe posizioni sbagliate – ha spiegato dalle colonne de Il Manifesto –. È ovvio che io preferisco stare nel centrosinistra, ma non ad ogni costo».

In molti, però, concordano sulla possibilità che sia il magistrato Antonio Ingroia il candidato premier ideale del Quarto Polo. Un’idea che lo stesso de Magistris ha lanciato pochi giorni fa nel corso di un’intervista a MicroMega, e che ha etichettato come «un grande segnale di discontinuità, un elemento di rottura e di costruzione nello stesso tempo». Per il momento «il partigiano della Costituzione» ha mostrato cautela. «Sto prendendo in considerazione in che modo aiutare questo Movimento, ciascuno deve assumersi la sua responsabilità in questo momento del Paese» ha spiegato il magistrato prima di precisare che «correre troppo non è mai consigliabile. Io non vesto toghe o casacche colorate, né rosse né arancioni». L’appoggio a Ingroia, che stava indagando sulla trattativa Stato-mafia prima di accettare la nomina a direttore di un’unità di investigazione per la lotta al narcotraffico su incarico dell’Onu in Guatemala, ha fatto fare un momentaneo passo indietro a due possibili componenti del Movimento Arancione: il sindaco di Milano Pisapia (Sel) e quello di Bari Emiliano (Pd), che sposerebbero il progetto solo se lo stesso si ponesse nell’alveo del centrosinistra. Per il momento, comunque, quello degli arancioni è un work in progress. Ora palla passa nel campo di Vendola e Bersani. Ma è certo che, se il segretario del Pd continuerà ad affermare che la sua ricetta per il 2013 è «l’agenda Monti più qualcosa», la possibilità di coalizzarsi sarà morta ancora prima di cominciare.

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«L’Idv non si scioglie e riparte con forza. Alleanze? Siamo già nel centrosinistra» – da “Il Punto” del 21/12/2012

giovedì, dicembre 27th, 2012

Belisario_IdvUna precisazione, prima di cominciare: «Eviterei di definire ciò che sta nascendo come “Quarto Polo”. Non porta bene e mi da l’idea di qualcosa di residuale. Credo che, in questa nascente aggregazione di forze, ci sia bisogno di partire prima di tutto dalla società civile tenendo presente quanto di buono c’è ancora nella politica e nei movimenti». È questo il pensiero di Felice Belisario, capogruppo al Senato dell’Italia dei valori.

Che Idv esce dall’assemblea di sabato scorso e, soprattutto, da dove intendete ripartire?

«Sicuramente l’Idv si è rafforzata. Il partito ha ripreso la voglia di combattere e crede di poter ripartire con forza. In questi anni i nostri gruppi parlamentari alla Camera e al Senato sono stati indicati da tutti come i più produttivi: significa che abbiamo progetti e persone per bene anche nelle istituzioni. La prossima campagna elettorale non sarà una passeggiata di salute, ma i dirigenti territoriali sono caricati e pronti».

Lei non vuole chiamarlo Quarto Polo. Diciamo, allora, che sta nascendo qualcosa “a sinistra della sinistra”?

«Io direi che sta prendendo vita un’aggregazione che difende i principi fondanti della Costituzione, che mette al primo posto gli articolo 1 e 3 della nostra Carta – ovvero che l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro e che la legge è uguale per tutti – e quei principi che si riferiscono alla scuola pubblica, alla sanità pubblica e alla parità di genere».

Qual è l’orizzonte programmatico di questa aggregazione? Cercherete la convergenza con la coppia Pd-Sel?

«Noi dell’Italia dei valori siamo stati chiari: lavoreremo fino all’ultimo istante per far comprendere al Partito democratico che c’è la necessità di far convergere le forze, di fare in modo che anche le diversità diventino una risorsa. Certo, non possiamo pensare a rifare l’Unione, perché quella è stata un’esperienza fallimentare che ha portato la destra alla vittoria. Però domando: non le sembra che un’alleanza che va da Casini e Montezemolo fino a Vendola sia una Unione del 2013? La confusione che è oggi sul piatto della politica dovrebbe insegnare qualcosa al Pd».

Nei mesi scorsi Vendola è stato molto vicino ad Antonio Di Pietro. E, è bene ricordarlo, figura in quella lista di forze che con voi hanno appoggiato i referendum sugli articoli 8 e 18. Ora però sembra essersi sfilato. Cosa ne pensa?

«Diciamo che in questa fase Vendola mi pare un po’ timido. Ha paura di scontentare il Pd ma anche i suoi, che vogliono tornare in Parlamento…».

Nella nuova creatura che sta nascendo dovrebbero confluire anche Prc e Pdci. Il segretario di Rifondazione, Paolo Ferrero, è stato chiaro: «Basta perdere tempo con il centrosinistra». C’è la possibilità di andare da soli?

«Noi siamo nel centrosinistra, come testimoniano le alleanze che abbiamo stretto in tantissime Regioni d’Italia – Lombardia, Molise, Lazio, Liguria, Toscana, Puglia… –, nella maggioranza delle Province e nella quasi totalità dei Comuni, eccezion fatta per Napoli e Palermo. Abbiamo il dovere di essere coerenti con la politica che facciamo sul territorio. Se a livello nazionale si andrà divisi, certamente non per colpa dell’Italia dei valori, ce ne faremo una ragione e proveremo a lavorare seguendo una via diversa. Però noi, ribadisco, proveremo fino alla fine a rafforzare il centrosinistra, non a indebolirlo».

Si parla della possibilità di far confluire l’Idv nel Movimento Arancione, ovviamente rinunciando al nome e al simbolo. C’è questa possibilità?

«Chiariamoci: l’Idv non si scioglie. Faremo un congresso rifondativo e da lì ripartiremo, togliendo il nome di Di Pietro e uscendo da una visione personalistica della politica. Io, come Italia dei valori, non confluisco da nessuna parte: possiamo entrare a far parte di qualcosa di diverso, ma non ci facciamo annettere né dal Movimento Arancione né da altri. Serve qualcosa di più grande che alle elezioni consenta a forze sane di rientrare in Parlamento e di frenare questa deriva populistico-bancaria».

De Magistris ha indicato Antonio Ingroia come candidato premier…

«Il sindaco di Napoli è andato avanti, il magistrato gli ha risposto che forse corre troppo. Conosco personalmente Ingroia e lo stimo, credo sia una grande personalità su cui non ho nulla da obiettare. Come Italia dei valori, però, non abbiamo fatto ancora alcuna valutazione».

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«Il Quarto Polo non segua il centrosinistra. Il Pd? Ha appoggiato politiche di destra» – da “Il Punto” del 21/12/2012

mercoledì, dicembre 26th, 2012

Il Fatto del Giorno trasmissione TvBersani lo ha deluso, perché «ha accettato totalmente le proposte di austerità e i sacrifici imposti, che hanno aggravato pesantemente la crisi». Mentre Vendola «dice una cosa e ne fa un’altra. Pensare di fare la sinistra con chi vuole applicare l’agenda Monti è una cosa senza senso». Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione comunista presente al battesimo del Movimento Arancione, parla chiaro: il Quarto Polo non deve cercare un’alleanza con l’attuale centrosinistra (Pd e Sel). «Si poteva trovare un accordo prima della formazione del governo Monti, oggi credo che non abbia alcun senso», afferma.

