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Rincontrarsi ad Arcore – da “Il Punto” del 18/01/2013

giovedì, gennaio 24th, 2013

Pdl e Lega di nuovo insieme. Ma i nodi da sciogliere sono molti. Mentre i militanti del Carroccio se la prendono con Maroni per il passo indietro compiuto, la partita nazionale si intreccia sempre di più con quella regionale

SECURITY: MARONI, OPEN WI-FI CONNEXCTIONS STARTING JANUARY 1La notte porta consiglio. Un vecchio adagio che Silvio Berlusconi e Roberto Maroni hanno applicato alla lettera all’una e trenta del sette gennaio scorso, quando ad Arcore hanno deciso di ricostruire l’asse del Nord. Pdl e Lega di nuovo insieme. Come nel ’94, nel 2001, nel 2006 e nel 2008. Sembrano lontani i tempi in cui Bossi dava del «suino Napoleon» e addirittura del «nazista, nazistoide, paranazistoide» al Cavaliere (1995). Il quale non esitava a replicare con epiteti non meno teneri: «Bossi è un Giuda, un ladro di voti, un ricettatore, truffatore, traditore, speculatore». Sono passati quasi vent’anni. Sembrano secoli. Ora alla guida del Carroccio c’è Maroni, l’uomo che il 27 gennaio 2012, con la ramazza in mano, annunciava che «se Berlusconi ora appoggia Monti poi quando si andrà alle elezioni non può chiedere alla Lega di fare accordi perché qualche problema c’è». L’uomo, si sa, dimentica in fretta. E il segretario leghista non è stato da meno. «Andare da soli avrebbe dato soddisfazione ai malpancisti, dopodiché il 26 febbraio la Lega si sarebbe dovuta interrogare per capire le cause della propria sconfitta. È un’occasione storica per realizzare il nostro grande sogno, e io non me la voglio far scappare», ha dichiarato l’ex ministro dell’Interno commentando il nuovo apparentamento col Pdl.

TUTTO SULLA LOMBARDIA - L’occasione a cui fa riferimento il successore di Umberto Bossi è la guida della Regione Lombardia. La stessa che negli ultimi diciassette anni è stata nelle mani di Roberto Formigoni, schiacciato dal peso delle inchieste che dal 2010 hanno investito il Pirellone (da Nicole Minetti a Domenico Zambetti, passando per Davide Boni e Filippo Penati) e costretto alle dimissioni nell’ottobre del 2012. Dopo la guerra di posizione con l’ex sindaco di Milano Gabriele Albertini, poi confluito nella lista civica di Monti, Maroni è diventato il candidato unico del centrodestra. I suoi obiettivi sono precisi: costituire la macroregione del Nord (con Piemonte e Veneto) e trattenere il 75% delle tasse sul territorio. Uno “strano” progetto, quello dell’ex numero uno del Viminale, visto che a settembre fu lo stesso Formigoni – dal palco della festa provinciale della Lega Nord di Brescia – a ipotizzare la formazione della macroregione e dell’euroregione. «Si tratta di una finta o poco più di una finta», tagliò corto “Bobo”, perché «la Costituzione dice che le Regioni possono solo fondersi» (secondo quanto prevede l’art. 132). «Maroni è stato pragmatico, per lui l’accordo col Pdl era vitale per avere una qualche chance di vittoria in Lombardia», è il giudizio di Alessandro Campi, politologo e direttore della Rivista di Politica. «Il segretario leghista ha dettato le sue condizioni, fra cui la garanzia che Berlusconi non sarà il candidato premier del centrodestra». Una promessa che sarà mantenuta in caso di vittoria, visto che la Lega ha indicato Tremonti? «A quel punto il leader del Pdl farà sicuramente il presidente del Consiglio», risponde Campi, che definisce «preoccupante il rilancio dello storico progetto secessionista della Lega», anche se «in una forma apparentemente soft». Se il Carroccio dovesse vincere in Lombardia «si porrebbero dei problemi molto seri rispetto alla tenuta della struttura istituzionale del Paese», conclude. Oltre che preoccupante, il progetto di formazione della macroregione del Nord appare di difficile realizzazione. Questo perché andrebbe modificata la Costituzione, il che richiederebbe una larga maggioranza a disposizione. I sondaggi, malgrado la quotidiana rimonta di Berlusconi, vedono la coalizione di centrodestra indietro rispetto a quella di centrosinistra. Ma la vittoria di Pdl e Lega in Lombardia renderebbe “instabile” il successo di Bersani e Vendola, visto che per colpa del “Porcellum” questa Regione assegna 49 seggi sui 315 totali al Senato. E Maroni, secondo le ultime rilevazioni, è in vantaggio su Umberto Ambrosoli, figlio di Giorgio (l’avvocato assassinato nel 1979) e vincitore delle primarie del Pd.

