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Archive for the ‘Politica’ Category

Nella Cgil è già partita la corsa al dopo-Camusso. Ecco i nomi dei possibili successori

mercoledì, novembre 22nd, 2017

Camusso_2Il suo secondo mandato scadrà esattamente fra un anno, a novembre 2018. Ma Susanna Camusso potrebbe anche chiudere in anticipo la propria esperienza alla guida della Cgil se le venisse offerto un seggio in Parlamento. L’interessata per ora ha stoppato qualsiasi ipotesi di ‘discesa in campo’. A metà settembre, alla festa della Cgil a Lecce, Camusso ha detto chiaro e tondo che “la scelta di non candidarmi non è solo personale ma è anche una scelta per la Cgil. Questa non è una critica per chi in passato ha fatto la scelta di stare in Parlamento, ma ci sono stagioni e stagioni”. Vedremo se sarà veramente così. Anche perché i suoi due predecessori, Sergio Cofferati e Guglielmo Epifani, hanno fatto il ‘grande passo’, sbarcando chi all’Europarlamento (il primo) chi alla Camera (il secondo) col Pd, prima di dire addio in polemica con la linea di Matteo Renzi, uno degli arcinemici dell’attuale leader della Cgil.

Pesi e contrappesi – L’unica cosa certa, al momento, è che la corsa per la successione è già in fase avanzata. I nomi sul tavolo sono tre: si tratta di Serena SorrentinoVincenzo Colla e Franco Martini. Non in rigoroso ordine di gradimento, però. Perché se è vero che, come recita il vecchio adagio, gli ultimi saranno i primi, su Colla e la Sorrentino alla fine potrebbe spuntarla proprio Martini. Sessantaquattro anni, nato a Tunisi ma cresciuto a Prato (la sua famiglia è originaria di Livorno), Martini è entrato nella Confederazione Generale Italiana del Lavoro nel 1975, a 22 anni. Prima segretario generale della Camera del lavoro di Prato, poi membro della segreteria regionale della Cgil Toscana – della quale è diventato segretario generale dal ’92 al 2000 – Martini sbarca a Roma per guidare la Fillea, il sindacato dei lavoratori delle costruzioni. Poi a settembre del 2008 viene eletto segretario generale della Filcams, la categoria della Cgil che organizza e rappresenta i lavoratori del Commercio, Turismo e Servizi, infine il 23 giugno 2014 entra in segreteria nazionale confederale. Uno al quale l’esperienza non manca, insomma. Stesso discorso per Colla. Piacentino, classe 1962, nell’ultimo anno il 55enne ha scalato posizioni nel sindacato di Corso d’Italia grazie anche all’appoggio delle più potenti federazioni di categoria, a partire dai pensionati (Spi): 2.863.318, oltre il 50 per cento del totale di quelli della Cgil secondo l’ultimo dato disponibile (aggiornato al 31 dicembre 2016) sul sito Internet.

Terza via – La terza e ultima ipotesi in campo è quella della Sorrentino. A dispetto dell’età l’attuale responsabile della funzione pubblica della Cgil, originaria di Arzano (Napoli), vanta anche lei una lunga esperienza nella Cgil. Nata nel 1978, proprio l’anno in cui Luciano Lama annunciava la “svolta dell’Eur”, Sorrentino si è avvicinata al sindacato di Corso d’Italia nel ’94, a soli 16 anni. Da quel momento in poi la sua carriera è stata in costante ascesa, tanto da approdare nel 2010, a 32 anni, nella segreteria di Epifani col ruolo di responsabile delle politiche sulle Pari opportunità. Chi la conosce la descrive come una persona attenta, riflessiva, mai sopra le righe e senza troppa voglia di apparire. Anche se qualche incursione televisiva, in questi anni, se l’è concessa pure lei. Come quando a gennaio di quest’anno, seduta nel salotto di Porta a Porta, è stata protagonista di un serrato confronto con Tommaso Nannicini, ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio e braccio destro del segretario del Pd, al quale il 20 settembre 2014 “Serena” aveva indirizzato un tweet al veleno: “La Cgil vuole estendere lo statuto dei lavoratori a tutti, Matteo Renzi vuole licenziare liberamente tutti. Chi è che difende diritti/lavoro?”. Una alla quale, indubbiamente, il carattere non manca.

Articolo scritto il 22 novembre 2017 per La Notizia

Da Alfano alla Boldrini. Col Rosatellum ecco chi rischia il posto

sabato, ottobre 14th, 2017

angelino-alfanoC’è chi ha già annunciato l’intenzione di farsi da parte. Come Rosy Bindi (Pd), che dopo 23 anni di Parlamento tornerà al suo vecchio amore: la teologia. Un’auto-rottamazione in piena regola, quella della presidente della commissione parlamentare Antimafia, com’era già successo 5 anni fa ai vari Walter Veltroni e Massimo D’Alema (che oggi non esclude il ritorno con Articolo 1-Mdp). Altri invece al prossimo giro rischiano di ritrovarsi fuori dal Parlamento ma non per scelta. Disoccupati della politica, verrebbe da dire. Categoria nella quale possono finire molti big: da Angelino Alfano (Ap) a Pier Luigi Bersani (Mdp) fino alla presidente della Camera, Laura Boldrini. Ma non solo. I calcoli, dentro ai partiti, sono già cominciati. Infatti ci sono da considerare le regole del Rosatellum bis, la legge elettorale che il Governo – su richiesta del Partito democratico – ha blindato a Montecitorio con la fiducia.