Ferrero, a che punto è la costruzione di quello che è già stato definitivo Quarto Polo?

«Mi sembra a buon punto. C’è un orientamento espresso da “Cambiare si può”, di cui Rifondazione comunista fa parte; poi c’è il Movimento Arancione che si sta muovendo nella stessa direzione e mi sembra che anche l’Italia dei valori, nell’assemblea di sabato scorso a Roma, abbia intrapreso la stessa rotta. Noi ci siamo: confido che a breve si riesca a portare a termine un atto costitutivo di questa lista».

Qualcuno ha detto di sentire odore di Sinistra arcobaleno…

«Non c’entra niente. La Sinistra arcobaleno era l’unione dei vari pezzi della sinistra che erano presenti all’interno della maggioranza nel biennio 2006-2008 e che furono messi insieme dopo una sconfitta. Qui si stanno combinando forze sociali che sono state all’opposizione del governo Monti, che sono contrarie alle politiche liberiste e che si pongono l’obiettivo di dare una rappresentanza politica a quella società che non ci sta, che è stata devastata da quanto è accaduto nell’ultimo anno. Siamo passati dal mettere insieme i cocci postumi ad un fallimento al vedere la nascita di un’opposizione da sinistra alle politiche neoliberiste in Italia».

Nei giorni scorsi lei, parlando di Bersani, non ha usato parole tenere: «Le sue proposte aggravano la crisi». Cosa rimprovera al segretario del Pd?

«L’aver accettato totalmente le proposte di austerità e i sacrifici imposti, che hanno aggravato pesantemente la crisi. La cosa peggiore è stato l’intreccio tra fiscal compact e pareggio di bilancio in Costituzione, perché l’origine della crisi stessa è la cattiva distribuzione del reddito: ricchi troppo ricchi e poveri troppo poveri. Ciò ha abbattuto i consumi e l’economia portandoci alla recessione e alle ingiustizie sociali. Il Pd ha appoggiato classiche politiche di destra, proposte da un governo che è stato il peggiore dal dopoguerra ad oggi».

Sentendola parlare, mi pare di capire che per lei il Quarto Polo non debba cercare un’alleanza con Pd e Sel…

«Assolutamente. Si poteva trovare un accordo prima della formazione del governo Monti, oggi credo che non abbia alcun senso. Non si può avere dialogo con chi per un anno massacra le pensioni, l’articolo 18, mette il pareggio di bilancio in Costituzione, porta avanti la “spending review” e nel frattempo trova 11 miliardi per le banche private».

È più deluso dal segretario del Pd o da Vendola?

«Vendola dice una cosa e ne fa un’altra. Non si possono fare determinate affermazioni e poi allearsi con chi ripete che l’agenda Monti è la sua agenda. O Vendola sta con Bersani e accetta le cose che dice – tenendo conto che il leader del Pd ha vinto le primarie e quello di Sel le ha perse – oppure fa la sinistra. Pensare di fare la sinistra con chi vuole applicare l’agenda Monti è una cosa senza senso».

Cosa pensa della presenza di Di Pietro e, eventualmente, di Ingroia?

«L’Italia dei valori ha fatto opposizione a Monti da sinistra. Credo che questo basti. Nell’anno in cui i tecnici hanno governato, il partito di Di Pietro si è opposto alle loro politiche: penso sia assolutamente necessario che l’Idv sia della partita. Per quanto riguarda Ingroia, personalmente va benissimo, nel senso che è una persona che ha dimostrato in questi anni di sapere combattere la mafia e contrastare i poteri forti».

De Magistris lo ha indicato addirittura come candidato premier. Lei condivide?

«Sì, perché Ingroia è l’emblema della necessità che abbiamo, ovvero quella di rimettere in piedi la democrazia – a partire dalla questione morale – e opporci radicalmente alle politiche neoliberiste che stanno distruggendo il Paese».

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Elezioni alle porte, Europa nel mirino – da “Il Punto” del 21/12/2012

sabato, dicembre 22nd, 2012

monti_merkel_getty_02Sono finiti i tempi del «ce lo chiede l’Europa». Sostituiti dal ritorno in campo (sì-no-forse) di Berlusconi; dalle politiche «germanocentriche» di Monti (copyright del Cavaliere) che vanno riviste; dallo spread che è «un imbroglio»; dall’andare oltre l’agenda del Professore perché «alle primarie ha vinto quella di Bersani» (Vendola dixit); dal fare in modo che quanto è accaduto in questi mesi non sia reso vano ma anzi si faccia, per dirla col gergo musicale, il bis (è ciò che pensa il trio Casini-Fini-Montezemolo). Con le elezioni alle porte il tema del rapporto fra il nostro Paese e i partner europei, Germania su tutti, è all’ordine del giorno. E non sempre i toni sono rassicuranti. A destra come a sinistra – tranne che al centro, per i motivi che ben conosciamo – si discute, ci si agita, si minaccia il compimento di gesti estremi. Nel Pdl il ritorno di Berlusconi ha spaccato il partito. Soprattutto, ha fatto sobbalzare dalla sedia quegli esponenti che dell’europeismo hanno fatto da sempre il loro cavallo di battaglia. L’ex ministro degli Esteri Franco Frattini e il capogruppo del Pdl al Parlamento europeo Mario Mauro hanno alzato le barricate. Il primo ha fatto sapere che «se il Cavaliere fa una campagna anti-Unione europea io mi ritiro». Il secondo, che sarebbe addirittura il “manovratore” del capogruppo del Ppe Joseph Daul – che nei giorni scorsi ha detto «no» alla «politica-spettacolo» in Italia, aggiungendo che far cadere il governo Monti è stato «un grave errore» – ha invece dichiarato che «pensare di scaricare sull’Europa le mancate riforme che attengono a precise responsabilità politiche del nostro Paese è una scorciatoia da non prendere». Di più: l’entusiasmo per il ritorno al dialogo fra Pdl e Lega, condizionato dalla decisione di Berlusconi di candidarsi a Palazzo Chigi (Maroni è contrario), fa mettere da parte (volutamente?) un passaggio fondamentale: il Carroccio sta raccogliendo le firme per un referendum su euro ed Europa. «Sosteniamo che un referendum consultivo sul mantenimento della moneta unica sia la strada più corretta per rendere più democratica la costruzione dell’integrazione comunitaria e per far decidere in prima persona ai popoli che tipo di moneta vogliono», fanno sapere da via Bellerio. Poi c’è l’altra metà del campo. Perché anche Pier Luigi Bersani, per utilizzare il suo slang, ha le sue gatte da pelare. Il segretario del Pd è stato chiaro: «La mia ricetta contro la crisi ricalca quella di Monti più qualcosa. Sì al rigore, accompagnato da equità e crescita». Ma, come detto in precedenza, Nichi Vendola non viaggia sulla stessa lunghezza d’onda. «Se c’è l’agenda Monti io non ci sto – ha tuonato il leader di Sel –. Se abbiamo fatto le primarie per scherzo dobbiamo dirlo al nostro popolo». Apriti cielo. Infine, ci sono Beppe Grillo e Mario Monti. Il leader del M5S, fra epurazioni ed editti via web, solo un mese fa è tornato a parlare di Bruxelles come di «un luogo che assomiglia a un club Med, un dolce esilio dei trombati alle elezioni nazionali». E “Super Mario”? Tutti lo vorrebbero ancora a capo del governo italiano. E quei “tutti” sono Hollande, Merkel, Obama, Barroso, Van Rompuy, Rehn… In alternativa, pare sia pronta per lui la presidenza dell’Eurogruppo, pianoB a cui si lavora da tempo («È una personalità europea di primo piano, sarebbe perfetto», affermava nel marzo scorso l’attuale numero uno, Junker). In un quadro simile, le «regole d’oro» del Fiscal compact incombono – entreranno in vigore il 1° gennaio 2013. L’unica certezza in mezzo a tanta confusione.