ALLA FACCIA DELLA BASE - Un accordo che sembra però scontentare i leghisti “duri e puri”. Ad ottobre avevamo incontrato alcuni di loro a Milano durante la “gazebata” organizzata dal Carroccio (la stessa che, in Lombardia, vide Maroni vincitore indiscusso delle “primarie fai da te” per la corsa al Pirellone). Alla nostra domanda su cosa ne pensassero di un possibile nuovo accordo con il partito dell’ex premier, molti ci avevano risposto così: «Diciamo basta all’alleanza col Pdl. Meglio perdere ma conservare l’onore che vincere con questi qua». Commenti che abbiamo ritrovato, sia nella forma che nella sostanza, consultando in questi giorni i principali forum dei militanti. Su Giovani Padani, per esempio, LoSpada scrive: «Siete pronti, cari leghisti, ad una nuova fantastica alleanza col Pdl “per il bene del Nord”? Mamma mia che tristezza!!». Mentre per un altro utente, padanus, «Berlusconi è finito, ha deluso troppo, ci ha preso in giro per anni e noi fessi a credere in lui, compreso il sottoscritto e la tantissima gente con cui parlo qui nel Veneto». Non è finita qui. Perché spostandoci sul forum della Lega Nord di intopic.it scopriamo seguaci ancora più irritati dal nuovo sodalizio fra Berlusconi e Maroni. «Anche questa volta avete dimostrato il vostro spessore morale. Spero proprio che gli italiani e soprattutto i lombardi non si dimentichino di quello che siete riusciti a combinare nella scorsa legislatura», dice Luigi. «Hanno stretto l’accordo. Vergogna!», è invece il commento di Gab, a cui risponde Lucio1: «Basta ricordarsene quanto ci saranno le elezioni». C’è, dunque, il rischio dell’effetto boomerang e di una nuova disaffezione della base leghista? «È probabile», afferma a Il Punto Antonio Noto, direttore di IPR Marketing. «Nel momento in cui si è formato il governo Monti la Lega ha fatto capire che non ci sarebbe potuta più essere un’alleanza con il Pdl. E su Berlusconi, oltre al giudizio politico, pesa quello sulla persona. Per gli attivisti – conclude il sondaggista – questo è sicuramente un colpo al cuore, che si accompagna alla confusione enorme che riguarda la mancanza di un candidato premier certo della coalizione. Non ho mai visto una situazione del genere».

STORACE CANDIDATO – Ma da Nord a Sud i nodi da sciogliere prima del voto di fine febbraio sono numerosi. Al Centro, solo pochi giorni fa, è stato risolto il problema riguardante la corsa per il controllo di un’altra Regione chiave, il Lazio, dopo la fine anticipata dell’era Polverini. Mentre il centrosinistra ha comunicato da tempo il nome del proprio candidato, l’ex presidente della Provincia di Roma Nicola Zingaretti, nel centrodestra la lotta fra correnti ha creato stordimento nell’elettorato. Alla fine, malgrado la componente del partito vicina al segretario Angelino Alfano avesse proposto Beatrice Lorenzin, la scelta è ricaduta sul leader de La Destra Francesco Storace. Nei sondaggi l’ex ministro della Sanità è in ascesa, ma una parte del partito – in primis la costola laziale – gli avrebbe preferito l’ex capo della Segreteria tecnica di Paolo Bonaiuti. Una decisione difficile, tanto che negli ultimi giorni Berlusconi pare abbia fatto commissionare un sondaggio in cui sono stati inseriti anche i nomi della governatrice uscente Renata Polverini, del rettore dell’Università La Sapienza Luigi Frati, del presidente della Lazio Claudio Lotito, del vicesindaco di Roma Sveva Belviso e del magistrato Simonetta Matone. Alla fine, però, si è scelto di rompere gli schemi. Qualcosa di nuovo sotto il sole.

Twitter: @mercantenotizie 

Monti lascia, che succede al centro? I tre possibili scenari in vista del voto – da “Il Punto” del 14/12/2012