Un sistema misto proporzionale-maggioritario, in cui un terzo dei deputati è eletto in collegi uninominali e i restanti due terzi con un sistema proporzionale di lista. Due le soglie di sbarramento: 3% per la lista appunto (su base nazionale per entrambe le Camere) e 10% per le coalizioni. Ad oggi, con alleanze labili e sondaggi che visti gli ultimi precedenti vanno presi con le pinze, soprattutto per i partiti più piccoli di rientrare a Palazzo non v’è certezza.

Questioni sinistre – A partire da quelli a sinistra del Pd. Mdp, Sinistra Italiana e civatiani si “annusano” da tempo, ma anche nell’ottica di una lista unitaria mettere nuovamente piede dentro Camera e Senato non sarà facile. Stando all’ultima rilevazione di Emg Acqua per il TgLa7, infatti, i bersanian-dalemiani raccolgono oggi il 2,2% mentre il partito di Nicola Fratoianni non va oltre il 2,1%. Sulla carta non si preannuncia proprio un successone, insomma. Tanto che qualche maligno, dalle parti del Nazareno, ha agitato il fantasma della Sinistra Arcobaleno dei vari Fausto Bertinotti e Alfonso Pecoraro Scanio che alle Politiche del 2008 non riuscì a eleggere nemmeno un parlamentare. Oggi i 3 partiti contano una discreta rappresentanza fra Montecitorio e Palazzo Madama: 59 fra deputati e senatori i Democratici e Progressisti e 24 SI, che alla Camera “ingloba” pure i 4 eletti di Possibile, ovverosia Giuseppe CivatiBeatrice BrignoneLuca Pastorino e Andrea Maestri. Potenzialmente quindi sono tutti a rischio, a cominciare da Bersani (che ha dato una disponibilità di massima a ricandidarsi ma senza forzature), l’ex segretario della Cgil Guglielmo Epifani e Roberto Speranza. Ma anche l’ex viceministro dell’Economia, Stefano Fassina (quello del famoso “Fassina chi?” di renziana memoria), e lo stesso Fratoianni.

Che dire poi di Campo Progressista di Giuliano Pisapia? Al movimento dell’ex sindaco di Milano si sono già avvicinati alcuni parlamentari (come Bruno Tabacci e Dario Stefàno) e sul carro è già salita Boldrini. Fra la presidente della Camera e Pisapia ci sono “contatti quotidiani”, spiegano i ben informati. Ma anche in questo caso bisogna fare i conti col pallottoliere. Al momento, sempre stando al sondaggio di Emg, CP è all’1%. Numeri da lista civetta. Il che potrebbe costare alla numero uno di Montecitorio, entrata in Parlamento 4 anni fa con Sinistra Ecologia Libertà, la rielezione. Pure in questo caso, c’è chi ha evocato le vicissitudini del suo predecessore, quel Gianfranco Fini rimasto appiedato dopo che alle ultime elezioni Futuro e Libertà per l’Italia, nato dallo strappo con Silvio Berlusconi al grido di “che fai, mi cacci?”, ha raccolto un misero quanto inutile 0,47%. O dello stesso Bertinotti.

Cercasi deroga – Nel Centrodestra comunque c’è chi non è messo tanto meglio. Nelle intenzioni di Alternativa popolare c’è infatti la corsa solitaria, senza apparentamenti preventivi né da una parte né dall’altra. O almeno così ha detto nei giorni scorsi il neo coordinatore nazionale, Maurizio Lupi. Circostanza che rischia di costare cara al ministro degli Esteri e ad alcuni suoi fedelissimi, lo stesso Lupi e Beatrice Lorenzin in primis. Gli alfaniani sono oggi al 2,2%, al di sotto quindi della soglia di sbarramento. E la sconfitta di Fabrizio Micari alle Regionali siciliane del 5 novembre, data per certa, potrebbe rappresentare il colpo di grazia per i sogni di gloria di “Angelino”. In Forza Italia invece la strategia è decisa da tempo: Berlusconi ha intenzione di ricandidare solo 30 degli attuali parlamentari, tagliando i “rami secchi” e provocando così molti mal di pancia.

Anche nel Pd la situazione è ingarbugliata. Statuto alla mano, parecchi degli attuali deputati e senatori dovrebbero mollare lo scranno a causa del superamento del limite dei 3 mandati (15 anni). Fra questi pure il premier, Paolo Gentiloni, e i ministri Marco MinnitiDario Franceschini e Andrea Orlando. Più i capigruppo Ettore Rosato e Luigi Zanda. Tutti, comunque, dovrebbero essere salvati con una “deroga”, com’era peraltro già accaduto al giro precedente. Chi invece al 99% (ma mai dire mai) saluterà il Parlamento dopo 34 anni da onorevole e senatore è Pier Ferdinando Casini. Al neopresidente della commissione d’inchiesta sulle banche, rivela chi lo conosce bene, è stato promesso un ruolo alle Nazioni Unite. Proprio così. Cadrà in piedi, “Pierferdy”, da buon democristiano che si rispetti. Chapeau.

Twitter: @GiorgioVelardi

Articolo scritto il 13 ottobre 2017 per La Notizia

Berlusconi in Sicilia ha già vinto

mercoledì, settembre 6th, 2017

Berlusconi visita il comitato elettorale per Bertolaso SindacoLe Regionali siciliane di scena fra due mesi esatti, che tanti grattacapi hanno provocato a sinistra, un vincitore ce l’hanno già. E senza nemmeno dover aspettare il verdetto delle urne.