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Portaborse al palo – da “Il Punto” del 21/12/2012

venerdì, dicembre 21st, 2012

portaborsePensavano che fosse finalmente arrivato il loro momento. E invece, con la fine anticipata della legislatura, il ddl che avrebbe regolamentato la figura dei collaboratori parlamentari – più comunemente chiamati “portaborse” – non vedrà mai la luce. Il provvedimento, ispirato al modello del Parlamento europeo (dove i collaboratori parlamentari vengono pagati direttamente dall’amministrazione di Bruxelles e non dai singoli deputati) è stato approvato alla Camera all’inizio di ottobre, ma non ancora calendarizzato al Senato. Nello stesso periodo, un’inchiesta de “Il Punto” aveva reso noti i soprusi subiti da alcuni “portaborse”. Che, visto l’accaduto, sono purtroppo destinati a continuare.

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La Consulta e il riferimento all’art. 271. Li Gotti: «Come si regolerà ora il gip?» – da “Il Punto” del 14/12/2012

giovedì, dicembre 20th, 2012

consulta«La Corte costituzionale in accoglimento del ricorso per conflitto proposto dal Presidente della Repubblica ha dichiarato che non spettava alla Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Palermo di valutare la rilevanza della documentazione relativa alle intercettazioni delle conversazioni telefoniche del Presidente della Repubblica, captate nell’ambito del procedimento penale n. 11609/08 e neppure spettava di omettere di chiederne al giudice l’immediata distruzione ai sensi dell’articolo 271, terzo comma, c.p.p. e con modalità idonee ad assicurare la segretezza del loro contenuto, esclusa comunque la sottoposizione della stessa al contraddittorio delle parti». Quello che avete appena letto è il comunicato con cui la Consulta ha annunciato di aver accolto il ricorso del capo dello Stato Giorgio Napolitano, che nel luglio scorso ha sollevato il conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato (presidente della Repubblica e Procura di Palermo) riguardo le telefonate intercorse fra lui e Nicola Mancino, intercettato dai magistrati palermitani che indagano sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia. Si tratta di sole quattro conversazioni fra le 9.295 totali, avvenute fra il 7 novembre 2011 e il 9 maggio 2012 sulle sei utenze del già presidente del Senato, ministro dell’Interno e vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura messe sotto controllo. Ora si attendono le motivazioni della sentenza, che arriveranno nei prossimi mesi, probabilmente a gennaio. Si tratta di un “inedito”, anche se ci sono due precedenti degni di nota. Il primo vide coinvolto, nel 1997, Oscar Luigi Scalfaro – il procedimento era quello per la bancarotta della Sasea: l’ex inquilino del Quirinale venne intercettato nel 1993 dalla Guardia di Finanza mentre parlava con l’amministratore delegato di Banca Popolare di Novara Carlo Piantanida e le conversazioni furono pubblicate quattro anni dopo da “Il Giornale” – ma non venne sollevato alcun conflitto di attribuzione. Merito anche dell’intervento dell’allora ministro della Giustizia Giovanni Maria Flick, che “scagionò” i magistrati. «Non hanno violato alcuna norma – disse rispondendo all’interpellanza presentata da Francesco Cossiga – anche se la procedura seguita non appare in linea con i principi della Costituzione a tutela del presidente della Repubblica». Il secondo riguarda le chiamate fra lo stesso Napolitano e l’ex capo della Protezione civile Guido Bertolaso all’indomani del terremoto in Abruzzo (conversazioni senza nessun rilievo ai fini dell’inchiesta). Tornando però alla sentenza di pochi giorni fa, le incongruenze non mancano. Nel comunicato, la Corte fa riferimento al terzo comma dell’articolo 271 del codice di procedura penale, che recita: «In ogni stato e grado del processo il giudice dispone che la documentazione delle intercettazioni previste dai commi 1 e 2 sia distrutta, salvo che costituisca corpo del reato». Ma l’articolo del c.p.p. che disciplina la distruzione delle intercettazioni non utilizzabili è il 269, che richiama – non a caso – il terzo comma del 271. «Gli interessati, quando la documentazione non è necessaria per il procedimento, possono chiederne la distruzione, a tutela della riservatezza, al giudice che ha autorizzato o convalidato l’intercettazione», è scritto nella disposizione. La quale prosegue specificando che «il giudice decide in camera di consiglio a norma dell’articolo 127». «Quella della Consulta è una sentenza “innovativa”. Questo perché non è stato dichiarato incostituzionale l’articolo 269 nella parte in cui impone il rito dell’udienza camerale malgrado si faccia riferimento a “modalità idonee ad assicurare la segretezza” del contenuto delle intercettazioni », dichiara Luigi Li Gotti, responsabile Giustizia dell’Italia dei valori. «Ma cosa accadrà – si domanda il senatore dipietrista – quando il gip di Palermo dovrà provvedere alla distruzione dei nastri? In base a quale norma del sistema procederà? In questo modo si crea una situazione di imbarazzo, anche perché dovrà poi essere redatto un verbale dell’operazione (secondo quanto stabilisce il comma 3 dell’articolo 269, ndr)». Il giudice rischia, addirittura, di commettere un reato. «Ci deve essere una norma “di copertura” – afferma ancora Li Gotti – perché distruggere una prova processuale senza uno “scudo” è soppressione di prove. Aspettiamo le motivazioni, ma da quanto sembra allo stato attuale il gip sarà messo in grave difficoltà e rischierà addirittura una denuncia per abuso in atti d’ufficio ». Sull’argomento si è espressa recentemente (febbraio 2007) anche la Corte di Cassazione che, in accoglimento di un ricorso presentato in merito alla distruzione di telefonate intercettate senza che gli interessati fossero stati avvertiti dell’udienza in cui si è adottata simile deliberazione, ha dichiarato che «la distruzione » deve essere decisa «in camera di consiglio a norma dell’art. 269 commi 2 e 3 del codice di rito. E il comma 2 di quest’ultima disposizione, a sua volta, richiama il precedente art. 127».

