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Sanzioni ai dissidenti, Di Pietro sta con Grillo: “Assurde le accuse di fascismo e razzismo, la polizza l’ho inventata io”

mercoledì, febbraio 10th, 2016

Nel 2010 l’allora leader dell’Idv fu il primo a mettere nero su bianco una misura anti-voltagabbana. Da far firmare ai candidati alle Regionali. Con una penale da 100 mila euro in caso di tradimento. Per evitare nuovi casi-Scilipoti. “Giusto punire chi usa il partito come un taxi”, dice l’ex pm di Mani pulite. Che poi dà un consiglio al fondatore dei 5 Stelle: “Stia attento alla forma, altrimenti si rischia un effetto boomerang com’è successo a me. Alla fine sono rimasto cornuto e mazziato”   

di-pietro-675Questa volta Beppe Grillo è arrivato secondo.La ‘polizza anti-voltagabbana’ l’ho inventata io nel 2010 alla vigilia delle elezioni Regionali – dice fiero l’ex leader dell’Italia dei valori (Idv), Antonio Di Pietro, parlando con ilfattoquotidiano.it –. Sono contento che il fondatore del Movimento 5 Stelle abbia preso spunto da me, è giusto che chi viene eletto rispetti il volere popolare. Però mi permetto di dargli un consiglio, anzi due. Innanzitutto ‘voltagabbana’ è chi si fa eleggere in un partito e poi lo lascia per andare in un altro o comunque per farsi gli affari suoi, mentre tutt’altro discorso è avere opinioni diverse all’interno dello stesso partito. Il che invece è ampiamente comprensibile. In secondo luogo, il mio amico Beppe stia attento alla forma: in casi simili, alla fine, si rischia l’effetto boomerang”. Mentre proseguono le polemiche a distanza fra M5S e Pd sul documento che il partito di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio farà firmare ai propri candidati alle comunali di Roma (che prevede una multa da 150 mila euro per i dissidenti), l’ex pm di Mani pulite interviene nel dibattito ricordando il precedente che sei anni fa lo vide protagonista in prima persona. E aggiunge: “Una legge sui partiti? Mi auguro proprio che la facciano. Ma che c’azzecca? Qui il problema è un altro. E si chiama etica”.

Onorevole Di Pietro, dunque Grillo e Casaleggio avrebbero preso spunto da lei. Ma come funzionava la sua ‘polizza’?
In maniera molto semplice: i candidati nelle liste dell’Idv, se eletti, dovevano rimborsare le spese elettorali sostenute dal partito, versando una quota mensile di 1.500 euro che veniva trattenuta dalle strutture territoriali del partito stesso per il suo funzionamento.

In caso di ‘tradimento’?
In che senso? Non è certo un tradimento pensarla diversamente. Altra cosa invece è abbandonare il partito dopo essere stato eletto, fregandosene degli impegni presi con gli elettori. In tal caso era prevista una penale da 100 mila euro. Il motivo è molto semplice: durante la campagna elettorale un partito prende degli impegni politici con i propri elettori e investe sui suoi candidati anche importanti somme di denaro. Ma chi usa il partito come un taxi per farsi eleggere e poi pensare agli affari propri deve essere sanzionato in qualche modo. Altro che vincolo di mandato.

Adesso anche lei verrà accusato di fascismo e razzismo…
Ma che c’entrano il fascismo e il razzismo in questa storia? Si tratta di coerenza.

Dovrebbe chiederlo al Pd, i renziani sono scatenati.
Parliamo dello stesso Renzi che con i suoi voti di fiducia ricatta continuamente il Parlamento, i cui rappresentanti sono stati nominati dalle segreterie di partito grazie ad una legge elettorale dichiarata incostituzionale dalla Consulta, e che se dovessero votare la sfiducia andrebbero a casa e nessuno li ricandiderebbe più? Per favore…

Quindi lei si schiera dalla parte dei fondatori del M5S. O sbaglio?
È ovvio, pur con le suddette precisazioni e anche qualche consiglio in più sul piano tecnico della stesura del documento di  impegno. A Grillo e Casaleggio va la mia solidarietà per gli attacchi che sono stati rivolti loro in queste ore. Partiamo da un presupposto: i cosiddetti ‘voltagabbana’ non solo tradiscono il partito che decide di candidarli, ma soprattutto compiono una vera e propria truffa nei confronti degli elettori. È un fenomeno che va contrastato a tutti i costi. Ma bisogna stare attenti.

In che senso?
Il documento che il M5S farà firmare ai propri candidati andrà stilato stando attenti alla forma, altrimenti si rischia un effetto boomerang, com’è successo a me…

Si riferisce al caso di quel consigliere regionale eletto a suo tempo nelle file dell’Idv in Puglia che, subito dopo il voto, lasciò il partito?
A lui e non solo a lui. Sa com’è finita? Che il giudice ha bollato l’atto di impegno firmato dal candidato come “vessatorio”, e quindi sarebbe stata necessaria una seconda sottoscrizione di conferma. Insomma, un cavillo giuridico che ci ha fatto perdere la causa.

A lei, sei anni fa, nessuno disse nulla?
Ci mancherebbe pure, alla fine sono rimasto cornuto e mazziato. Per questo dico a Grillo di stare attento affinché non succeda pure a lui.

Un fatto curioso. Intanto oggi il Pd, per bocca del vicesegretario Lorenzo Guerini, è tornato a chiedere una legge sui partiti. Cosa ne pensa?
Ben venga, ma servirà davvero a qualcosa? Il nocciolo della questione è l’etica. Se un eletto non sposa più la linea del partito per il quale è stato eletto si deve dimettere e, al giro successivo, si ripresenterà con un’altra formazione. Non fa in continuazione il salto della quaglia. In Parlamento c’è gente che ha cambiato sette-otto volte casacca. Ma si può?

Si riferisce a Dorina Bianchi (Ncd), recentemente nominata sottosegretario alla Cultura?
Lei, ma non solo. A Renzi va bene così. Sempre meglio guardare in casa d’altri che all’interno della propria.

Twitter: @GiorgioVelardi

(Articolo scritto il 9 febbraio 2016 per ilfattoquotidiano.it)

Banca Etruria, parla Di Pietro: “Conflitto d’interessi di tutto il governo, evidenti responsabilità di Bankitalia e Consob”

sabato, dicembre 19th, 2015

L’ex pm ed ex leader dell’Italia dei valori duro con il premier e i suoi ministri: “Il problema non è solo la Boschi, che rischia di passare per vittima quando invece non lo è”. Ma anche contro i due organismi di controllo. A cominciare da via Nazionale: “È innegabile che ci sia stata un’omissione di atti d’ufficio”. Poi un consiglio ai magistrati: “Devono evitare che le prove vengano inquinate. In casi come questo gli inquirenti trovano quello che vogliono fargli trovare”

di-pietro-675Il conflitto di interessi? “Se c’è riguarda tutti, non solo una singola ministra”. Addirittura “è l’intero governo che va sfiduciato”. Il ruolo di Banca d’Italia e Consob nel crac di Banca Etruria? “Non c’è dubbio che vi sia stata da parte loro un’omissione di atti d’ufficio”. Antonio Di Pietro, ex componente del pool di Mani Pulite ed ex leader dell’Italia dei valori (Idv), due volte ministro, commenta così la vicenda che ha visto migliaia di clienti dell’istituto che annoverava fra i propri vertici anche il padre della ministra per le Riforme, Maria Elena Boschi, perdere milioni di euro di risparmi investiti in obbligazioni subordinate. “Mi auguro che nelle sue indagini la magistratura non abbia tentennamenti di alcun tipo – aggiunge l’ex pubblico ministero contattato da ilfattoquotidiano.it –. Va evitato qualsiasi pericolo di inquinamento delle prove. Io al tempo intervenivo ad horas, bloccando tutto ciò che poteva alterarle. Comprese le persone”. Cioè, anche con gli arresti.