Sì, perché quale che sia il risultato del Centrodestra il 5 novembre, Silvio Berlusconi cadrà comunque in piedi. Riavvolgiamo il nastro. La candidatura di Nello Musumeci, avanzata da Fratelli d’Italia e Lega, era stata inizialmente bocciata dall’ex premier, che aveva puntato tutto sul leader dei SicilianIndignati Gaetano Armao. Ma proprio mentre l’avvocato palermitano iniziava le presentazioni del suo “Manifesto per il futuro della Sicilia”, ecco il dietrofront di Arcore: ticket Musumeci-Armao col primo candidato governatore e il secondo vice. Ora: se l’ex presidente della provincia di Catania dovesse vincere (per certi sondaggi è davanti al grillino Cancelleri), Berlusconi potrà dire che è anche grazie a Forza Italia; se invece fosse sconfitto, il Cav avrebbe gioco facile nel disconoscere la candidatura.

A quel punto, sceglierebbe lui programma e candidato premier del Centrodestra (Tajani?) alle Politiche del 2018. Chissà quale delle due ipotesi preferisce…

Twitter: @GiorgioVelardi

Editoriale scritto il 5 settembre 2017 per La Notizia

Vitalizi, 5 bufale che sarebbe bello non sentire più

domenica, agosto 27th, 2017

Vitalizi-1Sui vitalizi, uno dei privilegi più odiosi di cui gode ancora la nostra classe politica, si è detto e scritto di tutto. Così, proprio mentre la proposta di legge Richetti approvata il 26 luglio 2017 in prima lettura dalla Camera sembra destinata a finire su un binario morto, complice l’ostruzionismo dello stesso Pd, qualcuno continua a fare affermazioni un tantino strampalate, per usare un eufemismo. Ecco quindi una lista di 5 bufale (che da adesso in poi sarebbe bello non sentire più).  

Prima bugia: i vitalizi sono “diritti acquisiti”. In un post pubblicato sul suo sito Internet il 10 novembre 2014 Pietro Ichino (Pd) ha spiegato perché questa affermazione, ripetuta continuamente da ex parlamentari e consiglieri regionali preoccupati dal possibile taglio dei loro assegni, non corrisponde al vero. Per il giuslavorista, infatti, questo argomento «non ha alcun fondamento, né legislativo ordinario, né tanto meno di rango costituzionale». Tuttalpiù, ha chiarito ancora Ichino, possono essere considerate «oggetto di “diritto acquisito” solo le rate di vitalizio già percepite (se legittimamente percepite)».

Seconda bugia: serve una legge per abolire i vitalizi. A differenza delle pensioni dei “comuni mortali”, i vitalizi non sono “regolati” da leggi dello Stato. Sono materia parlamentare. Ecco perché non serve una norma, che le Camere dovrebbero discutere ed eventualmente approvare, per modificare lo status quo. Basta che gli Uffici di Presidenza di Montecitorio e Palazzo Madama si riuniscano, come avvenuto in recenti occasioni (la riforma entrata in vigore il 1° gennaio 2012 e la “delibera Sereni” del 22 marzo 2017), decidendo il da farsi. Sull’argomento il 21 giugno scorso è intervenuto Giuseppe Tesauro, presidente emerito della Corte Costituzionale. «Occorre chiedersi, in particolare, se lo strumento della legge ordinaria (…) sia quello giusto e sia costituzionalmente consentito. (…) Nel quadro di un sistema delle fonti del diritto articolato in base ai criteri di gerarchia e di competenza, i regolamenti parlamentari sono abilitati dalla Costituzione a sostituirsi, nella disciplina di determinate materie ad essi riservate, alla stessa legge formale. (…) Di conseguenza, una legge non può intervenire in materie di competenza dei regolamenti», ha annotato Tesauro sul Mattino, «perché altrimenti verrebbe violata l’indipendenza costituzionale garantita a ciascuna Camera. (…) In sostanza, nessuna altra fonte primaria potrà disciplinare o modificare materie coperte da riserva di regolamento parlamentare, nemmeno temporaneamente. Anche perché la legge è il risultato di un’attività bicamerale, la cui adozione si traduce sempre nell’interferenza di un ramo del Parlamento nell’autonomia dell’altro; interferenza che, con riguardo ad una materia già disciplinata tramite regolamento (quale quella dei vitalizi), solleva più di un dubbio».  

Terza bugia: i vitalizi non esistono più. Mica tanto. Per il calcolo della pensione degli Onorevoli non c’è più il vantaggioso sistema retributivo, sostituito da quello contributivo grazie alla già citata riforma del 1° gennaio 2012. Però, e qui sta il nocciolo della questione, la suddetta riforma non ha minimamente sfiorato tutti quelli che hanno maturato l’assegno prima della sua entrata in vigore (col retributivo, appunto). Così, ancora nel 2016, i vitalizi incidevano sui bilanci di Camera e Senato per un totale di 218 milioni di euro. Più di 18 milioni al mese. Il presidente dell’Inps, Tito Boeri, lo ha definito «un sistema insostenibile» visto che «negli ultimi 40 anni la spesa è stata sempre più alta dei contributi». L’economista ha calcolato che il passaggio al contributivo per tutti porterebbe le Camere a risparmiare 76 milioni all’anno (760 milioni nei prossimi 10 anni).