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«Pronto a rilanciare il Lazio» – da “Il Punto” del 14/12/2012

mercoledì, dicembre 19th, 2012

Il segretario de La Destra Francesco Storace lancia la sua candidatura alla Regione. «Diamo vita ad un centrodestra unitario, evitiamo gli errori del passato. Io e la Polverini contro? Solo senza un’alleanza comune, ma sarebbe una pazzia. Punterò su sanità, economia e agricoltura»

Il leader de La Destra si candida alla guida della Regione LazioFrancesco Storace è pronto a rilanciare la Regione Lazio. Non sarebbe la prima volta, visto che il segretario de La Destra ha già ricoperto l’incarico di governatore dal 2000 al 2005. «Però stavolta serve la volontà di creare un centrodestra unitario, evitiamo di ripetere l’esperienza siciliana», dice lui dal suo ufficio della Pisana all’indomani della manifestazione di domenica a Roma, che ha mobilitato quasi duemila sostenitori.

Storace, lei ha lanciato la sua candidatura alla guida della Regione Lazio. È pronto? 

«Sì, e sono molto rispettoso delle scelte che dovremo fare come centrodestra. Spero che quest’ultimo si manifesti, ciò vale sia a livello locale che nazionale. Non ho intenzione di ripetere l’esperienza siciliana, dalla quale abbiamo capito che schierando due candidati si va incontro alla sconfitta. Se si decide di creare uno schieramento unitario e c’è un candidato che è più accreditato di me nei sondaggi ne parliamo, altrimenti ognuno fa la sua corsa. Scegliendo una “scartoffia” la sinistra vince».

Lei ha definito Renata Polverini «una combattente che tutti devono rispettare». Eppure la ex governatrice, che nei giorni della bufera disse che «sicuramente » non avrebbe più governato il Lazio, pare stia pensando al “ritorno in campo”. Da alleati a possibili sfidanti? 

«Si tratta di uno scenario che potrebbe manifestarsi senza un’alleanza unitaria, ma sarebbe una pazzia. La Polverini va rispettata, non trovo giusto quanto si dice di lei nei corridoi della Pisana. Però non credo che attualmente sia messa meglio nei sondaggi. Io le dissi che la cosa più giusta, una volta rassegnate le dimissioni, sarebbe stata quella di indire subito le elezioni proponendo la sua candidatura. Lei mi rispose che non voleva più sentir parlare della Regione…».

In caso di successo da dove ripartirebbe il Lazio di Storace? 

«Dalla sobrietà in politica. Vede, il problema non sono solo le auto blu. Ad esem pio bisogna intervenire sugli enti e sulle società della rete. Personalmente, ricondurrei la responsabilità di gestione ad un amministratore unico in modo che sia più facile operare un controllo. Non serve una pletora di persone che accontenti o scontenti il politico che le ha segnalate».

Poi c’è la questione della sanità… 

«Insieme al sociale, all’economia e al rapporto con l’Europa. Per quanto riguarda la sanità va operata una netta inversione di tendenza. Io mi pongo il problema del risparmio, anche se è una follia pensare che la salute sia un costo e non un diritto. Oggi però il peso della spesa ospedaliera grava sulla Regione. Noi dobbiamo fare in modo che sul territorio il cittadino trovi lo strumento sanitario che eviti il ricorso alla cura ospedaliera. Si metterebbe in moto un meccanismo virtuoso che garantirebbe un abbattimento dei costi. Prima di essere “azzoppato” dal Lazio-gate proposi il piano per l’apertura di 100 ambulatori sul territorio. Quello del disavanzo è stato un problema comune a tutti i governatori che si sono succeduti in questi anni, da Badaloni alla Polverini. Ora è arrivato il momento di dire basta alle polemiche e di costruire la sanità di domani. E poi punterei molto sull’agricoltura…».

Perché? 

«Perché va rimessa in moto, e non escludo di ragionare su una delega presidenziale in tal senso. L’investimento nel campo dell’agricoltura è proficuo: ha un costo minore rispetto ad altri campi e garantisce vantaggi maggiori. Ci sono, infine, la cultura e il turismo. Settori che, con l’oculato utilizzo dei fondi europei, possono essere un volano importante per la ripresa».

Sia lei che Teodoro Buontempo, nella convention di domenica scorsa a Roma, avete parlato con toni non certo esaltanti dei vostri ex colleghi di An. Cosa pensa dell’atteggiamento che continuano a tenere i vari Gasparri, La Russa, Matteoli…? Pare che uno dei tre, ma non le dico chi, non sia molto contento della sua candidatura…

«Noi dobbiamo fare contenti i cittadini, non i partiti. È ovvio che ci possano essere delle preferenze, ma noi non vogliamo dare vita ad un centrodestra choosy. Domenica, alla nostra manifestazione, c’erano entusiasmo e passione per la ricerca di un punto di riferimento. È inutile starsi ad attardare. Il discorso di Buontempo è stato molto duro: noi pretendiamo rispetto per chi ha fatto per cinque anni una traversata nel deserto, andando contro chi oggi si sta invece interrogando sulla propria rifondazione. Se si vuole ricostruire un centrodestra vero ci deve essere la convergenza di tutti, nessuno escluso».

L’unica che si batte per cambiare le cose è Giorgia Meloni… 

«È curioso che chi sta nel Pdl pensi ad altro, magari sostenendo ancora Berlusconi. Se uno esce dal partito perché il Cavaliere torna in campo poi non può creare una lista satellite che lo appoggi. Sarebbe un controsenso. Noi siamo più liberi di decidere se sostenere o meno Berlusconi, dipende dalle idee e dai programmi. Credo comunque che il percorso di Giorgia sia molto più coerente rispetto a quello di La Russa e Gasparri. A me lei piace molto come soggetto politico: mi permetto di suggerirle un approccio meno pesante nei confronti del leader del Pdl perché lei potrebbe essere un’alternativa importante alla sinistra nei prossimi anni».

Nel frattempo, dopo le critiche aspre, sembra essere tornato il sereno fra lei e Alemanno. «Storace è una persona con cui mi auguro si possano trovare le convergenze programmatiche e politiche sia al Comune che alla Regione», ha fatto sapere il sindaco di Roma… 

«Ad Alemanno chiedo che le cose cambino prima di tutto in termini di contenuti. Si riuscirà a trovare la quadra? Lo vedremo. Se ci sarà la buona volontà gli ostacoli saranno superati, altrimenti si resterà così come si è adesso. A differenza di altri io non sono ossessionato dal potere. Sono stato presidente di Regione e ministro della Sanità, ma una volta lasciati gli incarichi non ho perso tempo a piangere. Ho ricominciato dal territorio e la gente mi ha votato. Questa è la cosa di cui vado più fiero».