martedì, dicembre 18th, 2012

E ora che succede al centro? Se lo domandano i vari Pier Ferdinando Casini, Gianfranco Fini, Luca di Montezemolo, il presidente delle Acli Andrea Olivero, il ministro Andrea Riccardi… L’annuncio delle dimissioni del presidente del Consiglio dopo l’approvazione della legge di stabilità (ex Finanziaria) spiazza i sostenitori del «Monti dopo Monti», costretti a riordinare in fretta le idee in vista dell’imminente tornata elettorale. Un’intesa di massima c’è: la Lista per l’Italia – ma il nome sembra essere ancora parziale – potrebbe riunire sotto un’unica bandiera Udc, Fli, Italia Futura più una serie di associazioni, fra cui quella cattolica dei lavoratori. Casini è pronto, e ha più volte chiamato a raccolta il presidente della Ferrari. Che però, fra i tre (Fini viaggia sulla stessa lunghezza d’onda del leader centrista), è quello meno convinto dell’operazione. Non è un caso che solo il 10 settembre scorso, a margine della convention dell’Udc a Chianciano, il think tank montezemoliano pubblicava sul suo sito Internet un articolo in cui definiva «un fritto misto che non serve al Paese» le pur «buone intenzioni» dei centristi. La battaglia si giocherà a colpi di numeri perché è ormai chiaro ai più che si tornerà alle urne con un “Porcellum” puro. Il quale prevede una soglia del 4% alla Camera e dell’8 al Senato per l’ingresso in Parlamento di una singola formazione. Complice l’appoggio tout court alle politiche del governo tecnico, il partito di Casini ha perso terreno negli ultimi mesi tanto da scendere addirittura al 3,8%. Questo, almeno, è quanto dicono le ultime rilevazioni. È dunque necessaria la formazione di una coalizione che quantomeno alla Camera darebbe la possibilità a Casini e Fini di continuare a fare politica “attiva”. Ma, come detto, il passo indietro dell’ex Commissario europeo ha rimescolato le carte in tavola. È stato proprio Montezemolo a frenare gli entusiasmi. Mentre Casini e Fini, dopo aver saputo che il premier avrebbe lasciato anzitempo la poltrona, parlavano di «un gesto di responsabilità compiuto da Monti» (il primo) e di «un bel gol in contropiede a Berlusconi» (il secondo), l’ex numero uno della Fiat faceva sapere che «o Monti offre la possibilità politica di una convergenza di tutti i soggetti che si ispirano alla sua esperienza di governo, oppure sarà complicato esserci». Le prossime settimane saranno decisive per la costruzione di tre possibili scenari. Il primo è quello che vede Monti in campo e la formazione, appunto, di una casa comune dei “moderati” guidata da lui. In questo caso, però, il presidente del Consiglio dovrebbe decidere se lasciare la carica di senatore a vita – in questo senso ritornano in mente le parole pronunciate poche settimane fa dal capo dello Stato Napolitano – oppure non scendere nell’agone politico entrando in gioco solo a competizione conclusa. Casini, Fini e Montezemolo gli farebbero da “scudieri”, mettendolo al riparo da un possibile fallimento elettorale che ne pregiudicherebbe qualsiasi impiego a posteriori. Del resto, come ha ricordato il presidente della Camera, ora il capo del governo «ha le mani libere» e «non è più obbligato ad essere super partes». Ma attenzione, perché proprio la fine anticipata della legislatura potrebbe spingere Monti a mollare tutto. In questo anno e poco più alla guida dell’Italia, il premier e i suoi ministri – che pure, spesso, ci hanno messo del loro con atteggiamenti poco sobri – sono stati attaccati aspramente sia a destra che a sinistra, complici una serie di misure che, indicatori alla mano, hanno salvato l’Italia dalla bancarotta ma senza invertire il trend negativo. Dunque il Professore “stanco” potrebbe tornare all’impegno accademico (secondo scenario) uscendo di scena fra gli applausi dei partner internazionali, che hanno accolto con preoccupazione la notizia della sua dipartita. La terza ed ultima ipotesi, consequenziale, è quella di un percorso separato delle tre compagini. Non è un caso che Casini continui a dialogare fitto con il segretario del Pd Bersani, che Fini cerchi un appiglio nientemeno che in quel che resta del Pdl e che sia Montezemolo che Olivero tentino di trovare una sponda proprio nei democratici («È necessaria un’intesa fra Bersani e Monti per il futuro dell’Italia», ha reso noto giorni fa il presidente delle Acli, sponsorizzato anche da Dario Franceschini). Chissà che a prevalere, alla fine, non sia proprio quest’ultimo scenario. L’incontro che si sarebbe dovuto tenere il prossimo 20 dicembre fra Casini, Fini e Montezemolo è stato messo in stand-by. Ma c’è chi giura che il progetto sia ormai stato definitivamente archiviato.

Twitter: @mercantenotizie

«Digiuno finché non si vota al Senato. Napolitano indichi la strada da seguire» – da “Il Punto” del 19/10/2012

giovedì, ottobre 25th, 2012

Dallo scorso 2 settembre il deputato del Pd Roberto Giachetti sta portando avanti un digiuno anti-Porcellum, dopo quello fatto dal 4 luglio al 9 agosto. Ora qualcosa si muove ma, dice lui, «il mio sciopero della fame è iniziato con l’obiettivo che ci fosse almeno un voto al Senato. Finché non arriva vado avanti».

Prima di tutto le chiedo come sta… 

«Sto come uno che digiuna da 41 giorni, i valori delle analisi sono un po’ al limite. Però dal punto di vista della convinzione mi sento più forte di prima».

Cosa pensa dello “scheletro” della riforma?

«Innanzitutto va mantenuta la promessa fatta agli elettori: superare il “Porcellum”. Si è passati dalle stanze dei partiti a quelle di una Commissione formale, ed è positivo. Però ci sono voluti nove mesi per mettere nero su bianco un testo che non fa mezzo passo avanti rispetto alle posizioni iniziali degli schieramenti. Senza alcun punto di incontro fra questi. C’è da riflettere».

Ci sono le preferenze…

«La loro eventuale reintroduzione mi preoccupa, perché ad oggi dimostrano di essere un elemento di corruzione praticamente accertato. Riproporle in un momento come questo significa vivere sulla luna. In più, le risorse che ci vogliono per portare avanti una campagna elettorale con le preferenze portano ad un grande sperpero di denaro. Ma c’è un altro punto che mi impensierisce…».

Mi dica… 

«Il premio di coalizione. La mia riflessione è viziata dall’essere contro l’impianto proporzionale, però domandiamoci quale lista o coalizione prenderebbe oggi il 40%, utile per il premio del 12,5%. Nel nostro caso, per arrivarci, dovremmo mettere insieme tutto e il contrario di tutto. Per poi ritrovarci, dopo pochi mesi, di nuovo alle urne. Il presidente Napolitano dovrebbe inviare un messaggio formale alle Camere indicando la strada da seguire».