Quarta bugia: il ricalcolo contributivo dei vitalizi spiana la strada a quello di tutte le prestazioni pensionistiche in essere. Lo ha sostenuto, fra gli altri, anche Rosaria Capacchione (Pd). Che evidentemente, pur essendo una (brava) giornalista, non ha letto attentamente il testo della pdl Richetti, approvata il 26 luglio dall’Aula della Camera, o i giornali. L’articolo 12 comma 5 stabilisce infatti che «in considerazione della difformità tra la natura e il regime giuridico dei vitalizi e dei trattamenti pensionistici, comunque denominati, dei titolari di cariche elettive e quelli dei trattamenti pensionistici ordinari, la rideterminazione di cui al presente articolo non può in alcun caso essere applicata alle pensioni in essere e future dei lavoratori dipendenti e autonomi».

Quinta bugia: al vitalizio non si può rinunciare. E dove sta scritto? Non sono tanti i casi di ex parlamentari o consiglieri regionali che hanno rifiutato l’assegno. Ma ci sono. Qualche nome? Enrico Endrich (ex parlamentare del MSI) e Luciano Benetton (ex senatore del PRI) ma anche gli ex consiglieri di Emilia-Romagna e Piemonte, Matteo Richetti e Mariano Rabino, oggi deputati di Pd e Ala-Scelta Civica. Insomma, volere è potere.

La Casta non molla un euro

venerdì, agosto 11th, 2017

ROME 1991, GIULIO ANDREOTTIMolti diranno che è il solito, pretestuoso attacco alla Casta. Ce ne faremo una ragione. Perché leggere che a fine anno barbieri, elettricisti e ragionieri di Camera e Senato torneranno ai fasti di un tempo, arrivando a guadagnare, come nel caso dei consiglieri parlamentari (358mila euro l’anno), più di Mattarella o della Merkel provoca un certo senso di smarrimento oltreché di fastidio. Soprattutto se si calcola che il reddito medio dichiarato dagli italiani è di 20.690 euro l’anno.

Com’è stato possibile? Semplice: le delibere degli Uffici di presidenza delle due Camere che facevano “dimagrire” certe buste paga, datate 2014 (dopo che era scattata la soglia di 240mila euro per i compensi dei dirigenti di Stato), sono state impugnate e un anno dopo la Commissione giurisdizionale e il collegio d’appello si sono pronunciati dichiarando che i tagli erano legittimi ma dovevano essere temporanei: solo tre anni. A meno di una proroga, che sarebbe più “spintanea” che spontanea visto che è stata la stampa a ritirare fuori l’argomento. E che oltretutto pare esclusa.

Lorsignori, insomma, possono tornare a dormire sereni. Noi un po’ meno.

Twitter: @GiorgioVelardi

Editoriale pubblicato l’11 agosto 2017 su La Notizia

Renzi ha poco da festeggiare: “Il Jobs Act funziona male”. La bordata del professore Tiraboschi al Governo

mercoledì, agosto 2nd, 2017

Matteo_RenziPer dirla col gergo renziano, a leggere i dati sul lavoro diffusi ieri dall’Istat c’è poco da stare sereni. La pensa così anche Michele Tiraboschi, docente di Economia all’università di Modena e Reggio Emilia e presidente di Adapt, il centro studi sul lavoro fondato da Marco Biagi. “Una politica seria – spiega Tiraboschi – non può esultare per un tasso di disoccupazione in doppia cifra (11,1%) e ancor meno se si confronta col resto d’Europa”.

Eppure professore è quello che sta succedendo…
Se chi festeggia, invece di provare a difendere se stesso, leggesse con spirito critico questi dati avrebbe poco di cui gioire. L’Italia è fanalino di coda in Europa: la Germania ha un tasso di disoccupazione del 3,8%, il Regno Unito del 4,4. Il nostro 11,1% è un’enormità. Il resto è retorica. Sarebbe bello se dopo tre anni di Jobs Act anche chi l’ha voluto capisse cos’è che non funziona adottando dei correttivi.

Proviamo a guardare il bicchiere mezzo pieno: a giugno il tasso di occupazione femminile ha raggiunge il 48,8%. Buona notizia, non crede?
Sì, ma pure in questo caso bisogna fare attenzione ai facili trionfalismi. La vera notizia, leggendo quel dato, è che in Italia una donna su due in età di lavoro non ha un impiego. Nel Mezzogiorno è anche peggio: lavora solo una donna su tre. E le altre due? In questo senso, siamo di gran lunga il Paese peggiore d’Europa. La realtà è che in questi anni è stato fatto troppo poco per favorire l’occupazione femminile, soprattutto in termini qualitativi. È una grandissima emergenza che va presa di petto.

Lei poc’anzi parlava di correttivi da apportare al Jobs Act. Eppure ieri la sottosegretaria Boschi se n’è uscita domandando se qualcuno può ancora negarne il successo…
Credo che da parte della Boschi, ma non solo, ci sia una scarsa capacità di fare autocritica. L’obiettivo del Jobs Act non era quello di aumentare i posti di lavoro, ma di aumentare i posti di lavoro stabili sfruttando fra l’altro l’abolizione dell’art. 18. Invece i dati diffusi dall’Istat ci dicono che dal 1992 ad oggi non abbiamo mai avuto così tanti contratti a termine…

Cos’è che secondo lei proprio non ha funzionato?
Non si vedono le nuove politiche attive. Non è partito il contratto di ricollocazione: dopo tre anni siamo ancora fermi a una sperimentazione per 30.000 persone quando i disoccupati sono oltre 3 milioni. Sono dati oggettivi che confermano come il Jobs Act non stia funzionando nella parte ricostruttiva, oltre la demolizione del vecchio art. 18. Leggendo gli ultimi dati Istat c’è chi dice che qualcosa si muove, ma in realtà si tratta di un arretramento se guardiamo al miglioramento sostanziale che registrano tutti i nostri principali competitor europei.

