L’Italia perde un altro dei suoi pezzi pregiati: la Ar Industrie Alimentari. Sono 225 le persone che rischiano di ritrovarsi senza lavoro dal prossimo 30 giugno, ma con l’indotto si sale a 1.500. Causa: la cessione del 51% della società a Princes Ltd, azienda anglo-nipponica che fa capo a Mitsubishi e che ha fatto sapere di non voler puntare sugli stabilimenti abatesi per spostare tutta la produzione a Foggia
Per i lavoratori della Ar Industrie Alimentari, primo produttore di pomodori pelati in Italia con sede a Sant’Antonio Abate (Na), quella da poco trascorsa non è stata una Pasqua come le altre. Perché ritrovarsi senza lavoro, in tempi di forte crisi economica, è diventato in Italia un problema irrisolvibile. Qual è il motivo che il 30 giugno prossimo costringerà 225 lavoratori (e famiglie) – più l’indotto, che li porta a salire a oltre 1.500 – a cercare una nuova occupazione? La cessione del 51 per cento dell’azienda alla Princes Limited, società anglo-nipponica che fa capo alla Mitsubishi corporation. E la conseguente decisione di chiudere (o riqualificare, secondo le ultime intenzioni dei nuovi vertici) gli stabilimenti campani per affidare la produzione ad un altro opificio, quello di Incoronata, a Foggia, passato dalla gestione di Ar Industrie Alimentari a quella della New company Princes Industrie Alimentari. I lavoratori sono in presidio permanente in attesa che la situazione cambi in positivo. Anche se il futuro appare a tinte fosche.
UNA STORIA LUNGA 50 ANNI – Era il 1962. L’anno in cui nasceva La Gotica, la prima delle tante aziende gestite dall’oggi 81enne Antonino Russo. Gli affari girano – e bene –, tanto che nove anni dopo vede la luce lo stabilimento Ipa di via Buonconsiglio, a Sant’Antonio Abate. Nel 1979, poi, La Gotica viene assegnata ad una nuova società di capitali, la Conserviera Sud S.r.l. Negli Anni ’80 Russo costituisce altre quattro società nel settore delle conserve alimentari, che nel 2000 riunisce in un’unica azienda denominata appunto «Ar Industrie Alimentari S.p.a.». Un colosso nel suo campo: l’ultimo bilancio disponibile, datato 2009, vede ricavi pari a 272 milioni di euro, un margine operativo lordo di 30 milioni e utili per 13,7. Le perdite sono per 127 milioni, in crescita di 35,3 milioni rispetto all’anno precedente. Ecco allora l’idea di vendere la quota di maggioranza alla Princes Ltd (che possedeva già il 7 per cento del capitale azionario), anche per dare – forse – respiro internazionale al gruppo. Che però, a ben vedere, non ne ha bisogno, visto che solo il 20 per cento delle vendite di Ar avviene in Italia e il restante 80 è diviso tra Inghilterra, Francia, Germania e addirittura Africa. Ma c’è un altro passaggio importante nella storia industriale di Russo: l’apertura dello stabilimento di Incoronata, a Foggia, costato circa 80/90 milioni di euro, stanziati da Sviluppo Italia (l’Agenzia nazionale per lo sviluppo d’impresa e l’attrazione degli investimenti). Episodio che è stato oggetto di un “giallo”, ovvero un’interrogazione parlamentare, subito ritirata, da parte del deputato abatese Gioacchino Alfano (Pdl), con la quale nel 2005 si domandava all’allora ministro per le Attività produttive Antonio Marzano di fare luce sul futuro dei lavoratori di Sant’Antonio Abate vista la creazione del nuovo opificio. Marzano e Massimo Caputi, amministratore delegato di Sviluppo Italia, rassicurarono i lavoratori: «Gli stabilimenti abatesi resteranno aperti». Peccato che ora i 225 conservieri rischino di ritrovarsi con un pugno di promesse in mano, e nulla più.