Clienti truffati, vertici della banca coinvolti, omessi controlli da parte di chi doveva vigilare: Di Pietro, ce n’è quanto basta per scrivere l’ennesima brutta pagina di storia italiana.
È così. Questa situazione deriva dal fatto che nel nostro Paese il sistema dei controlli, con particolare riferimento a quelli sulle banche, fa acqua sia sul piano normativo sia effettivo. Tutti i soggetti coinvolti, a cominciare da Banca d’Italia e Consob, hanno fatto scaricabarile. Unito a ciò, mancano delle leggi precise per verificare che chi è addetto al controllo svolga bene il suo dovere. E quali sono le sanzioni in caso di violazioni. Non si può certo dire che situazioni come queste siano nuove agli occhi dell’opinione pubblica. Ma si è sempre rinviato il problema sine die.

A proposito di Bankitalia e Consob: il Fatto Quotidiano ha reso pubblica la lettera con cui due anni fa il governatore Ignazio Visco avvisò i manager di Banca Etruria del “degrado irreversibile” dell’istituto. Missiva rimasta però segreta. Un fatto grave, o no?
Penso che ci sia la necessità di un forte intervento della magistratura per ‘cristallizzare’ le prove documentali che si trovano nei vari uffici. Quante altre lettere come quella resa nota dal Fatto, utili alle indagini, ci sono? I magistrati le hanno in mano? Me lo auguro. In questi casi, a volte, gli inquirenti trovano quello che vogliono fargli trovare. Io al tempo intervenivo ad horas, bloccando tutto ciò che poteva inquinare le prove. Comprese le persone. Ricordo ancora le critiche…

Secondo lei, oltre a questi due organismi, chi altri ha responsabilità sulla vicenda?
Ci sono vari soggetti coinvolti e numerosi livelli di responsabilità. È però indubbia quella politica dell’intero governo.

Sta dicendo che le possibili dimissioni della ministra Maria Elena Boschi, o una sua eventuale sfiducia in Parlamento, non risolverebbero il problema?
Certe decisioni sono state assunte dall’esecutivo nella sua interezza: è l’intero organo collegiale che casomai va sfiduciato. Se c’è, il conflitto di interessi riguarda tutti, non solo una singola ministra. La quale rischia di passare per vittima quando invece non lo è. Personalmente, trovo positivo il fatto che si parli di una mozione di sfiducia: così si discute pubblicamente di un problema sperando che si arrivi all’approvazione di un provvedimento che eviti altri casi simili.

Su Banca Etruria sono già stati avviati tre filoni d’inchiesta. Compresa un’indagine sul conflitto di interessi originato dalla relazione della Banca d’Italia sul commissariamento dell’istituto nel febbraio 2015. Come valuta l’operato della magistratura?
In questo momento, la magistratura fa bene a indagare senza mettere le mani avanti incriminando una persona invece di un’altra, con il rischio, come ho già detto in precedenza, di far passare per vittima chi invece non lo è. Mi auguro che sul piano penale vengano differenziati i comportamenti. Ma non ci devono essere tentennamenti di alcun tipo.

Ma se fosse lei il pubblico ministero a capo dell’inchiesta agirebbe, o si sarebbe già mosso, diversamente?
Avrei già proceduto fermando lo status quo.

In che senso?
Come ho già detto in precedenza, sarei andato a prendere le carte in modo da far rimanere illibate le prove, evitando così qualsiasi possibilità di un loro inquinamento. L’unico pericolo reale, al momento, è proprio questo. E non si può limitare con provvedimenti cautelari personali ma reali.

Sempre il Fatto ha reso noto come il procuratore capo di Arezzo, Roberto Rossi, che sta indagando proprio su Banca Etruria, sia contemporaneamente consulente di Palazzo Chigi, nominato a febbraio 2015 dal governo Renzi. Siamo alle solite: chi controlla il controllore?
Credo che sia lo stesso Rossi ad aver capito di avere contemporaneamente il piede in due scarpe. Bene farebbe a lasciare l’incarico ad un altro collega. Succederà? Non lo so. Certamente, a questo punto, la palla passa nelle mani del procuratore generale: è lui che dovrà valutare il da farsi.

Nel frattempo, proprio su Rossi, il Consiglio superiore della magistratura (Csm) ha aperto un fascicolo accogliendo la richiesta presentata dal membro laico Pierantonio Zanettin (Forza Italia). Si prefigura un’ipotesi di conflitto di interessi?
Sul piano tecnico, nel caso specifico, non ci sono profili di questo tipo: infatti Palazzo Chigi non risulta fra i soggetti oggetto di indagine. C’è però un problema di opportunità. Trovo sia interesse di entrambe le parti quello di far svolgere le indagini a persone che non hanno rapporti di alcun tipo. Serve una maggiore tranquillità per arrivare ad una decisione indipendente e inattaccabile.

A suo avviso bisognerebbe indagare anche i vertici di Bankitalia e Consob? Hanno chiare responsabilità su quanto è accaduto?
Non so quali specifici soggetti abbiano delle effettive responsabilità, ma non c’è dubbio che vi sia stata un’omissione di atti d’ufficio. Bankitalia è arrivata fino al punto di accertare il fatto, poi non ha agito sostenendo di non avere potere normativi sufficienti. Non credo che sia così: non ho mai visto un medico diagnosticare una grave malattia e poi lasciare morire il paziente.

Torniamo alla Boschi. Renzi la difende a spada tratta: sembra di rivedere i berlusconiani che negavano qualsiasi tipo di conflitto d’interessi per l’uomo di Arcore…
In verità il presidente del Consiglio difende se stesso. Il problema qui è un altro.

E qual è?
Quando al governo c’era Berlusconi io e altri, a cominciare dalla società civile e dal sistema dell’informazione, denunciavamo quanto accadeva. Perché era nostro dovere farlo. Oggi invece, con Renzi a Palazzo Chigi, tutti si sono girati dall’altra parte. Ciò mi lascia molto amareggiato.

Insomma, ha ragione Roberto Saviano a denunciare l’uso di due pesi e due misure?
È così. Il problema non è la società civile ma come essa viene aiutata a capire come stanno realmente le cose. Tutti i giorni, a sistema informativo riunito, veniamo ‘colpiti’ dagli slogan di Renzi che assomigliano a quelli di un venditore ambulante. Senza alcun contraddittorio. Di più: quando qualcuno lo contesta, come successo al Fatto, diventa un ‘criminale’.

Oggi è come ai tempi di Tangentopoli?
È peggio di prima perché ciò che un tempo poteva essere perseguito sul piano tecnico-giudiziario ora non lo è: si è ingegnerizzato il sistema della tangente. In certi casi è diventato legale ciò che una volta non lo era. Infine, è intervenuto uno scoramento dell’opinione pubblica a cui si è fatto credere che spesso le colpe sono di chi ha scoperto il reato, non di chi lo ha commesso.

Twitter: @GiorgioVelardi

(Articolo scritto il 18 dicembre 2015 per ilfattoquotidiano.it)

Qualcosa di sinistra – da “Il Punto” del 21/12/2012

venerdì, dicembre 28th, 2012

Luigi de Magistris lancia il Movimento Arancione e prepara l’alternativa al Monti-bis. Idv, Rifondazione, Comunisti italiani e Fiom saranno della partita così come il magistrato Antonio Ingroia, che potrebbe essere candidato premier. Mentre Bersani apre all’accordo con i moderati dopo le elezioni

ingroia_demagistris-dipietroDiceva Marcello Marchesi, eclettico intellettuale italiano scomparso nel 1978, che «la rivoluzione si fa a sinistra e i soldi si fanno a destra». Chissà se nel dare vita al suo Movimento Arancione Luigi de Magistris avrà preso spunto da quella frase. Perché lui non ne ha mai fatto mistero: vuole fare «la rivoluzione governando». Slogan che gli ha permesso di vincere a Napoli e grazie al quale ora vuole puntare al colpo grosso. Roma. Il Parlamento. L’alternativa al governo Monti. «Siamo un Movimento di donne e di uomini con la schiena dritta che hanno il coraggio di combattere», ha spiegato l’ex magistrato presentando la sua creatura. Perno centrale di “qualcosa di sinistra” che si batte contro «un mondo dove i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri» e affinché «i partiti tornino ad essere quelli di Gramsci e Berlinguer». De Magistris, comunque, non è da solo. A “sinistra della sinistra” sono tutti in fermento. Vecchi e non, usato sicuro e facce nuove. Mettere tutti d’accordo non sarà facile, e il sindaco di Napoli ha assicurato che «questo non è il posto dove qualcuno si da una riverniciata». Ma il tempo stringe, e Bersani che apre a Casini (malgrado l’oltranzismo di Vendola) lo fa per un semplice motivo: arginare la possibilità di un Monti-bis che prende corpo in maniera sempre più concreta.