Lei è un “renziano”. Perché lo “zoccolo duro” del Pd ha così paura del sindaco di Firenze? 

«Perché da quanto questa classe dirigente è sulla scena non ce l’ha fatta a cambiare il Paese. Ad un certo punto arriva l’esigenza di passare la mano. E Renzi ha trovato la chiave di volta del problema. D’Alema? È una persona intelligente. Mi sarei aspettato che dicesse: “Aiuto la nascita di una nuova dirigenza e faccio un passo indietro”. Invece accade il contrario. Il voto da dare alla nostra epoca non è, a mio avviso, positivo».

Twitter: @GiorgioVelardi

Patto anti-scissione – da “Il Punto” del 28/09/2012

giovedì, ottobre 4th, 2012

Il piano per evitare che il partito imploda a causa del passo indietro degli ex An. Che starebbero trattando con il Cavaliere seggi “sicuri” alla Camera alle prossime elezioni. Gli ex ministri sono in fibrillazione: hanno paura di non essere ricandidati

«Berlusconi è diventato come un taxi: tutti vogliono salire a bordo della sua auto. E il giorno dopo le elezioni, ottenuto ciò che volevano, i suoi “passeggeri” scenderanno in blocco. Anche perché, come lei capirà, questa è l’ultima occasione in cui il Cavaliere potrà far eleggere qualcuno». Comincia così il colloquio de Il Punto con un ex esponente del Pdl che svela le grandi manovre interne al partito. Rivelazioni che arrivano nel giorno in cui la situazione nel Lazio precipita quasi fino a schiantarsi, con Berlusconi chiamato alla personale “discesa in campo” – in attesa che dica ufficialmente se sarà o meno della contesa per le politiche del 2013 – per evitare l’effetto domino ad un mese dalle elezioni in Sicilia e con le comunali di Roma alle porte (senza dimenticare la Lombardia, dove tra Roberto Formigoni e la Lega Nord è in atto una tregua armata).

ACCORDI E COMPROMESSI - «Ovviamente – aggiunge il nostro interlocutore – fra quelli che usufruiranno del passaggio di Berlusconi ci sono anche gli ex An». Pomo della discordia da mesi, nelle segrete stanze di via dell’Umiltà. Sempre prossimi alla scissione, spesso contrari alle linee guida del partito, i discendenti del Movimento Sociale non hanno mai nascosto il loro malumore, complici anche le dichiarazioni al vetriolo di qualche ex forzista della prima ora come Nunzia De Girolamo («Meglio Renzi di La Russa e Gasparri», ha fatto sapere la deputata campana) e Giancarlo Galan, e le lotte intestine fra le correnti. Ma se il Pdl sembra già sull’orlo del baratro, l’ennesima diaspora – dopo aver già perso 80 fra deputati e senatori dall’inizio della legislatura, come vi avevamo raccontato la scorsa settimana – segnerebbe la morte definitiva del partito. Fra l’altro alla fine di ottobre si voterà in Sicilia. Una Regione strategica nei piani di Berlusconi, dove il Popolo della Libertà ha deciso di appoggiare il candidato de La Destra Nello Musumeci. Quindi meglio evitare cataclismi e scendere a compromessi. Quali, per esempio? «Pare che gli ex An abbiano già chiesto al Cavaliere circa 20 seggi alla Camera in vista delle prossime elezioni. Prima i numeri erano più alti – si parlava di 50 posti –, poi però il rischio di una scissione postuma ha portato ad un ridimensionamento». Dunque le polveri sembrano poter prendere fuoco, malgrado i tentativi dell’ex premier di tenere serrate le fila e dare la parvenza di solidità e compattezza.

PAURA FRA GLI EX MINISTRI - Il Pdl oscilla, nei sondaggi, fra il 17 e il 21%. Alle elezioni del 2008 raccolse il 37,38% (conquistando 276 seggi alla Camera e 146 al Senato), alle Europee di un anno dopo il 35,3, staccando di quasi 10 punti il Pd. Oggi le statistiche dicono altro. Fotografano una realtà fatta di scandali, dimissioni, cambi di casacca e fallimenti, vedi quello del segretario Angelino Alfano (che non ha saputo risollevare le sorti del partito malgrado la personale investitura di Berlusconi). Il rischio è quello, per utilizzare un’espressione in voga da qualche mese a questa parte, di andare incontro ad una spending review elettorale senza precedenti, perdendo più di un terzo dei seggi. E a temere maggiormente ci sono i pesci grossi. Non è un caso, dunque, che solo poche settimane fa in un’intervista a Il Mattino Fabrizio Cicchitto abbia dichiarato che «un terzo dei parlamentari va scelto dai partiti con i listini bloccati. Di questo strumento si è fatto un pessimo uso – spiegava il capogruppo alla Camera dalle colonne del quotidiano campano –, ma senza di essi una serie di parlamentari di alto livello non sarebbero entrati o non entrerebbero più in Parlamento. Serve equilibrio, non demagogia». A questo proposito, la nostra fonte afferma: «Ci sono ex ministri che temono non solo per la loro rielezione, ma addirittura per la ricandidatura. È emblematico il caso della Lombardia, anche se in tutto il Nord ci sarà un crollo». Piccola digressione, necessaria per spiegare chi rischia davvero fra Milano e dintorni. Nella circoscrizione 1, ad esempio, sono inseriti Ignazio La Russa, Maurizio Lupi, Paolo Romani e Gianfranco Rotondi; nella 2 l’ex ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini; nella 3 un ex An di lusso come Massimo Corsaro. Ma la Regione governata da Formigoni non è l’unica fonte di preoccupazione per i “senatori” del Pdl. «In Veneto (circoscrizione 2, ndr) è stato eletto Renato Brunetta. Con l’aria che tira sembra però che ora voglia candidarsi in Campania, in virtù di una casa che possiede a Ravello (comune in provincia di Salerno, ndr)». Un luogo che l’ex ministro della Funzione pubblica ha nel cuore: è quello dove, nel luglio 2011, ha sposato Titti Giovannoni. E dove ormai è di casa: chiedere per credere all’Hotel Bonadies, che Brunetta ha definito «la mia seconda famiglia». Più in generale, «sono in molti quelli che cercano di spostarsi. Il Lazio era un bacino solido, ma dopo quanto accaduto recentemente è venuto meno. Insomma, si stanno muovendo le tombe di famiglia pur di conservare il posto», conclude ironicamente l’interlocutore.