LA PAROLA AI SINDACATI – «Lo stabilimento di Foggia, che in principio doveva servire per affiancare gli opifici di Sant’Antonio Abate – eravamo stati rassicurati anche da Marzano e Caputi –, ora pare diventerà quello principale. Siamo in attesa di un consiglio regionale per analizzare una situazione in cui le parti sociali non sono state interpellate», dichiara a Il Punto Gennaro Cerchia della Rsu Uil. «Abbiamo appreso la notizia del passaggio di proprietà dai giornali, il 26 marzo scorso. C’è un altro particolare, di cui tenere conto: nel momento in cui noi abbiamo chiesto l’apertura di un tavolo di trattativa ai nuovi proprietari della Ar, sono state spedite le lettere ai dipendenti per avvisarli che la lavorazione del pomodoro sarebbe cessata. Non è possibile che uno stabilimento che fattura oltre 200 milioni di euro venga chiuso – prosegue Cerchia –, e che la comunicazione arrivi con così poco preavviso». Ma la Newco sembra intenzionata a riqualificare lo stabilimento in un pastificio: «Fare una riconversione del genere non ha senso. Anche perché a pochissimi chilometri da noi c’è Gragnano, dove ci sono dieci pastai. A mio parere si tratta semplicemente di una presa in giro». Sulla stessa lunghezza d’onda anche Nicola Ricci, segretario generale Flai-Cgil a Napoli: «Ciò che colpisce è che di fronte ai sindaci dell’area, alla Regione e al Prefetto, l’azienda abbia confermato che il progetto non cambia di una virgola. Si chiudono i siti campani e si lascia attivo solo quello pugliese. La cosa grave è che si viene a sapere della presenza di un finanziamento pubblico dell’Isa (Istituto Sviluppo Agroalimentare, la società finanziaria con socio unico il ministero delle Politiche agricole, ndr) per un totale di 66 milioni di euro in due tranche, che serviranno solo per rafforzare Foggia. Sull’area campana si chiudono i siti, e l’unica proposta è la procedura di mobilità. Ovvero dei licenziamenti di massa. Si fa macelleria sociale». E ai sindacati (come confermato proprio da Ricci) non è stato ancora consegnato alcun documento ufficiale da parte dei nuovi numeri uno della Ar. Emilio Saggese (Uila Napoli) afferma invece: «Gli ultimi dati dicono che nella zona del napoletano si concentra l’80 per cento dei fallimenti della Regione Campania. Fare la guerra tra poveri, delocalizzando tutto a Foggia – dove fra l’altro si lavorerà stagionalmente, cioè solo tre mesi l’anno. Di questo dovrebbe rispondere anche la Regione Puglia – e lasciando a piedi i lavoratori abatesi è un giochino che a noi ovviamente non piace».
IL SOSTEGNO DI BARBATO – Chi perora la causa dei lavoratori della Ar Industrie Alimentari è il deputato dell’Italia dei Valori Francesco Barbato, che ha deciso di passare la Pasqua a Sant’Antonio Abate. «Si tratta dell’ennesimo scandalo di industriali che non fanno più il loro mestiere perché preferiscono fare attività speculativa e finanziaria», dice Barbato a Il Punto. «Più che di imprenditori bisognerebbe parlare di “prenditori”, perché questi intascano finanziamenti pubblici regionali, statali ed europei facendo saltare un intero reparto conserviero, vero “oro rosso” della Campania. Questa classe di imprenditori è poi accompagnata da una scarsa politica industriale, cominciata con il precedente governo Berlusconi e proseguita con quello Monti». Barbato assicura che porterà il caso in Parlamento: «Sto per depositare un’interrogazione per fare luce su questa vicenda, per difendere ad ogni costo gli oltre 220 lavoratori che hanno visto avviata la procedura di mobilità».
LA CONDANNA – Come se non bastasse, all’inizio del mese il numero uno di Ar Industrie Alimentari Antonino Russo è stato condannato dal tribunale di Nocera Inferiore a quattro mesi e al pagamento di 6 mila euro di multa per aver venduto pomodoro cinese spacciandolo come prodotto made in Italy. Le indagini, svolte dai Nac (Nucleo Antifrodi Carabinieri) di Salerno, sono cominciate nell’ottobre del 2010 con il sequestro di 500 tonnellate di pomodoro etichettato «Ar Industrie Alimentari» ma soggetto in realtà a contraffazione. Decisiva, dopo che nel novembre 2010 il tribunale del Riesame di Salerno aveva accolto la richiesta dei legali di Russo disponendo il dissequestro dei beni, è stata la consulenza tecnica del Professor Paolo Masi, preside della Facoltà di Agraria dell’Università Federico II di Napoli. Contattato da Il Punto, Masi ha spiegato: «Si è trattato di un parere basato sulla tecnologia di lavorazione del prodotto. Nel caso in questione, risalente a fine 2010, si parlava di un’importazione di triplo concentrato proveniente dalla Cina, che veniva diluito e ripastorizzato per poi essere inscatolato come doppio concentrato ed etichettato come made in Italy. Quanto sostenuto dalla difesa dell’imprenditore – prosegue Masi – è che il prodotto era sì fatto con materie prime non italiane, ma la lavorazione fondamentale avveniva sul suolo italico e quindi era da considerarsi di produzione interna. Nella mia relazione ho dimostrato che questa lavorazione effettuata nel nostro Paese altro non era che una semplice operazione che serviva a ristabilizzare il prodotto che era stato diluito, ma che non cambiava le sue caratteristiche e anzi le peggiorava, perché il danno termico veniva aumentato». Ma la Ar Industrie Alimentari non è l’unica ad utilizzare pomodori provenienti dal colosso asiatico: «In Italia l’impiego di pomodori cinesi inizia trent’anni fa. I “problemi” nascono quando i prodotti che arrivano da questo Paese hanno cominciato ad essere demonizzati. Attenzione, perché fra l’altro non parliamo neanche di pomodori ma di semilavorati: il loro trasporto dalla Cina all’Italia avrebbe dei costi esorbitanti e i prodotti arriverebbero qui già marci. Da tecnologo alimentare non demonizzo nulla: certo è che quando vedo scritto made in Italy ma in realtà così non è credo sia giusto parlare di “truffa”».
Twitter: @GiorgioVelardi