Via dunque alla nascita di un Quarto Polo che sia alternativo ai centristi, che permetta all’asse trilaterale Pd-Sel-Psi di trovare un alleato forte che garantisca una solida maggioranza nelle due Camere e che scongiuri lo spettro di altri cinque anni di rigore eterodiretto. Che, soprattutto, guardi a realtà come “Cambiare si può”, neonato soggetto politico-culturale che vede al suo interno la presenza di personalità quali il sociologo Luciano Gallino, lo storico Marco Revelli e il magistrato antimafia Livio Pepino (più esponenti di Fiom e Prc). «Ci sembra che il centrosinistra di oggi abbia molto poco di sinistra. È più sinistro, che di sinistra», ha recentemente dichiarato de Magistris. Che pure non ha chiuso le porte ai democratici, a patto che – ha aggiunto il primo cittadino campano – «Bersani metta in campo una proposta politica alternativa a tutto quello che il Pd ha fatto finora». Gli incontri e i contatti, negli ultimi giorni, si sono intensificati. Le elezioni alle porte costringono gli arancioni a lavorare a ritmi serrati, anche perché fra il 4 e il 13 gennaio bisognerà depositare il simbolo e le liste elettorali. Certo, un modo per uscire dall’impasse ci sarebbe: un’alleanza senza «se» e senza «ma» con l’Italia dei valori di Antonio Di Pietro. «Se c’è spazio per loro? Assolutamente sì», ha risposto de Magistris a chi gli chiedeva di un accordo con l’ex pm, che era in platea al Teatro Eliseo di Roma nel giorno del lancio del Movimento. Potrebbe essere un do ut des. Se infatti l’Italia dei valori entrasse a far parte della neonata famiglia arancione non ci sarà bisogno di raccogliere le firme da zero. E si potrebbe cambiare il simbolo ottimizzando i tempi. Elementi non secondari. Ma su quest’ultimo punto, nel partito di “Tonino”, le voci critiche non mancano. Sabato scorso, durante l’assemblea generale dell’Idv, il sindaco di Palermo Leoluca Orlando è stato chiaro: «Dobbiamo andare alle elezioni con il nostro simbolo, il gabbiano deve tornare a volare. Ma siamo al servizio di tutti coloro che in questo Paese sono contro Berlusconi e Monti». Ancora: «Se dovesse esserci la volontà di ampliare il fronte saremmo disponibili al dialogo, ma il partito deve continuare ad esistere. E comunque tutte le decisioni vanno prese attraverso un esecutivo nazionale» (che si svolgerà il prossimo 27 dicembre).

Di più ha fatto Francesco “Pancho” Pardi, il quale ha distribuito ad alcuni militanti un documento di due pagine in cui ha sottolineato che nel caso in cui il partito confluisca «nell’alveo del Movimento Arancione si verificherà al massimo il salvataggio di una parte assai limitata della nostra classe dirigente nazionale. E come questa si mescolerà a tutti gli altri soggetti confluenti – concludeva il senatore dipietrista – è materia di incertezza del futuro». E Di Pietro? Il suo intervento è stato un mix di rabbia e orgoglio. Il leader dell’Idv ha chiesto a Bersani «di rispondere a chi chiede l’unità del centrosinistra. Se saremo chiamati a rappresentare l’alternativa al governo Monti – ha tuonato rivolto al vincitore delle primarie – allora vuol dire che il vero centrosinistra siamo noi». Poi il messaggio, diretto senza giri di parole, ai possibili alleati: «È arrivato il momento di metterci la faccia, la firma e il nome. Noi non siamo asini da soma, non abbiamo bisogno di gente che dice: “Appena vinci sto con te”. Vogliamo unirci a quelle forze che la pensano come noi, a quelle realtà che parlano allo stesso elettorato. Le persone che si riconoscono nel Movimento Arancione sono quelle che condividono i principi dell’Italia dei valori. Chi vuole intraprendere un cammino insieme esca allo scoperto. Noi alle elezioni ci saremo, soli o ben accompagnati». Un appello il cui destinatario, fanno sapere fonti dell’Idv, non è solo de Magistris, ma anche tutte quelle forze sociali e sindacali con cui recentemente il partito ha aperto un dialogo. Non è un mistero che, grazie alla mediazione dell’ex segretario Fiom Maurizio Zipponi (ora responsabile lavoro dell’Idv), negli ultimi mesi i contatti fra Di Pietro e Landini si fossero intensificati. Poi, con la “maledetta” puntata di Report e il crollo verticale nei sondaggi patito dall’Idv (che oscilla ora fra l’1,5 e il 2%), i rapporti sono stati congelati. E, sempre per restare sull’argomento, il sindacato dei metalmeccanici figura tra le forze che hanno presentato in Cassazione i due quesiti referendari per abrogare le modifiche all’articolo 18 e all’articolo 8 dello statuto dei lavoratori. Nella “foto del Palazzaccio”, oltre a Nichi Vendola, ci sono anche il presidente dei Verdi Angelo Bonelli, il segretario del Pdci Oliviero Diliberto e quello di Rifondazione Comunista Paolo Ferrero. Gli ultimi due hanno espresso le loro perplessità su una possibile alleanza fra l’orizzonte arancione e il duo Pd-Sel. Per Ferrero, in particolare, «le proposte che fa Bersani aggravano la crisi. A rincorrere il Pd impieghiamo male il nostro tempo». Più cauto Diliberto: «”Con i democratici a tutti i costi” e “mai con loro” sono entrambe posizioni sbagliate – ha spiegato dalle colonne de Il Manifesto –. È ovvio che io preferisco stare nel centrosinistra, ma non ad ogni costo».

In molti, però, concordano sulla possibilità che sia il magistrato Antonio Ingroia il candidato premier ideale del Quarto Polo. Un’idea che lo stesso de Magistris ha lanciato pochi giorni fa nel corso di un’intervista a MicroMega, e che ha etichettato come «un grande segnale di discontinuità, un elemento di rottura e di costruzione nello stesso tempo». Per il momento «il partigiano della Costituzione» ha mostrato cautela. «Sto prendendo in considerazione in che modo aiutare questo Movimento, ciascuno deve assumersi la sua responsabilità in questo momento del Paese» ha spiegato il magistrato prima di precisare che «correre troppo non è mai consigliabile. Io non vesto toghe o casacche colorate, né rosse né arancioni». L’appoggio a Ingroia, che stava indagando sulla trattativa Stato-mafia prima di accettare la nomina a direttore di un’unità di investigazione per la lotta al narcotraffico su incarico dell’Onu in Guatemala, ha fatto fare un momentaneo passo indietro a due possibili componenti del Movimento Arancione: il sindaco di Milano Pisapia (Sel) e quello di Bari Emiliano (Pd), che sposerebbero il progetto solo se lo stesso si ponesse nell’alveo del centrosinistra. Per il momento, comunque, quello degli arancioni è un work in progress. Ora palla passa nel campo di Vendola e Bersani. Ma è certo che, se il segretario del Pd continuerà ad affermare che la sua ricetta per il 2013 è «l’agenda Monti più qualcosa», la possibilità di coalizzarsi sarà morta ancora prima di cominciare.

Twitter: @mercantenotizie

«Il Quarto Polo non segua il centrosinistra. Il Pd? Ha appoggiato politiche di destra» – da “Il Punto” del 21/12/2012

mercoledì, dicembre 26th, 2012

Il Fatto del Giorno trasmissione TvBersani lo ha deluso, perché «ha accettato totalmente le proposte di austerità e i sacrifici imposti, che hanno aggravato pesantemente la crisi». Mentre Vendola «dice una cosa e ne fa un’altra. Pensare di fare la sinistra con chi vuole applicare l’agenda Monti è una cosa senza senso». Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione comunista presente al battesimo del Movimento Arancione, parla chiaro: il Quarto Polo non deve cercare un’alleanza con l’attuale centrosinistra (Pd e Sel). «Si poteva trovare un accordo prima della formazione del governo Monti, oggi credo che non abbia alcun senso», afferma.