CARO “PORCELLUM”… - Dal palco di Atreju Angelino Alfano ha rassicurato tutti: la legge elettorale si farà entro la prima decade di ottobre. Anzi, ha incalzato il segretario, «chiediamo a coloro i quali in modo indiretto stanno difendendo il “Porcellum” di farlo pubblicamente». Peccato che, a ben guardare, sia proprio il Pdl a trarre i maggiori vantaggi dal mantenimento dell’attuale sistema di voto. I tempi per l’approvazione stringono, e il fatto che dopo mesi di trattative e di richiami del Capo dello Stato la situazione sia uguale a prima fa pensare che i cavilli – vedi il nodo che riguarda la reintroduzione o meno delle preferenze – siano in realtà dei semplici escamotage per annacquare il tutto. Ne è sicuro anche Pino Pisicchio, capogruppo alla Camera dell’Api, che il 20 settembre scorso ha scritto su Europa (organo ufficiale del Pd) che «i recenti resoconti descrivono un preoccupante impasse al Senato, dov’è partito il confronto». Questo perché – argomentava Pisicchio – «abbandonato lo schema originario che reggeva sull’intesa tra i partiti che sostengono il governo Monti, si profila l’ipotesi concreta di un blitz del Pdl e della Lega, forte dei numeri favorevoli al Senato, con la possibile adesione dell’Udc, se l’impianto includesse il voto di preferenza. Impostazione che, per la storica avversione del Partito democratico alle preferenze, rappresenta un considerevole gesto di rottura del patto tra i partiti della “strana maggioranza”». Il rischio concreto è «la produzione del nulla, con l’inesorabile ritorno del “Porcellum”, poiché il voto alla Camera non solo propone una diversa platea elettorale quanto a numerosità della maggioranza del Senato, ma anche la votazione segreta della legge elettorale». Esattamente quello che sembra volere il Pdl. Cambiare tutto per non cambiare niente. In pieno stile gattopardesco.

Twitter: @GiorgioVelardi     

Professione Onorevole – da “Il Punto” del 21/09/2012

venerdì, settembre 28th, 2012

L’Associazione Openpolis monitora l’attività di deputati e senatori e permette ai cittadini di essere sempre informati su quanto realmente prodotto dagli oltre 900 parlamentari italiani. Di Pietro primeggia fra i leader di partito davanti a Casini, Alfano, Maroni e Bersani. Male i “big”, quasi tutti con un basso indice di produttività. Mentre si moltiplicano i cambi di casacca: a pagare dazio soprattutto il Pdl

«La legge elettorale verrà a questo punto e con ogni probabilità riformata in Parlamento a maggioranza». In mezzo allo stallo che vige da mesi intorno al cambiamento del sistema di voto, uno degli assi portanti del dibattito politico, è il segretario del Pri Francesco Nucara ad indicare la strada maestra. Malgrado le buone intenzioni, serpeggia la paura – fra gli elettori, più che tra le forze politiche – che alla fine si tornerà a votare con il “Porcellum”. Sarebbe la terza volta, potrebbe non essere l’ultima. Ma chi sono i «nominati» che finora hanno lavorato meglio e quali, invece, quelli che hanno fatto peggio? E i partiti? Quali di quelli presenti in Parlamento hanno perso più membri dall’inizio dell’attuale legislatura? L’associazione Openpolis, che si autodefinisce un «osservatorio civico della politica che analizza quotidianamente i meccanismi complessi che muovono l’Italia», promuove l’open government e permette ai cittadini di essere costantemente informati sull’attività degli oltre 900 parlamentari che compongono Camera e Senato.