Al di là del tasso di disoccupazione, l’altra grande questione (se prendiamo per esempio la situazione tedesca o britannica) è quella relativa al tasso di occupazione.
Proprio così. Nei Paesi del Nord Europa il tasso è dell’80% mentre da noi è fermo al 57. Troppo poco.

Qual è la ricetta per invertire la rotta?
Bisognerebbe dire “basta” alla politica del bonus ‘usa e getta’ abbattendo il costo del lavoro e investendo sulle competenze. In Germania ma non solo funziona benissimo uno strumento, l’apprendistato, che garantisce un’interazione fra scuola e mercato del lavoro. Noi invece siamo il Paese dei tirocini a 300 euro. E poi, come dicevo, andrebbero sviluppate politiche attive e di ricollocazione. Il piano Lavoro 4.0 annunciato da noi pochi giorni fa in Germania c’è da tre anni: un gap notevole.

È più un problema di volontà o di incapacità politica?
Direi sicuramente la seconda. In questi tre anni sono state distrutte le vecchie tutele senza costruire le nuove. Renzi, che è riuscito lì dove Berlusconi si era dovuto arrendere, ha messo in un angolo i corpi intermedi pensando di poter fare da solo a colpi di tweet. Una visione totalmente miope.

Articolo scritto il 1° agosto 2017 per La Notizia

Da Casero a tosiani e Udc. Cresce la fila da Silvio

sabato, luglio 22nd, 2017

Berlusconi visita il comitato elettorale per Bertolaso SindacoUn ex parlamentare che ha già mollato Angelino Alfano lo dice senza mezzi termini: “Se continua così, tra qualche settimana Alternativa popolare non esisterà più. Il 90% di quelli che sono lì dentro non vedono l’ora di andarsene”. Ormai nel partito del ministro degli Esteri siamo al ‘rompete le righe’. L’ex delfino senza quid di Silvio Berlusconi perde pezzi ogni giorno: solo ieri se ne sono andati in due, il presidente della commissione Finanze della Camera, Maurizio Bernardo, e il sottosegretario al Lavoro, Massimo Cassano. Il primo è passato nientemeno che col Pd che, ha detto, “rappresenta la vera e l’unica speranza riformista per il nostro Paese”. Cassano, da tempo con un piede fuori da Ap, rientra in Forza Italia, partito al quale aderì nel 1998 diventando vice coordinatore regionale della Puglia.

Ma le trattative per dare vita a quella che Fabrizio Cicchitto ha definito la “bad company” di FI sono ferventi. Ci sta lavorando – come noto – l’ex ministro Enrico Costa, che pescherà innanzitutto a Montecitorio. Scelta non banale: ‘svuotare’ Ap a Palazzo Madama vorrebbe dire mettere in pericolo la stabilità del Governo, scenario indigesto al Cav. Nessuno al momento ha intenzione di scoprirsi, il riserbo è massimo. Ma fra i nomi che circolano con maggiore insistenza ci sono quelli di Dorina Bianchi e Luigi Casero. I due sottosegretari stanno studiando attentamente la situazione. Così come altri due deputati alfaniani, Gianfranco Sammarco e Antonio Marotta. Nell’operazione rientreranno da subito tosiani e Udc. L’ex sindaco di Verona ha mollato le trattative con la triade Verdini-Alfano-Casini per volgere lo sguardo ad Arcore. Tosi ha 3 deputati (Roberto Caon, Emanuele Prataviera e Matteo Bragantini) e altrettanti senatori: la sua compagna, Patrizia Bisinella, Emanuela Munerato e Raffaela Bellot.

Cesa invece ne ‘controlla’ 4: Angelo Cera, Rocco Buttiglione, Giuseppe De Mita e Paola Binetti. Al Senato, pescando il meno possibile da Ap, ci sono addirittura i margini per formare un gruppo. Detto delle 3 tosiane, i centristi possono fare affidamento su 4 senatori (Riccardo Conti, Giuseppe Esposito, Antonio De Poli e Giuseppe Ruvolo); poi c’è Maurizio Sacconi, che ha sposato il progetto di Stefano Parisi. Totale: 8. “In una legislatura che ha fatto segnare il record di transfughi, trovare due senatori è un gioco da ragazzi”, maligna qualcuno. I nomi? Basta guardare tra i verdiniani.