Ferrero, a che punto è la costruzione di quello che è già stato definitivo Quarto Polo?

«Mi sembra a buon punto. C’è un orientamento espresso da “Cambiare si può”, di cui Rifondazione comunista fa parte; poi c’è il Movimento Arancione che si sta muovendo nella stessa direzione e mi sembra che anche l’Italia dei valori, nell’assemblea di sabato scorso a Roma, abbia intrapreso la stessa rotta. Noi ci siamo: confido che a breve si riesca a portare a termine un atto costitutivo di questa lista».

Qualcuno ha detto di sentire odore di Sinistra arcobaleno…

«Non c’entra niente. La Sinistra arcobaleno era l’unione dei vari pezzi della sinistra che erano presenti all’interno della maggioranza nel biennio 2006-2008 e che furono messi insieme dopo una sconfitta. Qui si stanno combinando forze sociali che sono state all’opposizione del governo Monti, che sono contrarie alle politiche liberiste e che si pongono l’obiettivo di dare una rappresentanza politica a quella società che non ci sta, che è stata devastata da quanto è accaduto nell’ultimo anno. Siamo passati dal mettere insieme i cocci postumi ad un fallimento al vedere la nascita di un’opposizione da sinistra alle politiche neoliberiste in Italia».

Nei giorni scorsi lei, parlando di Bersani, non ha usato parole tenere: «Le sue proposte aggravano la crisi». Cosa rimprovera al segretario del Pd?

«L’aver accettato totalmente le proposte di austerità e i sacrifici imposti, che hanno aggravato pesantemente la crisi. La cosa peggiore è stato l’intreccio tra fiscal compact e pareggio di bilancio in Costituzione, perché l’origine della crisi stessa è la cattiva distribuzione del reddito: ricchi troppo ricchi e poveri troppo poveri. Ciò ha abbattuto i consumi e l’economia portandoci alla recessione e alle ingiustizie sociali. Il Pd ha appoggiato classiche politiche di destra, proposte da un governo che è stato il peggiore dal dopoguerra ad oggi».

Sentendola parlare, mi pare di capire che per lei il Quarto Polo non debba cercare un’alleanza con Pd e Sel…

«Assolutamente. Si poteva trovare un accordo prima della formazione del governo Monti, oggi credo che non abbia alcun senso. Non si può avere dialogo con chi per un anno massacra le pensioni, l’articolo 18, mette il pareggio di bilancio in Costituzione, porta avanti la “spending review” e nel frattempo trova 11 miliardi per le banche private».

È più deluso dal segretario del Pd o da Vendola?

«Vendola dice una cosa e ne fa un’altra. Non si possono fare determinate affermazioni e poi allearsi con chi ripete che l’agenda Monti è la sua agenda. O Vendola sta con Bersani e accetta le cose che dice – tenendo conto che il leader del Pd ha vinto le primarie e quello di Sel le ha perse – oppure fa la sinistra. Pensare di fare la sinistra con chi vuole applicare l’agenda Monti è una cosa senza senso».

Cosa pensa della presenza di Di Pietro e, eventualmente, di Ingroia?

«L’Italia dei valori ha fatto opposizione a Monti da sinistra. Credo che questo basti. Nell’anno in cui i tecnici hanno governato, il partito di Di Pietro si è opposto alle loro politiche: penso sia assolutamente necessario che l’Idv sia della partita. Per quanto riguarda Ingroia, personalmente va benissimo, nel senso che è una persona che ha dimostrato in questi anni di sapere combattere la mafia e contrastare i poteri forti».

De Magistris lo ha indicato addirittura come candidato premier. Lei condivide?

«Sì, perché Ingroia è l’emblema della necessità che abbiamo, ovvero quella di rimettere in piedi la democrazia – a partire dalla questione morale – e opporci radicalmente alle politiche neoliberiste che stanno distruggendo il Paese».

Twitter: @mercantenotizie

Lui, loro e l’altro – da “Il Punto” del 30/11/2012

giovedì, dicembre 6th, 2012

Il capo dello Stato ricorda che il Professore «non si può candidare perché già parlamentare», il premier afferma di essere pronto a «dare un contributo». Udc, Montezemolo e frange di Pd e Pdl lavorano affinché a Palazzo Chigi ci sia ancora lui. Rendendo inutili le primarie e lavorando ad una legge elettorale che favorisce l’ingovernabilità   

Maria Stella Gelmini, ex ministro dell’Istruzione rimasta celebre per il tunnel fra il Cern e il Gran Sasso, dice di «vedere positivamente» la possibilità di un Monti-bis per arginare «il rischio di avere tra qualche mese al governo una sinistra tutt’altro che riformista e teleguidata dalla Cgil». Aggiunge ancora che «Montezemolo ci interessa, perché appare più consapevole di Casini del grave pericolo che corriamo di consegnare il Paese ad una sinistra inadeguata per governare». Un altro dei pezzi da novanta del Pdl, Franco Frattini, si sbilancia e afferma che alle primarie sosterrà Alfano, ma che «se Monti è in campo va sostenuta una grande alleanza dei moderati con Casini e Montezemolo». La forma non è cambiata (i «comunisti» demonizzati da Berlusconi sono ancora lì come uno spauracchio, così come la Cgil), la sostanza invece sì. Perché se da una parte c’è chi si batte per fare del Pdl un partito dove la «libertà» non sia solo la terza parola che ne compone il nome, dall’altra c’è chi lavora affinché il Professore rimanga a Palazzo Chigi anche dopo l’esperienza tecnica. Con un alleato d’eccezione: Giorgio Napolitano.

COMPROMESSO SUL COLLE - Sembra esserci un patto non scritto fra il Popolo della Libertà e il Quirinale: elezioni anticipate (al 10 marzo?) onde evitare che i “berluscones” facciano cadere il governo in un momento decisivo come quello attuale per poi fare in modo che Monti rimanga dov’è attualmente. Ciò permetterebbe al Pdl di non scomparire dalle scene (oggi il partito oscilla fra il 15 e il 18 per cento) e a Napolitano di sciogliere le Camere poco prima che il “semestre bianco” glielo impedisca dando vita al nuovo governo. Certo, l’inquilino del Colle ha provato a mettere ordine per evitare di “sponsorizzare” eccessivamente l’ex rettore della Bocconi. Pochi giorni fa il capo dello Stato ha avvisato che Monti «non si può candidare in Parlamento perché già parlamentare», e che «ha uno studio a palazzo Giustiniani dove dopo le elezioni potrà ricevere chiunque vorrà chiedergli un parere, un contributo o un impegno». Molto probabilmente, il presidente della Repubblica ha paura che un eventuale insuccesso elettorale di una “lista-Monti” o di un partito che appoggi o sia addirittura guidato da lui possa rovinare la festa ancora prima che questa cominci. La base di partenza è comunque solida. La “discesa in campo” di Montezemolo a sostegno dell’attuale premier e Casini che ripete come una litania che «dopo Monti c’è Monti» fanno presagire che Bersani debba mettere nuovamente da parte i sogni di gloria e lasciare strada a qualcun altro. Dal canto suo il diretto interessato, “tirato per la giacca” in più occasioni dai giornalisti, è passato dal «no comment» al «rifletterò su tutte le possibilità in modo da poter ancora dare il mio contributo per il migliore interesse dell’Italia europea». Frase, quest’ultima, che pronunciata nel giorno del primo turno delle primarie del centrosinistra ha avuto un retrogusto amaro dalle parti di Largo del Nazareno. Anche perché poi Monti ha usato la tecnica del bastone e della carota. Prima ha dichiarato che dopo le elezioni «un altro governo tecnico sarebbe una sconfitta per la politica», e poi ha aggiunto che il suo esecutivo ha svolto una «attività schiettamente politica». Come a dire: tutti sono necessari, ma nessuno è indispensabile.