SECCHIONI E FANNULLONI - Antonio Borghesi (Idv) e Gianpiero D’Alia (Udc). Non saranno fra i parlamentari più conosciuti, eppure sono quelli che alla Camera e al Senato fanno registrare il più alto indice di produttività, calcolato sulla base di criteri che verificano quanto una data attività sia stata effettivamente produttiva. «Andiamo a vedere che fine hanno fatto gli atti presentati dal parlamentare, quanti sono stati discussi, votati o diventati legge, quanti, invece, sono rimasti solo intenzioni», si legge su www.openpolis.it. Insomma: non serve scaldare la poltrona ma “fare”. Nella top ten alla Camera compaiono Franco Narducci (2°), Pier Paolo Baretta (3°), Maria Antonietta Farina Coscioni (6°), Roberto Zaccaria (9°) e Maurizio Turco (10°) del Partito democratico, Donato Bruno (4°), Manlio Contento (7°) ed Edmondo Cirielli (8°) del Pdl e Stefano Stefani (5°) della Lega Nord. I big di partito hanno invece andamenti molto differenti. Al 16° posto della radicale Rita Bernardini si alterna il 156° del capogruppo Pdl alla Camera Fabrizio Cicchitto, così come alla 41esima posizione dell’ex ministro del Lavoro Cesare Damiano (Pd) si contrappone la 496esima occupata dal suo collega di partito Massimo D’Alema. In altre faccende affaccendati, quasi tutti i pezzi grossi di Montecitorio navigano nei bassifondi. Rosy Bindi è 425esima, Walter Veltroni 457esimo, Giuseppe Fioroni occupa la posizione numero 510 e Giovanna Melandri la 551. Va un po’ meglio all’ex segretario Dario Franceschini e ad Enrico Letta (vice di Bersani alla guida del Pd), che sono rispettivamente al 255esimo e al 267esimo posto. Sul fronte opposto, quello del Pdl, l’andazzo è simile. Renato Brunetta è “solo” 367esimo, Mara Carfagna 494esima, Raffaele Fitto 533esimo, Michela Vittoria Brambilla 567esima, Denis Verdini 616esimo e Niccolò Ghedini (avvocato di Silvio Berlusconi) addirittura 621esimo. Anche in questo caso non mancano le “mosche bianche”. Jole Santelli, vicecapogruppo alla Camera del partito, è 56esima, mentre Giorgio Jannone (presidente della Commissione di controllo sulle attività degli enti gestori di forme obbligatorie di previdenza e assistenza sociale) è 85esimo. Tra le varie formazioni spicca l’attivismo dell’Italia dei valori. Molti dei deputati del partito di Antonio Di Pietro – che alla Camera conta 20 seggi – sono fra le prime cento posizioni. Il responsabile giustizia Federico Palomba è 37esimo, Fabio Evangelisti 47esimo e Francesco Barbato 92esimo. Al Senato, invece, alle spalle di D’Alia c’è Carlo Vizzini (Udc), presidente della commissione Affari costituzionali. Fra i “diligenti” di Palazzo Madama c’è un folto gruppo del Pdl formato da Lucio Malan (3°), Filippo Berselli (6°), Antonio D’Alì (7°), Antonio Azzolini (8°) e Giampaolo Bettamio (9°), a cui si uniscono i democratici Felice Casson (4°) e Stefano Ceccanti (5°) e il leghista Massimo Garavaglia (10°). E i pezzi da novanta? Nel Pdl Maurizio Gasparri è 95esimo, Altero Matteoli 158esimo, Gaetano Quagliariello 245esimo, Maurizio Sacconi 267esimo e Carlo Giovanardi 295esimo. Nel Pd spiccano i nomi di Enzo Bianco (20°) e di Anna Finocchiaro (76°); nell’Idv sono invece Luigi Li Gotti (12°), Elio Lannutti (17°), Pancho Pardi (34°) e Felice Belisario (43°) i più “produttivi”.

L’HIT PARADE DEI LEADER - A ridosso delle prime dieci posizioni alla Camera dei deputati c’è Antonio Di Pietro (11°), presidente dell’Italia dei valori. L’ex pubblico ministero è il primo, fra i leader di partito, ad occupare un posto così alto in graduatoria, grazie ad un indice di produttività di 681.0. Molto più staccati i segretari di Pd, Pdl, Udc e Lega Nord. I dati, aggiornati al 13 settembre 2012, vedono Pier Ferdinando Casini 268esimo, con un indice di produttività di 168.8, malgrado un numero di presenze – che si riferiscono alle votazioni elettroniche che si svolgono alla Camera e al Senato dall’inizio della legislatura – superiore a quello di Di Pietro (58,48% contro 46,20). Bisogna invece scendere di oltre duecento posizioni per trovare Angelino Alfano. Erede designato di Silvio Berlusconi alla guida del Popolo della Libertà, anche se ancora relegato nelle retrovie, l’ex ministro della Giustizia occupa la casella numero 471. Quasi sempre in “missione” (69,76%), Alfano ha un indice di presenze molto basso, appena il 10,98%. Non va meglio a Roberto Maroni, successore di Umberto Bossi a capo della Lega Nord. Il «rottamatore» del Carroccio è 503esimo, con una percentuale impressionante di missioni (82,49%), un bassissimo numero di presenze (6,38%) e un indice di produttività di appena 93.6. Il cucchiaio di legno, per dirla in termini rugbistici, spetta però al segretario del Partito democratico Pier Luigi Bersani, solo 518esimo su 630 alla Camera: 70,01% le assenze, 85.7 l’indice di produttività.