Twitter: @GiorgioVelardi

Abruzzo, parlamentari in movimento. Ecco le strategie per spuntare un seggio

sabato, luglio 22nd, 2017

1424446538_antonio-razzi1Tutto dipenderà dalla legge elettorale, sulla quale vige ancora l’incertezza più assoluta. Ma certo è che, con la legislatura agli sgoccioli, per i parlamentari abruzzesi è partita la corsa per prenotare un posto tra gli scranni di Camera e Senato per il quinquennio 2018/2023. Per alcuni di loro si tratta di una formalità, per altri – al contrario – la strada si preannuncia in salita, visto che c’è da fare i conti con le regole imposte dai partiti e la tagliola dei risultati raccolti in questi anni fra Roma e i contesti locali. Nel Pd, stando a quanto hanno spiegato a Impaginato.it fonti interne al partito, la ricandidatura della senatrice Stefania Pezzopane sarebbe al momento in fortissimo dubbio. La ex presidente della Provincia dell’Aquila, che nel 2013 sbarcò a Palazzo Madama lasciando la poltrona di assessore della giunta Cialente, rischia di pagare a caro prezzo la recente (e bruciante) sconfitta del candidato sindaco del Pd a L’Aquila, Americo Di Benedetto. E poi, anche se potrà sembrare una nota di colore ma non lo è, perché in politica tutto fa brodo, in molti nei corridoi nel Nazareno non gradiscono il modo in cui la Pezzopane gestisce la relazione con l’ex modello Simone Coccia Colaiuta. Gossip e scivoloni, come il selfie scattato dall’aspirante attore l’anno scorso ad Amatrice dopo il terremoto, pubblicato dalla Pezzopane su Facebook e poi rimosso dopo le polemiche, giudicati non più tollerabili a questi livelli.

Restando sempre dalle parti del partito di Matteo Renzi, sembra che anche per Maria Amato Vittoria D’Incecco le porte d’ingresso in lista verranno sbarrate. La prima, raccontano le stesse fonti, è invisa ai vertici regionali del Pd mentre il destino della D’Incecco è legato a doppio filo a quello del governatore Luciano D’Alfonso (di cui la deputata è stata assessore in entrambe le consiliature dell’ex sindaco al comune di Pescara), che l’anno prossimo vorrebbe fare il grande salto passando dalla Regione al Parlamento. Stesso discorso per il consigliere regionale Camillo D’Alessandro, che dieci giorni fa ha annunciato ufficialmente la propria candidatura. Ancora incerto è il destino di Gianluca Fusilli, il deputato subentrato a Giovanni Legnini eletto vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura (Csm) il 30 settembre 2014. Non dovrebbero avere problemi, invece, Antonio Castricone e Tommaso Ginoble. Il primo, ex Ds, rientrerebbe in quota-Emiliano, di cui ha sostenuto la candidatura a segretario alle ultime primarie del Pd; Ginoble, già assessore regionale alla Protezione civile legato all’ex ministro dell’Istruzione Beppe Fioroni, può contare su un non indifferente bacino di preferenze: alle primarie teramane del Partito democratico nel 2012 ne prese 2.759, risultando il più votato. Dovrebbe traslocare dalla Camera, dove siede attualmente, al Senato.

Passiamo a Forza Italia (FI). Al momento, il partito di Silvio Berlusconi conta una pattuglia parlamentare ridottissima: appena un deputato, Fabrizio Di Stefano, e due senatori, Paola Pelino e Antonio Razzi. Per il primo, cresciuto nelle file di Alleanza Nazionale, la ricandidatura pare certa anche perché – spiega un parlamentare di FI a Impaginato.it – “con le preferenze batte tutti”. Come Ginoble, anche Di Stefano potrebbe spostarsi da Montecitorio a Palazzo Madama. Vedremo. Ad oggi, anche la Pelino ha ricevuto rassicurazioni sulla sua ricandidatura, anche se “mai dire mai”, chiariscono sempre da FI. Chi invece quasi certamente resterà fuori è Razzi. Come nel caso della Pezzopane, nel partito parecchi non tollerano più le boutade del senatore con la passione per la Corea del Nord e i selfie col presidente siriano Bashar al-Assad. Fra le new entry ci sarà quasi certamente il coordinatore regionale Nazario Pagano mentre aspira a un seggio pure l’ex presidente della Regione Gianni Chiodi. Ma servono i voti, of course.

Più complicata la situazione degli alfaniani, con l’unica eccezione del deputato teramano Paolo Tancredi. La sottosegretaria alla Giustizia, Federica Chiavaroli, è conscia del fatto che se – nella peggiore delle ipotesi – si dovesse votare coi due Consultellum, la soglia di sbarramento dell’8% in vigore al Senato la condannerebbe a restare fuori dal Parlamento. Quindi, nel riposizionamento in corso tra i seguaci del ministro degli Esteri, la Chiavaroli sta cercando una sponda più sicura alla Camera. Lo stesso discorso vale anche per Filippo Piccone (Alternativa popolare) e Giulio Cesare Sottanelli, oggi componente del gruppo che alla Camera riunisce Scelta Civica e i verdiniani di Ala. Con Articolo 1-Mdp sarà invece ricandidato il deputato pescarese Gianni Melilla mentre per i parlamentari del Movimento 5 Stelle (i deputati Andrea CollettiDaniele Del Grosso e Gianluca Vacca e i senatori Enza Blundo e Gianluca Castaldi) decideranno gli iscritti tramite l’ormai rodato sistema della “parlamentarie”.