BERSANI AL BIVIO - Non che pensasse di vincerle in scioltezza, ma il ballottaggio alle primarie del centrosinistra costringe il segretario del Partito democratico a rubare tempo e spazio alla costruzione dell’alternativa di governo. Domenica Bersani dovrà (nuovamente) vedersela con Matteo Renzi, che al primo turno ha raccolto nove punti in meno di “Pier Luigi”. Il sindaco «rottamatore» prepara la festa, mentre il segretario è sicuro di uscire vincitore. Certo è che, una volta ottenuto il successo, per Bersani i nodi da sciogliere saranno numerosi. Prima di tutto c’è la legge elettorale. Malgrado si tratti per abbassare la soglia del 42,5 per cento utile per ottenere il premio di maggioranza – e messi da parte pure gli “scaglioni” previsti da Calderoli – la sostanza è che ad oggi nessuna coalizione arriverebbe tanto lontano. Ecco che Casini, con il quale Bersani continua a dialogare quotidianamente (il leader Udc, pochi giorni prima delle primarie, si augurava un successo di “Pier” al primo turno), potrebbe quindi risultare decisivo. Chiedendo qualcosa in cambio dell’appoggio, ovvero che Monti faccia il premier. Non è un caso che nell’ultima settimana il segretario del Partito democratico sia tornato a strizzare l’occhio ad Antonio Di Pietro, che negli ultimi mesi sembrava lontano anni luce dai progetti dei democrat per via dei continui attacchi al governo dei tecnici e al presidente della Repubblica. Per ora si tratta di «un’alleanza con molti “se”», perché c’è bisogno di «gesti politici significativi». Ma la riapertura delle porte all’ex pm – che ultimamente ha visto la sua creatura perdere pezzi di giorno in giorno – è significativa. Questo perché, oltre a guardarsi attorno, Bersani sa di dover tenere gli occhi aperti anche dentro casa sua. La truppa dei democratici che sostengono la necessità di un Monti-bis è sempre in agguato. Per capirlo basta ascoltare Stefano Ceccanti, che di recente si è inerpicato in un ragionamento tanto articolato quanto emblematico. Siccome «l’attuale legge elettorale non prescrive che ci sia il nome del candidato premier sulla scheda», ha affermato senatore di scuola veltroniana ad Avvenire, «chiunque voglia può mettere sulla scheda il suo preferito per Palazzo Chigi. Chiunque, insomma, può indicare Monti». Più chiaro di così…

CONFUSIONE PDL - «Chi ci capisce è bravo», recita il vecchio adagio. È ciò che accade nel Pdl, dove l’atteggiamento di Berlusconi continua a mettere alla prova i nervi di Angelino Alfano gettando il partito nel caos più completo. La lettura che si può dare del suo comportamento è la seguente: il Cavaliere vuole ostacolare l’operato del “delfino” in modo da mostrare che effettivamente il «quid» non c’è (ciò si tradurrebbe, in concreto, nella mobilitazione di “truppe cammellate” contro Alfano alle primarie, sempre che si facciano, per non farlo andare troppo lontano) per poi fondare una nuova creatura e tornare in sella più convinto che mai. Pare che il “nuovo” soggetto politico dovrebbe chiamarsi – non a caso – Forza Italia. Magari vicino ci si metterà quel ”2.0” che sa di rinnovamento ma ha il retrogusto dell’usato sicuro. I più vicini al Cavaliere (fra cui la sondaggista Alessandra Ghisleri) lo hanno avvisato: «Attenzione, c‘è il rischio di segnare un clamoroso autogol». Ma in caso di eventuale disfatta è già pronta la scialuppa di salvataggio, il Monti-bis. Scenario che solo quattro giorni fa Berlusconi non ha escluso: «Questa sua posizione lo pone fuori dal contrasto politico. Se lui riterrà di poter essere utile al Paese e alcune forze politiche saranno dell’idea, ci si potrà rivolgere a lui», ha avvertito “Silvio”. Molto dipenderà dal risultato finale delle primarie del centrosinistra. Se la vittoria andrà a Bersani, Berlusconi potrebbe decidere di sciogliere le riserve e affrontare la corsa a Palazzo Chigi. Non sarebbe la prima volta. E forse neanche l’ultima.

Twitter: @mercantenotizie

«Le primarie non siano la resa dei conti nel Pd. L’Idv? Più vicino al centrosinistra dell’Udc» – da “Il Punto” del 28/09/2012

giovedì, ottobre 4th, 2012

Pina Picierno ha 31 anni, eppure non è fra i «rottamatori» del Pd. Sostiene Bersani, ma definisce Renzi «una delle nostre risorse migliori». Auspica «un riavvicinamento fra Pd e Idv». Poi chiosa: «Spero si faccia una buona legge elettorale, ma senza le preferenze: in alcune zone sono sinonimo di cattiva politica e malaffare».

Le primarie sembrano una cosa “da uomini”. Possibile che, a parte Laura Puppato, non ci siano altre donne a rappresentare il Pd?

«Nel Pd ci sono donne brave e competenti. Persone che possono rappresentare il futuro – penso a Debora Serracchiani e a Laura Puppato – e che sono già colonne portanti della nostra classe dirigente. Il senso delle primarie non va stravolto: dalla contesa uscirà il possibile successore di Monti, non vorrei si trasformassero in una resa dei conti fra i movimenti interni al partito».

Lei dice di sostenere Bersani, però su Matteo Renzi ha avvisato: «Basta attaccarlo, fargli la guerra è tafazzismo». Quindi?

«Renzi è fra i più bravi nell’intercettare gli umori degli italiani, quindi snobbarlo è un errore. Io sono “bersaniana” perché – come dice il segretario – lavoro per la ditta. Le risorse vanno valorizzate, per questo non mi piace il comportamento di alcuni dirigenti che non capiscono che la classe politica – e più in generale quella dirigente dell’Italia – ha bisogno di rinnovamento. Da Renzi prendo le distanze rispetto alle sue idee in ambito economico, soprattutto quando dice di stare con Marchionne. Deve lavorare di più sui contenuti e meno sugli slogan».

Eppure qualcuno già parla di un accordo fra lui e Bersani dopo la vittoria di quest’ultimo alle primarie…

«A giudicare dallo spessore del confronto non credo ci sia nulla di precostituito. Dobbiamo capire bene se queste saranno primarie di partito o di coalizione. Se fossero interne al Pd, allora sarebbe meglio prendere una decisione attraverso il congresso».

Capitolo alleanze: come giudica una possibile partnership con l’Udc?

«Credo che l’alleanza fra l’Udc e il Pd convenga più a loro che a noi. In molte regioni, compresa la “mia” Campania, i centristi sono alleati con il Pdl. E Casini è lo stesso che ha governato con Berlusconi fino al 2006. Non si può essere uomini per tutte le stagioni, c’è bisogno di chiarezza».

Vendola probabilmente sarà della partita, Di Pietro (per ora) no. Con l’Idv non c’è margine di trattativa?   

«Di Pietro è dentro il centrosinistra molto più dell’Udc. Spero in un riavvicinamento fra noi e l’Idv: non ci guadagnerebbe solo il partito, ma gli italiani».

Twitter: @GiorgioVelardi

Attenti a quei due – da “Il Punto” del 14/09/2012

giovedì, settembre 20th, 2012

Una parte del mondo politico lavora per il Monti-bis, ma il tema dell’occupazione salda i rapporti fra il partito di Di Pietro e il sindacato dei metalmeccanici guidato da Landini all’insegna dei referendum. Il sondaggista Noto: «La Fiom può valere un balzo in avanti del 2/2,5%». A danno del Pd

L’autunno non è caldo, è bollente. Ci sono casi di crisi aziendali che non finiscono sui giornali». Ancora una volta, con un linguaggio diretto e spesso non in sintonia con quello dei suoi predecessori, è il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi a disegnare lo scenario che attende l’Italia nei prossimi mesi. Perché quello del lavoro è, e resterà a lungo, il tema «bollente» – per dirla come il numero uno degli industriali – del dibattito pubblico. È sufficiente leggere i dati, del resto; basta osservare quanto sta accadendo a tre storiche realtà della nostra penisola come Ilva, Alcoa e Carbosulcis per capire che qualcosa non va. Eppure le forze politiche che appoggiano il governo Monti sembrano guardare con disinteresse agli ultimi accadimenti. E al di là di qualche semplice annuncio-spot («Basta tasse», ripete quotidianamente il segretario del Pdl Angelino Alfano, mentre il Pd è preoccupato dall’avanzata del «rottamatore» Renzi e al centro è partita la campagna acquisti dell’Udc), il silenzio comincia a fare rumore. Proprio intorno alla questione dell’occupazione potrebbe saldarsi un nuovo asse, che sposterebbe i già fragili equilibri elettorali nel centrosinistra: quello fra l’Italia dei valori di Antonio Di Pietro e la Fiom, il sindacato dei lavoratori metalmeccanici guidato da Maurizio Landini.