Ultima domanda: Berlusconi fa bene a ricandidarsi? 

«Aspettiamo di capire bene cosa vuole fare veramente, la politica ci ha abituati a continui colpi di scena. Però viene da domandarsi quale sia l’alternativa. Nel Pdl il dopo-Berlusconi può essere deciso solo con il consenso del Cavaliere».

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Monti lascia, che succede al centro? I tre possibili scenari in vista del voto – da “Il Punto” del 14/12/2012

martedì, dicembre 18th, 2012

E ora che succede al centro? Se lo domandano i vari Pier Ferdinando Casini, Gianfranco Fini, Luca di Montezemolo, il presidente delle Acli Andrea Olivero, il ministro Andrea Riccardi… L’annuncio delle dimissioni del presidente del Consiglio dopo l’approvazione della legge di stabilità (ex Finanziaria) spiazza i sostenitori del «Monti dopo Monti», costretti a riordinare in fretta le idee in vista dell’imminente tornata elettorale. Un’intesa di massima c’è: la Lista per l’Italia – ma il nome sembra essere ancora parziale – potrebbe riunire sotto un’unica bandiera Udc, Fli, Italia Futura più una serie di associazioni, fra cui quella cattolica dei lavoratori. Casini è pronto, e ha più volte chiamato a raccolta il presidente della Ferrari. Che però, fra i tre (Fini viaggia sulla stessa lunghezza d’onda del leader centrista), è quello meno convinto dell’operazione. Non è un caso che solo il 10 settembre scorso, a margine della convention dell’Udc a Chianciano, il think tank montezemoliano pubblicava sul suo sito Internet un articolo in cui definiva «un fritto misto che non serve al Paese» le pur «buone intenzioni» dei centristi. La battaglia si giocherà a colpi di numeri perché è ormai chiaro ai più che si tornerà alle urne con un “Porcellum” puro. Il quale prevede una soglia del 4% alla Camera e dell’8 al Senato per l’ingresso in Parlamento di una singola formazione. Complice l’appoggio tout court alle politiche del governo tecnico, il partito di Casini ha perso terreno negli ultimi mesi tanto da scendere addirittura al 3,8%. Questo, almeno, è quanto dicono le ultime rilevazioni. È dunque necessaria la formazione di una coalizione che quantomeno alla Camera darebbe la possibilità a Casini e Fini di continuare a fare politica “attiva”. Ma, come detto, il passo indietro dell’ex Commissario europeo ha rimescolato le carte in tavola. È stato proprio Montezemolo a frenare gli entusiasmi. Mentre Casini e Fini, dopo aver saputo che il premier avrebbe lasciato anzitempo la poltrona, parlavano di «un gesto di responsabilità compiuto da Monti» (il primo) e di «un bel gol in contropiede a Berlusconi» (il secondo), l’ex numero uno della Fiat faceva sapere che «o Monti offre la possibilità politica di una convergenza di tutti i soggetti che si ispirano alla sua esperienza di governo, oppure sarà complicato esserci». Le prossime settimane saranno decisive per la costruzione di tre possibili scenari. Il primo è quello che vede Monti in campo e la formazione, appunto, di una casa comune dei “moderati” guidata da lui. In questo caso, però, il presidente del Consiglio dovrebbe decidere se lasciare la carica di senatore a vita – in questo senso ritornano in mente le parole pronunciate poche settimane fa dal capo dello Stato Napolitano – oppure non scendere nell’agone politico entrando in gioco solo a competizione conclusa. Casini, Fini e Montezemolo gli farebbero da “scudieri”, mettendolo al riparo da un possibile fallimento elettorale che ne pregiudicherebbe qualsiasi impiego a posteriori. Del resto, come ha ricordato il presidente della Camera, ora il capo del governo «ha le mani libere» e «non è più obbligato ad essere super partes». Ma attenzione, perché proprio la fine anticipata della legislatura potrebbe spingere Monti a mollare tutto. In questo anno e poco più alla guida dell’Italia, il premier e i suoi ministri – che pure, spesso, ci hanno messo del loro con atteggiamenti poco sobri – sono stati attaccati aspramente sia a destra che a sinistra, complici una serie di misure che, indicatori alla mano, hanno salvato l’Italia dalla bancarotta ma senza invertire il trend negativo. Dunque il Professore “stanco” potrebbe tornare all’impegno accademico (secondo scenario) uscendo di scena fra gli applausi dei partner internazionali, che hanno accolto con preoccupazione la notizia della sua dipartita. La terza ed ultima ipotesi, consequenziale, è quella di un percorso separato delle tre compagini. Non è un caso che Casini continui a dialogare fitto con il segretario del Pd Bersani, che Fini cerchi un appiglio nientemeno che in quel che resta del Pdl e che sia Montezemolo che Olivero tentino di trovare una sponda proprio nei democratici («È necessaria un’intesa fra Bersani e Monti per il futuro dell’Italia», ha reso noto giorni fa il presidente delle Acli, sponsorizzato anche da Dario Franceschini). Chissà che a prevalere, alla fine, non sia proprio quest’ultimo scenario. L’incontro che si sarebbe dovuto tenere il prossimo 20 dicembre fra Casini, Fini e Montezemolo è stato messo in stand-by. Ma c’è chi giura che il progetto sia ormai stato definitivamente archiviato.

Twitter: @mercantenotizie

Dottor Massimo e mr. D’Alema – da “Sfera pubblica” (15/12/2012)

lunedì, dicembre 17th, 2012

Primo luglio 2012: «In un nuovo centrosinistra europeo Monti può trovarsi a perfetto agio. È una personalità liberale che con la sua azione può mitigare positivamente le resistenze stataliste che ci sono ancora tra i socialisti. La sua insistenza sul completamento del mercato unico è giusta. Ha posizioni che a me paiono compatibili con il nostro orizzonte programmatico».

Quattordici dicembre 2012: «L’ho detto a Monti personalmente, ora glielo dico pubblicamente: sta logorando la sua immagine. Preservi se stesso, sia utile al Paese, non si faccia coinvolgere negli spasmi di una crisi politica sempre più convulsa e sconcertante per i cittadini. (…) Trovo che sarebbe illogico e in qualche modo moralmente discutibile che il Professore scenda in campo contro la principale forza politica che lo ha voluto e lo ha sostenuto nell’operazione di risanamento. Avendo grande stima di lui spero che non lo farà».