Articolo scritto il 20 luglio 2017 per Impaginato.it

Da vajassa a orango: il lungo bestiario dei politici

venerdì, luglio 14th, 2017

00d7d4b8b5c7a4bc5c5766875453ca78-460x270Ne abbiamo viste e sentite di tutti i colori. Spesso indignandoci per la trivialità degli insulti che i politici di casa nostra si scambiano in ogni modo possibile, in ultimo tramite i social network la cui “esplosione” li ha portati ad essere l’oggetto privilegiato e più immediato per farlo. Così il post su Facebook col quale Massimo Corsaro ha insultato Emanuele Fiano del Pd non è che l’ultimo di una lunga serie. Vi ricorderete infatti, tanto per rimanere in questa legislatura, di quanto esclamato da Roberto Calderoli (Lega) a proposito di Cécile Kyenge (Pd). In sostanza a luglio 2013, durante un comizio a Treviglio, il vicepresidente del Senato arrivò a paragonare l’ex ministro dell’Integrazione del Governo Letta nientemeno che a un orango. Istigazione al razzismo? Macché: a febbraio 2015 la Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari di Palazzo Madama ha assolto Calderoli, col paradosso che a difenderlo sono stati pure alcuni senatori del Pd. A proposito di Lega. Sono indubbiamente passati alla storia gli scambi dialettici – tanto per usare un eufemismo – fra Umberto Bossi e Silvio Berlusconi dopo la caduta del primo Governo del Cav. (1994).

Botte da orbi – Se avete rimosso, proviamo a rinfrescarvi la memoria. Nell’ordine, il Senatùr definì il leader di Forza Italia “un ubriaco da bar”, “il grande fascista”, “nazista, nazistoide, paranazistoide”, “un povero pirla” ma, soprattutto, “il mafioso di Arcore”. Dal canto suo, Berlusconi non le mandò certo a dire. Bossi? È un “pataccaro”, un “cadavere politico”, un “ladro di voti”, “un uomo dalla mentalità dissociata”, insomma uno “sfasciacarrozze” col quale “non mi siederò mai più allo stesso tavolo”. Poi come sappiamo è andata diversamente, ma la storia è questa. Altro duello al fulmicotone è quello che a novembre 2010, col Centrodestra al Governo, andò in scena fra Mara Carfagna e Alessandra Mussolini. Quest’ultima, rea di aver rimbrottato l’allora ministra delle Pari opportunità per un colloquio alla Camera fra lei e Italo Bocchino, passato col partito di Gianfranco Fini dopo la scissione interna al Pdl, si sentì dare della “vajassa”. Termine che nel gergo campano è sinonimo di donna di bassa condizione civile, sguaiata e volgare.

Si salvi chi può – “Quello è stato un atto di cattivissimo gusto che non merita commenti ma che si addice alla persona che l’ha commesso”, tuonò la Carfagna al Mattino: “A Napoli le chiamano vajasse. La Mussolini è colei che in campagna elettorale disegnava le corna sui miei manifesti, che ha portato i cannoli alla conferenza stampa con Alfano. In un partito serio una signora del genere sarebbe stata messa a tacere, invece mai nessuno ha avuto il coraggio di bloccarla”. Apriti cielo. Più o meno come quando nel 2011 il leader de La Destra Francesco Storace diede a Fini del “maiale”. Non meno sguaiate sono state certe espressioni usate dal fondatore del M5S, Beppe Grillo, nei confronti degli avversari politici. Bersani? “Gargamella”. Lupi? “La figlia di Fantozzi”. Berlusconi? “Psiconano”. Napolitano? “Salma”. Formigoni? “Forminchioni”. Prodi? “Alzheimer”. E via dicendo. Se questo è l’andazzo, non resta che dire: si salvi chi può.

Twitter: @GiorgioVelardi

Articolo scritto il 13 luglio 2017 per La Notizia

Matteo Renzi o no, questo Partito democratico non cambia

venerdì, luglio 7th, 2017

17027979877_f70256b8ee_bA leggere quanto è accaduto nella direzione del Pd di ieri si capisce perché stavolta Matteo Renzi abbia scelto di mettere da parte lo streaming. Quello andato in scena al Nazareno è stato uno scontro aspro, riassunto perfettamente dalla frase pronunciata dall’ex premier prendendo in prestito Guccini: “Ognuno vada dove vuole andare”.

Un avviso di sfratto bello e buono a chi non la pensa come lui, a cominciare da Orlando e Franceschini che spingono affinché il Pd esca dalla logica isolazionista nella quale l’ex sindaco di Firenze l’ha infilato. Ma questo clima da guerra dei Roses, arroventato dalla sconfitta alle Amministrative, dimostra come in 4 anni Renzi non sia riuscito a cambiare di una virgola un partito dentro al quale, nel 2013, Marianna Madia denunciava di aver visto “ipocrisia” e “opacità” ma anche “un sistema di piccole e mediocri filiere di potere che sono attaccate così al potere stesso da non volerlo cedere di un millimetro”.

Tutti infatti nel Pd vogliono contare più dell’altro, anche a costo di portare la macchina a sbattere (come accaduto ai tempi della mancata elezione di Prodi al Quirinale). “Matteo” è avvisato.

Twitter: @GiorgioVelardi

Vitalizi, solo un bluff il taglio degli assegni

mercoledì, giugno 28th, 2017

Camera-risparmi-e1475146143897Alla fine i nodi sono venuti al pettine: la promessa di tagliare i vitalizi di ex parlamentari e consiglieri regionali altro non era che uno stratagemma per raggranellare voti in vista di possibili elezioni politiche a settembre.