REFERENDUM E ADDIO PD – Il punto d’incontro fra le due realtà non è solo l’ostinata opposizione al governo Monti e ai provvedimenti che quest’ultimo ha finora varato. Negli ultimi mesi i contatti fra Di Pietro e Landini si sono intensificati, e l’appoggio della Fiom ai due referendum sul lavoro che l’Idv ha presentato pochi giorni fa in Cassazione (hanno aderito anche Sel, i Verdi, il Prc e il Pdci. La raccolta delle firme inizierà a metà ottobre) non è che la punta dell’iceberg. Attraverso i due quesiti (a cui si aggiungono quelli sull’abolizione della diaria dei parlamentari e sull’abrogazione del finanziamento pubblico ai partiti), la formazione guidata dall’ex pm chiede il ripristino dell’articolo 18 (modificato con la riforma Fornero) e quello del valore universale dei diritti previsti dal contratto nazionale di lavoro (eliminato dal governo Berlusconi con l’articolo 8 del decreto legge n. 138 del 2011). Due dei capisaldi del più antico sindacato industriale italiano, che dall’insediamento dell’esecutivo guidato dall’ex Commissario europeo ha visto venire meno il dialogo con il Partito democratico. Il punto di non ritorno è stato la mancata partecipazione dei vertici del Pd alla manifestazione della Fiom tenutasi a Roma lo scorso 9 marzo. Quello sull’adesione (o meno) all’appuntamento di piazza fu un balletto che durò un mese, e che spaccò la compagine bersaniana. Alla ferrea posizione dell’ala veltroniana – con l’ex segretario che definì «incoerente» un’eventuale partecipazione dei democrat – si contrapposero i vari Fassina, Damiano e Orfini. Proprio il responsabile culturale del partito arrivò a dichiarare: «Appoggiamo un governo assieme a Sacconi e Gasparri, per le ragioni che conosciamo e condividiamo, e adesso, proprio chi non esita a sostenere la necessità di prolungare il più possibile questa esperienza, persino oltre il voto, trova imbarazzante la compagnia di qualche metalmeccanico Fiom…». Poi giunse la notizia che su quel palco sarebbero saliti i No-Tav e il partito si compattò per il «no» alla partecipazione, con dei distinguo. Perché ci fu chi come Vincenzo Vita parlò di «decisione tattica e politicistica » e chi, come Giuseppe Civati, definì la vicenda «un cortocircuito della politica, un pretesto scelto male». Fassina, Damiamo e Orfini rimasero a casa, e tornò il sereno. Da quel giorno il Pd sa di aver perso buona parte dei voti degli iscritti alla Fiom. E le conseguenze, in vista delle prossime elezioni, si faranno certamente sentire.

CANTIERE APERTO – All’interno del sindacato il dialogo è aperto. Perché, come per i partiti politici, anche fra le parti sociali ci sono le “correnti”. E non tutti concordano con l’avvicinamento della Fiom all’Italia dei valori. C’è chi vorrebbe rimanere ancorato al Pd e chi, come l’ala vicina al presidente del comitato centrale Giorgio Cremaschi e alla sua “Rete 28 Aprile”, chiede «una profonda trasformazione democratica del sindacato e la sua indipendenza politica». Lo stesso Cremaschi, di recente, ha fatto sapere che «non è compito della Fiom aggiungere dei personaggi alla foto di Vasto». Chiaro il messaggio e il destinatario. Ma il 4 settembre scorso, dalle colonne de il Manifesto, è stato Gianni Rinaldini (predecessore di Landini alla guida della Fiom e oggi coordinatore dell’area “la Cgil che vogliamo”) a chiedere formalmente a Di Pietro di presentare i due quesiti referendari insieme ad «un arco di forze molto vasto e rappresentativo di aree sindacali, politiche, intellettuali, giuslavoristi, soggetti editoriali che su queste questioni si sono battute e si battono. Un atto di generosità e di apertura dell’Idv – proseguiva Rinaldini – consentirebbe di condurre una battaglia politica con uno schieramento e un insieme di culture ed esperienze all’altezza dell’obiettivo che ci si pone: riportare la democrazia nei posti di lavoro. Tutti insieme possiamo farcela ». Ma un altro indizio che costituisce la prova del nascente avvicinamento lo si trova in Emilia Romagna, regione “rossa” per eccellenza. Qui il consigliere regionale dell’Idv Franco Grillini e il segretario regionale della Fiom Bruno Papignani non nascondono il loro «rapporto speciale», come lo ha definito il dipietrista. «L’Idv appoggia tutte le nostre proposte – ammette Papignani –, mentre il Pd ha un pregiudizio nei nostri confronti. Dentro al partito c’è un problema legato alla qualità delle persone». Forse il sindacalista non ha ancora digerito il mancato invito alla Festa democratica di Reggio Emilia, iniziata il 25 agosto e terminata cinque giorni fa. Il Pd ha invitato Cgil, Cisl e Uil, più svariati ministri dell’attuale governo (da Passera a Fornero, da Cancellieri a Patroni Griffi), ma non la Fiom. E neanche Di Pietro. «In questo momento non ci sono le condizioni», hanno precisato i responsabili dell’evento. Sintomo che il giocattolo si è rotto. E non basta la colla per rimetterne insieme i pezzi.

SONDAGGI ALLA MANO… Una recente simulazione di IPR Marketing, basata sui dati raccolti negli ultimi sondaggi effettuati e realizzata in base all’ipotesi di nuova legge elettorale circolata nelle ultime settimane (un sistema proporzionale con premio di maggioranza compreso fra il 10 e il 15% al primo partito, e una soglia di sbarramento del 5%), ha reso noto come senza la grande coalizione (Pd-Pdl-Udc) l’Italia rischierebbe lo stallo politico. Con una maggioranza alla Camera di 316 seggi – che salgono a 360 per assicurare la governabilità – il Pd che corre in lista con Psi e Api raccoglierebbe 232 seggi con un premio di maggioranza fissato al 10% e 254 con premio al 15%. Nessun livello di governabilità garantito neanche con l’asse Pd-Sel: fra 268 e 288 i seggi che i due partiti otterrebbero a seconda del premio. Stessa sorte anche per la “strana alleanza” fra Bersani e Casini e per quella che coinvolge democratici, centristri e vendoliani. Resta la “grande ammucchiata”, che assicurerebbe una maggioranza senza precedenti, compresa fra i 435 e i 445 deputati. Quale peso potrebbe avere dunque la formazione di un partito-Fiom che correrebbe insieme all’Idv? «Prima di tutto bisogna capire quale sarà la nuova legge elettorale, cosa che attualmente nessuno sa per certo – dice a Il Punto il direttore di IPR Marketing Antonio Noto – La Fiom è un sindacato minoritario ma importante, che ha un grande appeal per ciò che riguarda le tematiche che mette in campo. Inoltre, ha una visibilità a livello mediatico che può costituire un valore aggiunto in campagna elettorale. Con l’apporto del sindacato dei metalmeccanici, l’Italia dei valori potrebbe avere un vantaggio che oscilla fra il 2 e il 2,5%. Non è poco: oggi, secondo i nostri dati, Fli è al 2,5%, La Destra non arriva al 2% e il Psi è fermo all’1%. Va aggiunto poi che pur non avendo un numero di iscritti pari a quello della Cgil, il sindacato di Landini potrebbe ottenere un buon seguito, anche se la campagna elettorale non si baserà solo sul problema-lavoro». A conti fatti l’Idv farebbe un balzo in avanti significativo salendo all’8/8,5%, superando sia Sel (6%) che l’Udc (7%) e passando dagli attuali 34/36 deputati a 42/46 (da sottrarre a Pd e Sel insieme). «Un’alleanza dopo il voto fra Pd e Sel non garantirebbe la maggioranza alla Camera, secondo la bozza di legge elettorale circolata nelle ultime settimane – prosegue Noto –, quindi l’apporto dell’Idv assicurerebbe una maggiore stabilità. Al di là del gioco delle alleanze, c’è però da capire se i “poteri forti” legittimeranno un eventuale governo fortemente spostato a sinistra, oppure se si cercherà di mettere fuorigioco le ali estreme puntando su un accordo con le forze moderate. In questo caso l’Idv, pur con un risultato lusinghevole, verrebbe escluso. Neanche un’ipotesi estrema di alleanza, ovvero quella fra Movimento 5 Stelle, Idv e Fiom garantirebbe stabilità. Questa legge elettorale è pensata per arginare il rischio che un outsider possa vincere le elezioni e avere poi le mani libere. Certo – conclude il sondaggista – se non fosse abolito il “Porcellum” con Grillo al 30% alleato con l’Idv sarebbe tutta un’altra storia».