È strano pensare che entrambe le dichiarazioni siano state rilasciate dalla stessa persona, e a distanza di pochi mesi. Eppure è così. Neanche fosse dottor Jekyll e mr. Hyde, con una incredibile capriola, Massimo D’Alema ha fatto “un passo indietro” rivalutando – in negativo – la figura di Mario Monti. Perché averlo come alleato va bene, ma contro no, questo il presidente del Copasir proprio non lo può sopportare. Perché «qui stiamo parlando del futuro del Paese e delle istituzioni, non stiamo all’asta delle poltrone», ha aggiunto. Sussulto d’orgoglio. O forse paura. Quella, cioè, di vedere il centrosinistra ancora una volta subalterno alle altre forze che compongono lo scacchiere politico italiano: la “discesa in campo” di Monti e la capacità di Casini e Montezemolo di muovere «truppe cammellate» a suo sostegno fanno sudare freddo i vertici di Largo del Nazareno.

Nel 2006 Prodi riuscì a compiere il miracolo, ma poi il suo progetto si squagliò come neve al sole neanche due anni dopo, complice il fatto di aver messo in piedi una coalizione che andava da Mastella a Bertinotti. Un’ammucchiata perdente che diede a Berlusconi e al Pdl la possibilità di tornare a governare potendo contare sulla più ampia maggioranza nella storia della Repubblica. Ora l’incubo potrebbe ripetersi. Tutto, ovviamente, dipende dall’ex Commissario europeo, che continua a glissare sul suo futuro ma che prima o poi dovrà prendere una decisione definitiva.

Ma torniamo a D’Alema che, “rottamato” Renzi, deve decidere cosa farà da grande. Nell’intervista rilasciata il 14 dicembre al “Corriere della Sera” l’ex ministro degli Esteri è stato chiaro: «Ho dato la mia parola, non mi ricandiderò». Aggiungendo: «Vorrei ricordare che non sono disoccupato: sono presidente della fondazione Italianieuropei e sono a capo – nientemeno che, verrebbe da dire, ndr – della Foundation of European Progressive Studies. Faccio parte dei vertici del Pse». Ed è anche giornalista professionista. Quindi chissà che, per schiribizzo, il premier del “ribaltone” non voglia togliere il posto a qualche illustre commentatore – o a qualche precario – rispolverando la gloriosa tessera dell’Odg.

C’è comunque chi lo indica nuovamente alla Farnesina. E lui, sornione, dice che se arriverà una chiamata la valuterà. Quindi niente deroga, quella lasciamola alla Bindi. Anche perché, dopo la fredda replica di Bersani («Non sono io a nominare i deputati») alle sue esternazioni di metà ottobre («Posso candidarmi se me lo chiede il partito») e le parole non certo al miele del vicesindaco di Vicenza – e portavoce del segretario alle primarie – Alessandra Moretti, D’Alema ha capito che una forzatura sarebbe controproducente. Quindi meglio restare alla finestra. E magari, nel frattempo, rileggere il celebre romanzo di Stevenson. Certo, non un’opera contemporanea, visto che è datata 1886. Però per lui, che è in Parlamento da quasi 24 anni, dovrebbe andare più che bene.

P.S. Chiunque trovi un provvedimento che porta il nome di D’Alema, e che ha cambiato il corso degli eventi in Italia, è pregato di farcelo sapere. Buona ricerca.

Twitter: @GiorgioVelardi

Libertà è partecipazione – da “Il Punto” del 7/12/2012

giovedì, dicembre 13th, 2012

Colloquio con Frank La Rue, il relatore speciale dell’Onu per la protezione della libertà d’espressione e di stampa. «Quella del giornalista dovrebbe essere la più libera di tutte le professioni, credo che la diffamazione vada depenalizzata. Il governo Monti? È di transizione e deve fare scelte precise. A breve chiederò un incontro ufficiale»

«The worst case». Il caso peggiore. Frank La Rue, il relatore speciale dell’Onu per la protezione della libertà d’espressione e di stampa, usa queste tre parole quando parla dell’Italia. Focalizzandosi, in particolare, sulla concentrazione del potere mediatico nel nostro Paese. Lo abbiamo incontrato la scorsa settimana, durante una visita-lampo a Roma. Il suo nome è legato a doppio filo alle nomine all’Agcom, l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, avvenute nel giugno scorso. Il 27 aprile, due mesi prima che le stesse fossero formalizzate, La Rue inviò una lettera al sottosegretario agli Esteri Staffan de Mistura. Scrisse: «Vorrei ribadire la mia preoccupazione relativa alla procedura istituita dal Parlamento italiano per la nomina dell’autorità di regolamentazione dell’Agcom, che dovrebbe essere assolutamente indipendente. Invito il governo italiano e il Parlamento – proseguiva la missiva – ad aprire il processo di nomina al pubblico», fornendo «le informazioni sui candidati sulla base dei programmi, tenendo consultazioni con la società civile come un segnale forte di trasparenza e di partecipazione aperta». Elementi che, insieme alla libertà di espressione, «sono fondamentali di ogni società democratica». La Rue concludeva dicendo: «In quanto relatore speciale Onu, vorrei offrire il mio sostegno e la cooperazione tecnica per queste iniziative. Sarei più che felice di viaggiare in Italia per assistere e rafforzare questo processo».

Che ne è stato del suo appello?

«Nessuno ha mai risposto. Speravo che con l’esecutivo guidato da Mario Monti potesse avvenire una rottura con il passato. Magari considerando i diritti umani una priorità. Invece tutto è rimasto com’è».

Perché, secondo lei?

«Non amo fare commenti parlando in generale, mi piacerebbe invece venire in visita ufficiale per investigare meglio ed essere più preciso…».

Nella sua ultima relazione, ad ottobre, lei cita l’Italia una sola volta. È sotto la dicitura «Country visits – Pending requests». Fra parentesi una data: 2009. Allora c’era Berlusconi…

«Ho chiesto diverse volte al suo governo un incontro ma, semplicemente, non c’è mai stata nessuna risposta. Ogni volta dicevano che ero il benvenuto ma dovevo aspettare il momento giusto. Che non è mai arrivato. Ora sto pensando di chiedere a questo governo di organizzare un incontro ufficiale. Vedremo quale sarà la risposta ma spero accetteranno perché in un periodo di transizione bisogna rafforzare i diritti e la partecipazione dei cittadini. Ciò può portare grandi benefici alla democrazia e al governo stesso».

Freedom House ha detto che dopo la caduta del governo Berlusconi in Italia c’è una maggiore libertà d’informazione. È davvero così?

«Credo ci sia una maggiore libertà di stampa, perché Berlusconi ha perso parte del suo controllo ed è una cosa buona. Però nel vostro Paese ci sono diversi punti critici…».

Quali, per esempio?