Passata però la frenesia da urne ecco che la proposta di legge Richetti, ammuffita per quasi due anni nei cassetti della commissione Affari costituzionali di Montecitorio e rispuntata fuori a metà Maggio, viaggia a passo di lumaca. Tra rinvii e cavilli tecnici, il rischio che rimanga un’altra delle “grandi incompiute” di questa legislatura è altissimo. Quasi una certezza. Il presidente dell’Inps Tito Boeri, arci-nemico dell’annoso privilegio, ha stimato che un ricalcolo contributivo dei generosi assegni – che qualcuno ha maturato persino senza mai mettere piede in Parlamento – farebbe risparmiare alle casse di Camera e Senato 760 milioni di euro in dieci anni.

Somma che certo non risolverebbe tutti i problemi del Belpaese, ma che aiuterebbe a ridare alla Politica un briciolo della credibilità perduta. Però si sa: cane non mangia cane. Poveri noi a cui hanno lasciato l’osso.

Twitter: @GiorgioVelardi

Ricercatori traditi dal Governo. In migliaia rischiano il posto

giovedì, giugno 22nd, 2017

10 - ricercatoriElisa, Gianluca, Claudia, Maddalena, Raffaella. Alberto, Emanuela, Gilda. Sono solo alcuni dei 3.500 lavoratori nella Ricerca impiegati con contratti precari in 21 IRCCS, acronimo che sta per Istituti di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico. Strutture pubbliche, s’intende, dislocate in tutta Italia: dall’Ospedale Gaslini di Genova all’Istituto per le malattie infettive Lazzaro Spallanzani di Roma, solo per fare due esempi. Ma per loro, che da oltre dieci anni – qualcuno addirittura da diciotto – sono parte integrante della ricerca sanitaria pubblica, il 31 dicembre scatterà la tagliola della scadenza del contratto, col rischio di ritrovarsi senza lavoro. Proprio così. La causa affonda le proprie radici nella recente approvazione del Testo unico sul Pubblico Impiego, uno degli ultimi decreti attuativi della riforma Madia. Che, se da una parte prevede un piano di stabilizzazione dei precari della Pubblica Amministrazione, dall’altra esclude in larga parte quelli della ricerca sanitaria. Figure altamente specializzate alle quali, come previsto dal Jobs Act, non possono più essere applicati i contratti atipici (come i co.co.co.). Una situazione paradossale che costringe gli interessati a navigare a vista.

Corsi e ricorsi – Ieri un centinaio di loro (infermieri, biologi, chimici, statistici, amministrativi) si sono radunati allo Spallanzani di Roma, inscenando un simbolico quanto realistico “funerale” della ricerca sanitaria. Altri sit-in si sono svolti in tutta Italia. “Lottiamo da anni contro virus e batteri”, scherza Alessandro pur senza nascondere la propria amarezza, “e poi rischiamo di essere sconfitti dai contratti atipici…”. Emanuela, bioinformatica, precaria da 7 anni, racconta invece che il contratto più lungo che ha firmato è stato di tre anni, “però una volta ne ho sottoscritto pure uno di 6 mesi”. Il suo curriculum? “Una laurea in biologia, un master in bioinformatica, un dottorato in scienze pasteuriane e una specializzazione in microbiologia e virologia. Tutti parlano della ricerca – attacca –. La verità è che in Italia le competenze sono un deterrente. Se ho famiglia? Sì, sono sposata e ho una bambina di due anni e mezzo. Con i contratti atipici, quando sono entrata nel 2010 non era nemmeno possibile sfruttare il nido aziendale”. Luca invece è allo Spallanzani da 15 anni: è un tecnico di laboratorio biomedico. Ha un co.co.co. per il quale rivela di aver dovuto sostenere un concorso. “Il rischio – spiega – non è solo quello rappresentato dai nostri posti di lavoro, per i quali siamo ovviamente molto preoccupati. Se la Regione dovesse indire nuove procedure concorsuali, alle quali i ricercatori ‘puri’ non potrebbero partecipare, andrebbe in blocco l’intero sistema sanitario perché i laboratori rimarrebbero senza personale. Ve lo immaginate?”.

Quante ombre – Gilda, infermiera, precaria da 14 anni, sintetizza tutto con una metafora: “In Italia la ricerca è come un bell’albero che una volta piantato dà buoni frutti che nessuno raccoglie. Vorremmo semplicemente maggiore stabilità, non è chiedere tanto no?”. Claudia,  41 anni, è un’amministrativa. Lavora in maniera diretta col Comitato etico interno dell’IRCCS, gestisce studi clinici sperimentali e i contratti della divisione. “Sono qui da 8 anni”, racconta, “sempre con un co.co.co.”. Nonostante l’esperienza maturata, “in questi anni mi è addirittura capitato di dovermi decurtare lo stipendio”. Tutto vero. Infine c’è Alberto, biostatistico. “Gestisco il database coi dati clinici”, precisa: “Dati che vengono utilizzati per condurre ricerche che presentiamo in Italia e all’estero. Il nostro è un lavoro bellissimo, ma certi giorni il senso di frustrazione causato dalla condizione di precarietà nella quale ci troviamo è difficile da digerire”. “È un fatto increscioso”, dice testualmente l’avvocato Gabriele Fava, esperto in diritto del lavoro. “Oggi doveva essere il tempo della stabilizzazione per uno dei nostri fiori all’occhiello – prosegue il giuslavorista – e invece queste persone rischiano di non poter più lavorare. Come se ne esce? Con una norma correttiva che modifichi la legge Madia. Ma non sarà facile e creerà più di qualche imbarazzo al Governo”.

Twitter: @GiorgioVelardi

Articolo pubblicato il 21 giugno 2017 su La Notizia