EMORRAGIA PDL - Ottanta parlamentari in meno dall’inizio della legislatura. A tanto ammonta il deficit – ma la si potrebbe tranquillamente definire “emorragia” – del Pdl, che dal 2008 ad oggi ha perso ben 64 deputati e 16 senatori. Come lui nessuno mai, alla luce del fatto che il Pd ha visto “partire” 11 deputati e 14 senatori (25 parlamentari in totale) e l’Udc addirittura guadagnarne 11 (4 alla Camera e 7 al Senato). Insomma, il partito è ad un bivio: il suo futuro è legato alla decisione di Berlusconi di ricandidarsi o meno in vista delle elezioni del 2013. Il Cavaliere, in base alla nuova legge elettorale che sarà varata (sempre che la si faccia), dovrà decidere come riorganizzare il partito. Basta “traditori” – come scrisse quel famoso 8 novembre 2011 alla Camera su un foglio abilmente immortalato dai fotografi –, stop agli errori fatti in passato. Al Popolo della Libertà è infatti costata cara la diaspora finiana, dopo il noto «che fai, mi cacci?» del presidente della Camera: Fli conta ora 26 deputati (all’inizio erano 40) e 14 senatori (in quest’ultimo caso in coabitazione con l’Api). Ma ad aver voltato le spalle all’ex premier ci sono anche fedelissimi come Gabriella Carlucci, passata all’Udc, e Giorgio Stracquadanio, ultimo in ordine di tempo ad aver abbandonato la nave per aderire al Gruppo Misto. Non vanno poi dimenticati Paolo Guzzanti e Silvano Moffa, uno dei recordman del cambio di casacca nella legislatura 2008/2013: prima Pdl, poi Fli, Gruppo Misto e infine Popolo e Territorio (stesso percorso seguito anche da Barbara Siliquini e Catia Polidori). Va meglio, come preannunciato, al Pd. Fra i nomi noti ad aver lasciato i democrat figurano Paola Binetti, Renzo Lusetti ed Enzo Carra, ora tutti deputati dell’Udc, e Francesco Rutelli, che nel novembre 2009 ha dato vita ad Alleanza per l’Italia (Api). Bilancio in rosso anche per Italia dei valori e Lega Nord. Di Pietro ha dovuto fare i conti con “l’alto tradimento” di Antonio Razzi, Domenico Scilipoti e altri 6 deputati (più 2 senatori, Giuseppe Astore e Giacinto Russo), mentre il Carroccio ha perso pezzi solo al Senato. Dopo lo scandalo che ha portato al totale riassetto dei vertici leghisti la “pasionaria” Rosy Mauro, Lorenzo Bodega e Piergiorgio Stiffoni sono infatti passati al Gruppo Misto. Non mancano poi i “transfughi cronici”. Oltre al già citato Moffa, ecco Americo Porfidia (Idv-Gruppo Misto-Popolo e Territorio-Gruppo Misto), Giampiero Catone (Pdl-Fli-Gruppo Misto-Popolo e Territorio) e Antonio Milo (Gruppo Misto-Popolo e Territorio-Gruppo Misto-Popolo e Territorio) alla Camera, Mario Baldassarri (Pdl-Fli-Gruppo Misto-Api/Fli), Adriana Poli Bortone (Pdl-Gruppo Misto-Api/Fli-Coesione Nazionale) ed Elio Massimo Palmizio (Pdl-Coesione Nazionale-Pdl-Coesione Nazionale) al Senato. Chissà se li rivedremo ancora in Parlamento. In quel caso, il consiglio è uno e uno solo: avere le idee chiare da subito.

Twitter: @GiorgioVelardi            

«L’Italia rischia di uscire dall’Europa. Bocciare i referendum? Scelta politica» – da “Il Punto” del 7/9/2012

mercoledì, settembre 12th, 2012

È netto Mario Segni, storico “leader referendario” degli Anni ’90, quando parla di ciò che sta accadendo al sistema politico italiano. Dice che sulla bocciatura del referendum (che avrebbe dovuto cancellare il “Porcellum”) da parte della Consulta «la classe politica ha una terribile responsabilità: quella di avere provocato e dettato la sentenza», in modo da poter mettere nero su bianco una legge elettorale che rischia di segnare «l’uscita politica dell’Italia dall’Europa. E che, visto quanto si prospetta, è una vergognosa presa in giro degli italiani».

Segni, lei che ha contribuito ad un cambiamento di rotta significativo sulla questione elettorale, ad aprile ha dichiarato che «la Bce dovrebbe temere la nuova legge», e che la stessa è «un delitto contro l’Italia». È ancora di questo avviso, viste le novità?  
«Più che mai. Anzi, ripeto e amplifico quanto ho detto qualche mese fa. Il problema fondamentale oggi è l’Europa, e fuori dal continente l’Italia ha un destino drammatico. Restare al suo interno vuol dire percorrere una strada durissima, fatta di lacrime e sangue. Chi può guidare il Paese su un percorso durissimo ma necessario? Solamente un governo politico che abbia ottenuto la legittimazione degli elettori vincendo le elezioni. Bersani e Casini dicono che l’alleanza la faranno dopo. Sì, per poi sfasciarla in tre mesi. Che forza può avere un esecutivo fondato sulla trattativa fra due partiti che dicono cose diverse, che non si sono presentati assieme? Andremmo incontro ad un possibile rovesciamento da parte del Parlamento. È una strada scellerata. Il ritorno al proporzionale significa ritorno a governi brevi e deboli, che non possono reggere questo sforzo immane».