«Penso che l’Italia debba deregolamentare il fatto che ogni giornale e ogni forma di mezzo di comunicazione deve essere registrato. Per me questa è una violazione della libertà di espressione e della libertà di stampa. In molti Paesi del mondo non ci sono queste regole riguardo la registrazione, in particolar modo per ciò che riguarda i giornalisti. Nonostante sia importante, la professione non deve essere vincolata ad un particolare titolo di studio: il giornalista deve studiare ed essere preparato, ma questa non deve essere una condizione vincolante. I cronisti, poi, non devono essere obbligati a costituire un’organizzazione professionale, come succede in alcuni Stati. Si tratta di un’altra violazione della libertà di espressione. Personalmente credo nelle associazioni della stampa, ma non ci deve essere obbligatorietà».

In Italia accade tutto il contrario di quanto lei afferma…

«Quella del giornalista dovrebbe essere la più libera di tutte le professioni. Pensi al caso del citizen journalism, i cittadini-giornalisti. In situazioni particolarmente critiche, come il terremoto in Giappone o la guerra in Siria, ci sono persone che si armano di videocamera o cellulare con fotocamera e scendono nelle strade a documentare la situazione, postando poi sul web i loro contributi. Queste persone dovrebbero essere protette esattamente come i giornalisti di professione. Il fatto che in Italia ci siano delle condizioni per essere un giornalista e dei regolamenti per aprire un mezzo di comunicazione non è positivo. Queste sono solo reminiscenze del passato».

Nelle ultime settimane si è dibattuto molto di diffamazione, di mandare in galera i giornalisti ma non i direttori etc… Una matassa complicata da sbrogliare. Qual è la sua opinione in proposito?

«Credo che la diffamazione debba essere depenalizzata, rimanendo solo passibile di azione civile ed avere dei limiti. Non ci dovrebbe essere neanche la sanzione economica. Al limite, se proprio ci deve essere una multa, dovrebbe trattarsi di una somma simbolica. La diffamazione è usata come una forma di intimidazione, gli inglesi lo definiscono chilling effect».

Insomma, lo Stato che dovrebbe proteggere i giornalisti in realtà li sottopone a un “ricatto”…

«Una delle cose che mi spaventano è che nel mondo vedo aumentare i pericoli per i giornalisti: a quello di persecuzione legale sulla base della diffamazione si affiancano i crimini religiosi e un aumento di aggressioni fisiche ed uccisioni. Se il giornalismo diventa una professione così pericolosa, l’obbligo di un Paese  dovrebbe essere quello di proteggere particolarmente i giornalisti, non metterli ancora più in pericolo. I cronisti dovrebbero essere protetti in maniera speciale per il servizio che offrono alla società».

In Italia non abbiamo una legge sul conflitto di interessi…

«Io credo nei media pubblici, che devono essere assolutamente indipendenti. Di conseguenza, gli organi dirigenziali non devono essere eletti dal governo e ancora meno dal primo ministro, e devono essere assolutamente sganciati da tutti i partiti politici. L’Italia dovrebbe imboccare questa strada. Per questo, ad aprile, ho chiesto di essere invitato durante il processo di elezione dei membri dell’Agcom. Ma, come ho già detto, nessuno mi ha mai risposto e la nomina è avvenuta seguendo le solite regole. Questo non va bene».

Perché non si è provveduto ad un vero cambiamento?

«Forse perché qualcuno ha avuto paura di cambiare le regole. Credo invece che questo sia il momento per fare dei cambiamenti, ma ci vuole coraggio. Un governo di transizione deve fare una scelta: essere di passaggio per arrivare alla prossima legislatura oppure decidere di organizzare un cambio di passo, anche se questo può richiedere del tempo».

Avrà sicuramente letto della candidatura del giornalista americano Wolfgang Achtner, che si è proposto per la guida del “Tg1” senza ricevere alcuna risposta dal Consiglio di amministrazione della Rai. Cosa ne pensa?

«Credo che come non ci dovrebbero essere condizioni per praticare il giornalismo non ci dovrebbe essere neanche una “nazionalita” che lo impedisca. Basta citare il caso dei corrispondenti esteri. Se questi possono riportare le notizie dagli altri Paesi perché non possono anche lavorare per un media estero, sia esso pubblico o privato? Non c’è niente di male. Una sentenza della Corte dei diritti umani interamericana ha riguardato proprio un giornalista straniero che era andato in Costa Rica, dove non gli era stato permesso di fare il suo lavoro. Il verdetto ha stabilito invece che lui doveva poter svolgere la sua professione, perché non ci devo essere condizioni per fare il giornalista».

La telefonata di Alfano a Crosetto: «Guido dimmi, cosa devo fare?» – da “Il Punto” del 7/12/2012

mercoledì, dicembre 12th, 2012

C’è un’immagine che spopola negli ultimi giorni sui social network. In questa sono presenti tutti i candidati alle primarie del Pdl (Alfano, Crosetto, Meloni, Samorì, Santanchè…) con il volto di Berlusconi. E sotto uno slogan: «Oppure Silvio». È ormai chiaro che il Popolo della Libertà sarà guidato ancora dal suo fondatore. Il Cavaliere, malgrado i continui passi di lato, non ha intenzione di lasciare il campo a nessuno. Compreso Alfano. Che negli ultimi giorni ha ovviamente visto il suo progetto sbriciolarsi in mille pezzi. Mercoledì scorso, giorno in cui il tema delle primarie ha tenuto banco nella tensione generale, il segretario ha telefonato al collega di partito Crosetto, anch’egli in corsa per la guida del partito. «Guido dimmi, cosa devo fare?», ha chiesto Alfano all’ex sottosegretario alla Difesa. Un episodio singolare, sintomo della confusione che impera nel partito. «Non direi singolare, nel Pdl sono tutti allo sbando», rivela un ex componente del partito che ha assistito al colloquio fra i due esponenti. «Cosa farà Berlusconi? Prenderà il Pdl e ne cambierà il nome per provocare la scissione di una parte del gruppo dirigente (gli ex An, ndr). Sarà una separazione “provocata”», aggiunge ancora la nostra fonte. Ma è analizzando le sette parole chiave pronunciate da Alfano un anno e mezzo fa che si capisce il fallimento degli obiettivi prefissati.

Onestà. Quando fu nominato segretario, per «acclamazione», Angelino Alfano pronunciò una frase che scosse i più: «Dobbiamo lavorare perché il Pdl diventi un partito degli onesti. E visto che è un nuovo inizio, va detto che non tutti lo sono». Ma da un anno a questa parte le cose non sembrano essere cambiate granché. I casi Fiorito e Zambetti hanno aggravato ancora di più la situazione, andando ad ingolfare le fila di indagati e condannati del Pdl. L’ex capogruppo alla Regione Lazio è in carcere con l’accusa di aver «distratto» dalle case del partito ingenti somme di denaro, episodio che ha provocato le dimissioni della governatrice Renata Polverini. L’ex assessore alla Casa della Regione Lombardia, invece, avrebbe pagato 200mila euro alla ‘ndrangheta in cambio di un pacchetto di 4mila voti risultati decisivi per la sua elezione alle Regionali del 2010 (Zambetti raccolse in totale 11.217 preferenze). Al Pirellone fra gli indagati, che superano le dieci unità, ci sono anche Franco Nicoli Cristiani, Guido Bombarda (che già nel 2004 era finito agli arresti domiciliari con l’accusa di corruzione e truffa ai danni dell’Unione europea) e Massimo Ponzoni, tutti Pdl.