Twitter: @GiorgioVelardi 

La “legge bavaglio”? La fece già il centrosinistra, ma fanno tutti finta di non ricordare

lunedì, ottobre 10th, 2011

Faccio una premessa: sono contrario alla cosiddetta “legge bavaglio” e ad una classe politica (tutta, da destra a sinistra) che non riesce a risollevare le sorti di questo paese. Ma è proprio di un provvedimento che in questi giorni si sta discutendo con così tanto fermento – facessero le riforme, invece – nelle aule parlamentari che vi voglio parlare: il ddl sulle intercettazioni.

Più o meno sapete già di cosa si tratta, ma la vera novità è arrivata qualche giorno fa, quando l’onorevole Maurizio Paniz (Pdl) ha dichiarato durante un’intervista a Radio 24: «Il giornalista che pubblica ciò che non può pubblicare dovrebbe subire una sanzione pensale. Il carcere magari è un percorso più lungo. Che ne so, ci vorrebbe una sanzione da 15 giorni a un anno, poi il giudice graduerà a seconda della violazione, vedrà se sono possibili riti alternativi, pene pecuniarie o multe o – ribadisce Paniz – se il giornalista debba andare in carcere. Cosa che è tutto sommato molto rara nel nostro ordinamento per questa tipologia di situazione». È il mondo al contrario: la Camera è impantanata a votare l’autorizzazione o meno all’arresto (nell’ordine) di Papa, Tedesco, Milanese e Romano – tutti tranquillamente a spasso, tranne Papa che è a Poggioreale – e i giornalisti che fanno il loro mestiere, cioè informare, rischiano di finire dietro le sbarre.

Ma c’è di più, perchè l’ipocrisia della nostra classe politica non ha mai fine. Oggi i partiti di opposizione – tutti, nessuno escluso – si stracciano le vesti per protestare contro quello che dicono essere un «attacco alla democrazia». Ma quanti di voi sanno che il 17 aprile 2007 l’allora governo di centro-sinistra propose un ddl sulle intercettazioni a firma del ministro della Giustizia in carica Clemente Mastella con le stesse caratteristiche di quello attuale? Vi dò i numeri della votazione alla Camera: 447 sì e 7 astenuti. Neanche un deputato contrario. Uno, che ne so, che sbagliò a premere il pulsante durante la votazione. Niente. Ergo: hanno votato tutti in maniera compatta, dal Pdl al Pd, dall’Italia dei Valori (non c’era Antonio Di Pietro, ma il portavoce Donadi entusiasta affermò: «L’unanimità è un segno della forza del Parlamento») a Rifondazione comunista, che in quella legislatura sedeva – eccome – in Parlamento.

Pensate, votò a favore pure Giulia Bongiorno, diventata – dopo Manuela Arcuri, prima di scoprire la magagna – nuova eroina dell’opposizione. Vi cito qualche altro nome di politici con scarsa memoria, diciamo così: Carmelo Briguglio, Benedetto Della Vedova e Flavia Perina (oggi tutti portabandiera di Fli), Lorenzo Cesa e Luca Volontè (Udc) e persino Dario Franceschini (che martedì scorso ha detto: «Faremo di tutto per opporci a questa porcheria») e Massimo D’Alema, che arrivò addirittura a minacciare: «Parlate di 3-5mila euro di multa… ma li dobbiamo chiudere quei giornali». Il ddl non fu mai votato al Senato per la fine anticipata della legislatura. Democratici, eh?

La metamorfosi (di Tonino)

mercoledì, luglio 13th, 2011

Cosa succede ad Antonio Di Pietro? Da anti-berlusconiano numero uno, il leader dell’Italia dei Valori sembra aver cambiato completamente rotta: ora attacca Bersani e Vendola, parla con il Cavaliere e propone addirittura l’appoggio alle riforme del Governo. Semplice caccia ai voti dei moderati, o c’è sotto qualcos’altro?

 

Tredici giugno, ore 16.00. Dopo la vittoria ai referendum, il segretario del Partito Democratico Pierluigi Bersani si presenta in conferenza stampa e chiede le dimissioni di Berlusconi. Parla Antonio Di Pietro: «Chiedere al Premier di lasciare in nome dei risultati referendari è una strumentalizzazione. Lavoriamo da subito per costruire un’alternativa». Ventidue giugno, pausa dei lavori alla Camera durante la verifica di Governo. Il Presidente del Consiglio si avvicina al numero uno dell’Idv, gli stringe la mano, e fra i due comincia un colloquio che va avanti per una trentina di minuti. I contenuti si conoscono solo in parte, ma nel successivo intervento Di Pietro attacca Bersani: «Dobbiamo costruire un’alternativa. Comincia tu, convocaci». Ventiquattro e venticinque giugno, interviste al Corriere della Sera e al Secolo d’Italia. L’ex pm dà un colpo al cerchio e uno alla botte. Dice che «Berlusconi è una persona sola», ma che «se farà riforme vere l’Idv non si tirerà indietro». Che «va costruito un dopo Silvio» ma «senza fare solo anti-berlusconismo». Se tre indizi fanno una prova allora viene da domandarsi: a che gioco sta giocando Tonino?

METAMORFOSI – Gregor Samsa, il protagonista de La metamorfosi di Kafka, si trasformò in un insetto, fu abbandonato dalla famiglia e, in seguito, anche dalla sorella Grete, l’unica ad essersi occupata di lui dopo la mutazione. Come Gregor, anche Tonino sembra aver subito una repentina metamorfosi. Ma di che tipo? Forse, viene da pensare leggendo e ascoltando le sue parole, non sa neanche lui cosa sia diventato. Il leader Idv, che ha da sempre fatto dell’anti-berlusconismo il suo cavallo di battaglia (malgrado sia stato addirittura vicino a Berlusconi, nel 1994, quando il Premier voleva che diventasse ministro dell’Interno del suo primo Governo), ora dice «basta» all’assalto all’arma bianca contro il Cavaliere. Fa di più: rende noto un nuovo progetto per la sua creatura, ovvero il lancio di una Idv2, «un partito di massa che si rivolga a tutti i cittadini, da destra a sinistra». Un super cartello elettorale, quindi, che riunisca in sé tutte le anime vaganti dell’elettorato scontento e deluso. Del resto, l’ex pm non ha mai nascosto la sua estrazione cattolica, il suo essere né di destra né di sinistra, la sua vocazione liberale e centrista. Funzionerà? Dalle prime reazioni, la risposta è più che negativa. Come i Samsa voltano le spalle al loro figlio, diventato una creatura mostruosa, anche i seguaci dell’Italia dei Valori hanno dimostrato di non gradire il cambio di rotta del loro numero uno. Su Facebook qualcuno gli ha dato del «traditore»; altri lo hanno addirittura paragonato a Scilipoti, che nel frattempo pare stia scrivendo la sceneggiatura di un film sulla vita del suo ex capo (che dovrebbe intitolarsi P.M. Forever). Non c’è solo il popolo a sparare su di lui. Anche la nomenclatura del suo partito, a cominciare da Luigi De Magistris, non l’ha presa bene. Il neo sindaco di Napoli ha “consigliato” a Di Pietro di «evitare la svolta centrista, perché il centro è già troppo ingolfato e chi ci vota non vuole convergere in quella direzione». Smentita, ma comunque ancora viva in ambienti interni, la proposta dell’ex girotondino Pancho Pardi di lanciare una raccolta firme contro il leader maximo. Una manovra in stile 25 luglio di lontana memoria per ora rimandata. Per ora.