Secondo lei la continua melina delle varie formazioni, malgrado i richiami del Capo dello Stato, nasconde la volontà di proseguire con il “Porcellum”?
«Le dico che i partiti possono addirittura riuscire in un “miracolo” che non avrei mai previsto. E cioè, visto quanto si prospetta, fare qualcosa di peggio del “Porcellum”. Quando sento che metà dei seggi sarebbero conservati per i designati dall’alto, allora penso che questa è una vergognosa presa in giro degli italiani, della democraticità del sistema e dell’indispensabile bisogno di governabilità. È un percorso in cui non vedo una personalità “alta” che riesca a dire che il problema non è se il Pd prende qualche voto in più e Berlusconi qualcuno in meno, ma il futuro di 60 milioni di persone».

Lei faceva riferimento ai listini bloccati. Cicchitto (Pdl) ha fatto sapere che si tratta di una mossa necessaria per assicurare l’ingresso in Parlamento di «una serie di parlamentari di alto livello»…
«Si tratta, com’è chiaro, di un meccanismo che serve per tenere dentro le Aule i dirigenti dei partiti. Ma mi preme aggiungere un altro aspetto, che esula in parte da questo discorso…».

Mi dica.
«Una delle proposte sul tappeto è incostituzionale, e questo non sfuggirà al Capo dello Stato. Mi spiego: l’ipotesi del premio di maggioranza al partito attribuisce più seggi ad una forza – la prima – senza che ciò sia giustificato e motivato da quello che è il fondamento di un sistema maggioritario, ovvero assicurare la governabilità. Il maggioritario è un sacrificio alla rappresentatività in nome di un altro bene, ovvero la governabilità. Se nel “Porcellum” il premio di maggioranza assicurava stabilità, nel nuovo sistema non serve a nulla».

Di che tipo di legge elettorale ha bisogno l’Italia?
«La grande riforma iniziata vent’anni fa con i nostri referendum si conclude solamente con il presidenzialismo. Nel frattempo avevamo una soluzione che avrebbe aiutato moltissimo l’Italia, proposta al referendum: il ritorno al “Mattarellum”. Ritengo che questa classe politica abbia una terribile responsabilità: quella di avere provocato la sentenza della Corte costituzionale, che è stata una sentenza politica, voluta e in certi momenti addirittura dettata dallo stesso mondo politico, forte della volontà di una legge che “faremo noi dopo”. Credo che oggi siano in tanti quelli a cui rimorda un po’ la coscienza».

Si parla della possibilità di una grande coalizione. Di recente, intervistato da “Avvenire”, il presidente dell’Udc Buttiglione ha dichiarato che «per noi questa è la prima ipotesi». È uno scenario realizzabile?
«Se c’è la volontà di fare una grande maggioranza ci si presenti agli elettori chiedendo i voti. Credo che non sarebbe un’ipotesi felice, ma avrebbe una sua legittimità. Attenzione, però: il governo di grande coalizione, conosciuto in molte democrazie – anche in Paesi che hanno sistemi maggioritari –, significa governo di tutti. Quello che si prospetta in Italia sarebbe l’esecutivo di Alfano, Bersani e Casini. E gli altri? Si sta usando la storia per camuffare accordi di un pezzo di politica che vuole semplicemente tornare al potere».

Non è un mistero che ci sia la possibilità che Monti resti a Palazzo Chigi, o faccia il ministro dell’Economia nel corso della prossima legislatura…
«La soluzione migliore, forse l’unica via d’uscita, è una coalizione che chieda i voti per fare dopo le elezioni un governo Monti sulla linea europea. Sarebbe un governo forte perché legittimato dal voto popolare, e potrebbe riuscire nell’impresa. Ma mi pare che pensino un’altra cosa: Monti come ripiego, come mediazione tra i partiti dopo il voto, una riedizione dei vecchi “governi balneari”. Un governo debolissimo, senza investitura popolare, che i partiti condizionerebbero e sfascerebbero quando vogliono. Insomma un disastro. Non lo auguro a lui e tantomeno all’Italia».

Come giudica l’operato dell’esecutivo guidato dall’ex Commissario europeo?
«Monti è stato chiamato in un momento terribile. Credo che alcune cose fatte siano discutibili, ma nel complesso non c’è dubbio che il suo governo ci abbia allontanato dal baratro, anche se molti discorsi sono tuttora aperti».

In conclusione, non posso non chiederle un parere sulle schermaglie in corso a sinistra fra Bersani, Di Pietro e Grillo. Chi ci guadagna e chi ci rimette, a suo avviso?   
«Penso che l’unico ad averne tratto vantaggio sia stato Roberto Benigni, che come di consueto ha fatto uno spettacolo meraviglioso. È sempre il migliore di tutti».

Twitter: @GiorgioVelardi