Sanzioni. Che non ci sono. Perché, strano ma vero, né Fiorito né Zambetti sono stati ancora espulsi dal Pdl. «Er Batman de Anagni» è stato sospeso, ma risulta ancora un componente del partito. Questo perché i Probiviri non si sono ancora riuniti. Pare che i 9 componenti del “tribunalino” aspettino che Fiorito esca dal carcere per ascoltarlo e prendere una decisione definitiva. Stesso discorso vale per Zambetti. Eppure Alfano ha recentementefatto sapere che «ladri, rubagalline, malfattori e gaglioffi» sarebbero stati «cacciati» dal Pdl. Promettendo «tolleranza zero». Ma i buoni propositi sono rimasti parole.

Merito. C’è un solo modo affinché questo permei il Pdl e la restante parte della politica italiana: la riforma della legge elettorale. Lasciare le cose come stanno, costringendo i cittadini a tornare alle urne e votare per la terza vota con il “Porcellum”, sarebbe un gravissimo errore. Non per i partiti, ovviamente. Se la legge Calderoli non fosse modificata almeno in parte Berlusconi potrebbe fare repulisti, inserendo nel listino bloccato i fedelissimi ed “epurando” i dissidenti. Un altro fallimento di Alfano che, insieme a Bersani e Casini, è da più di un anno all’opera per cambiare il sistema di voto. Senza ottenere risultati concreti.

Partecipazione e passione. Il Pdl è scivolato nei sondaggi, e oggi oscilla fra il 15 e il 18%. Un crollo verticale, se si pensa che alle elezioni del 2008 la formazione sfiorò il 40%. Le lotte intestine fra gli ex An e gli ex forzisti hanno fatto disinnamorare l’elettorato, facendo perdere al Popolo della Libertà qualsiasi capacità di coalizione. Lo testimoniano le «sberle» – tanto per utilizzare l’espressione usata dai leghisti dopo la disfatta alle Amministrative del 2011 – prese sul territorio fra lo scorso anno e quello in corso (vedi il caso-Sicilia). Oggi sono in pochi quelli che sceglierebbero di rivotare per Berlusconi, a meno che non si torni al passato rifondando Forza Italia e rompendo con la componente più a destra del partito.

Regole e primarie. Il partito è spaccato fra chi le vuole – l’ex ministro della Gioventù Giorgia Meloni e il sindaco di Roma Gianni Alemanno su tutti – e chi invece le reputa inutili, credendo che la rinascita debba passare da Berlusconi. Certo è che, mentre il Partito democratico porta oltre tre milioni di persone alle urne, il Pdl si avvita su se stesso provocando ulteriore malumore fra i votanti. E pensare che c’era chi, come Gaetano Quagliariello, avrebbe voluto che le primarie fossero «regolate per legge».

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Sarkò e Berlusconi leader a confronto – da “Il Punto” del 7/12/2012

martedì, dicembre 11th, 2012

Due esperienze che «non possono essere considerate delle parentesi nella storia politica dell’Italia e della Francia». Sono quelle di Silvio Berlusconi e Nicolas Sarkozy, che Sofia Ventura, politologa e docente presso l’Università di Bologna, ha messo a confronto ne Il racconto del capo (Editori Laterza, 18 euro, pp. 176).

Professoressa, cosa accomuna «una storia francese» e «una storia italiana», ossia Sarkozy e Berlusconi?

«La comparazione si basa sul fatto che tutti e due sono stati percepiti come animali politici “strani”, provocando una reazione quasi violenta da parte delle élite politico-culturali di Francia e Italia. Entrambi hanno rotto con alcune convenzioni, Berlusconi in maniera molto più dirompente per due motivi: il primo riguarda il sistema politico che lo ha preceduto, basato sulla centralità della Dc; il secondo fa riferimento ad un linguaggio in codice e poco chiaro al grande pubblico che lui ha modificato contrapponendone un altro che nelle grandi democrazie era già utilizzato. Anche Sarkozy ha adottato uno stile più diretto e colloquiale, utilizzando intensivamente la televisione e sfruttando la sua capacità di fare notizia. In Francia, però, la rottura è stata meno forte perché la modernizzazione della comunicazione politica è iniziata già negli Anni ’60».

Sia l’ex presidente francese che l’ex premier italiano rappresentano una politica di stampo personalistico fondata sul «corpo del leader». A suo avviso siamo giunti alla fine di una simile visione della cosa pubblica?

«No, perché certe tendenze sono difficili da fermare, anche se – vista la situazione in cui versano le democrazie europee – si può tornare ad una condizione di maggiore sobrietà. La personalizzazione è entrata nel modo di concepire la politica. Un esempio sono le primarie del centrosinistra. Il confronto fra Bersani e Renzi andato in onda mercoledì scorso ha messo di fronte due figure che incarnano altrettante visioni: quella più “collettiva” del segretario, che stigmatizza sempre l’idea di un “uomo solo al comando” ma che ha scelto tre giovani da opporre all’avversario in maniera autonoma, e quella del sindaco di Firenze, più coerente con una nuova concezione della leadership. Bersani fa un racconto della sua concezione della politica che non corrisponde a quanto accade nella realtà, anche dentro al Pd».

Quanto il sindaco di Firenze ha innovato la politica, soprattutto a livello comunicativo?

«Premesso che l’innovatore “principe” è stato Berlusconi, se pur con dei grandi limiti, Renzi ha avuto il coraggio di utilizzare all’interno del centrosinistra nuove forme di comunicazione. Questa specie di show che in questi mesi ha portato in giro per l’Italia, parlando come i candidati americani, gli ha permesso di costruire un linguaggio – a volte troppo semplificato – che ha il merito di rivolgersi prima di tutto ai cittadini».

Torniamo a Sarkozy e Berlusconi. Ha senso, secondo lei, la nascita di una nuova formazione guidata dal Cavaliere?

«Sarkozy, che ha 57 anni, ha ancora le capacità per unire il centrodestra francese. La stessa cosa non si può dire di Berlusconi. Anche se facesse una propria lista il Cavaliere potrebbe raccogliere una percentuale di voti compresa fra il 5 e l’8%, ma non avrebbe più alcuna capacità di aggregazione. La sua creatura avrebbe solo un carattere folkloristico, visto che sono in molti quelli che nel Pdl non tollerano più i suoi atteggiamenti. L’ultimo momento importante della sua carriera è stato quello del “Predellino”, dopodiché la disastrosa esperienza di governo ne ha messo a nudo i limiti. Ora l’obiettivo sembra essere quello di sopravvivere. È la fine triste di un leader, che sembrava dovesse cambiare l’Italia e ora chiede un minimo di spazio».

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