APERTURE (A SORPRESA) – Malgrado le prossime elezioni politiche si svolgeranno nel 2013, la campagna elettorale è già entrata nel vivo. Questo Di Pietro lo sa, e da abile stratega qual è sta portando avanti un lavoro duro e complesso, in cui i suoi alleati sembrano essere in ritardo. Ecco, allora, le aperture inattese nientemeno che a Berlusconi e alle riforme che il Governo vuole portare a compimento. «Se quelle dell’Esecutivo sono proposte utili io le voto», dice al Secolo d’Italia, prima di aggiungere (addirittura) che «la riforma della giustizia serve, perché vanno ridotti i tempi processuali, diminuendo i gradi di giudizio con un filtro di ammissibilità o con la depenalizzazione di alcuni reati». Con Pd e Udc, poi, l’Italia dei Valori sarà «responsabile» per ciò che riguarda la manovra economica, come richiesto dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Nel suo nuovo spettro di vedute c’è anche spazio per un elogio alla Lega: «È gente che ama la propria terra, cui va il mio rispetto. Siamo stati gli unici, insieme a loro, a votare contro l’intervento in Libia e per il ritiro dall’Afghanistan. Ora la pensiamo uguale», afferma al Corriere della Sera. La strategia appare chiara. Di Pietro punta a raccogliere non solo i voti di quegli elettori di sinistra che mal digeriscono gli estremisti di Nichi Vendola o l’immobilismo di Bersani, ma anche quelli di chi fino a ieri barrava sulla scheda il simbolo di Pdl o Udc. Sfruttando l’onda lunga dei referendum, alle prossime elezioni l’Idv potrebbe ottenere risultati importanti. Dati alla mano, negli ultimi anni il partito è cresciuto arrivando, alle regionali dello scorso anno, a raccogliere il 7,3 per cento dei consensi. Ma, come detto, ciò su cui l’ex pm può fare maggiore affidamento sono i risultati del 12 e 13 giugno scorso. La vittoria dei referendari è soprattutto merito suo, malgrado qualcuno abbia provato a mettere il cappello sul successo. Se il 20 per cento dell’elettorato del centrodestra e addirittura la metà di quello leghista si sono recati alle urne, contravvenendo agli ordini della base, vuol dire che è tempo di proseguire lungo la strada imboccata, mettendo da parte gli obsoleti slogan da piazza e assumendo un atteggiamento più moderato. Con Fli e Api nascosti nell’ombra, e con Pierferdinando Casini ancora incerto sul da farsi, l’Idv può indossare i panni del vero outsider. Non del Terzo Polo perché, precisa Di Pietro, «non rincorriamo nessuno e chiediamo che rimanga fermo il bipolarismo». Un’eventuale alleanza con i centristi? Da escludere, perché «Casini vuole stare da solo. È inutile chiedere a un monaco di clausura se gli piace la bionda o la mora, no?».

CHIUSURE (INASPETTATE) – «Dov’è il programma del centrosinistra? Chi è il leader?». Sono questi gli interrogativi che hanno portato l’uomo di Montenero di Bisaccia a distaccarsi, giorno dopo giorno, da Pd e SeL. Di Pietro non lo ha fatto in maniera così soft; al contrario, ha lanciato una serie di pesanti provocazioni che hanno causato qualche mal di pancia a Bersani e Vendola, pronti ad intraprendere il percorso che porta alle urne anche senza di lui. Al numero uno del Partito Democratico, dopo le accuse delle settimane passate («Bersani non ha ancora deciso con chi fare l’alternativa. Lui aspetta, tergiversa»), Tonino non ha perdonato l’astensione decisa (e decisiva) durante la votazione per l’abolizione delle province del 5 luglio scorso, operata per evitare di schierarsi insieme alla maggioranza visti i pareri difformi tra le varie correnti interne al gruppo. Dal canto suo, il teorico del «rimbocchiamoci le maniche» ha fornito risposte vaghe a chi gli ha chiesto un parere sugli attacchi dell’alleato, ma non ha espresso certezze su un futuro assieme. Peggio è andata al Governatore della Puglia, ma anche qui ci sono situazioni molto interessanti su cui ragionare. «No alle primarie per candidati come lui», ha tuonato il leader dell’Idv, prima di ascoltare il Vendola pensiero: «Non sono preoccupato se Di Pietro mi toglierà voti. Lui sente restringersi lo spazio a sinistra, e pensa che ricollocandosi a destra nella coalizione possa avere successo». Gli oggetti del contendere, in questo caso, si chiamano Napoli e De Magistris. Il capo di Sinistra e Libertà, fautore della candidatura dell’ex magistrato quale primo cittadino del capoluogo campano, ha prima portato avanti la proposta con la promessa che il suo partito avrebbe lavorato «pancia a terra» al fianco dell’allora europarlamentare, per poi fare un’incredibile marcia indietro e appoggiare il democratico Mario Morcone. Un boccone amaro ancora da digerire per De Magistris, poi uscito comunque vincitore, ma soprattutto per Tonino, che ha dato il via alle ostilità. «Se Di Pietro andasse a braccetto con Berlusconi e gli votasse le leggi sarebbe un inciucio, e ne dedurremmo che è impazzito», ha sentenziato Marco Travaglio. E chissà che alla fine l’unico ad avere ragione non sia lui.

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L’APPROFONDIMENTO – Tutti i dietrofront di Di Pietro

Quelli a cui stiamo assistendo nelle ultime settimane non sono gli unici passi indietro fatti da Antonio Di Pietro nel corso della sua carriera politica. Primo caso: l’ormai famoso Ponte sullo Stretto di Messina. Nel 1996, quando era ministro dei Lavori pubblici, il leader dell’Idv portò la proposta in Consiglio dei Ministri definendola «opera urgente». Cinque anni dopo cambia idea perché, dice, «è una cattedrale di San Silvio, un’opera di mussoliniana memoria». Nel luglio 2006, dopo la nomina ai Trasporti, finanzia con 25 milioni di euro la società sul Ponte. Il motivo? «Bisogna completare il progetto per vedere se è fattibile o meno». Ottobre 2007: con un emendamento i Verdi chiedono l’abolizione della società, ma Tonino ricorre ai voti dell’opposizione e la maggioranza va sotto. Maggio 2009, ancora l’ex pm: «Berlusconi rinunci al Ponte, ci sono cose più importanti a cui pensare». Seconda vicenda: l’immigrazione. Nel corso degli ultimi tredici anni Di Pietro ha cambiato più volte la propria posizione, partendo dalla proposta di far diventare la clandestinità un reato (altrimenti l’Italia sarebbe diventata la «cloaca d’Europa») fino ad arrivare a dire che quest’ultima è una «norma inutile». In mezzo ci sono dichiarazioni come «i clandestini sono potenziali terroristi» (intervista a Libero, 23 luglio 2005) o «nel nostro paese ci sono un numero di rom dieci volte superiore a quello degli altri paesi europei. Senza lavoro, senza casa e senza sanità diventano una bomba sociale». Terzo: il nucleare. Nel settembre del 2007 il ministro battibeccava con il collega all’Ambiente Alfonso Pecoraro Scanio, contrario alla riapertura di nuovi centrali: «C’è un preconcetto ideologico, così non si aiuta lo sviluppo. Il nucleare oggi non è come quello di ieri: non so se ne abbiamo davvero bisogno, e personalmente vorrei adoperarmi affinché non vi si ricorra. Nell’attesa abbiamo però necessità di un’energia domani mattina, sennò quest’inverno rimaniamo al freddo». Il 30 aprile del 2010 l’Idv lancia la raccolta firme per il referendum contro il ritorno al nucleare: sappiamo com’è andata. Infine: l’acqua (altra questione oggetto del voto del 12 e 13 giugno scorso). Il 17 novembre 2007, in un’intervista al periodico campano Acqua e Territorio, Di Pietro assicura che «non è particolarmente rilevante la forma di gestione; non ci sono pregiudiziali nei confronti dei privati, purché il loro interesse sia subordinato a quello generale». Poi il dietrofront. La domanda sorge spontanea: quale sarà il suo prossimo colpo di teatro?