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Genny ‘a carogna siamo noi

lunedì, maggio 5th, 2014

carogna-arsenal-640Quanta retorica del tutto misto a niente stiamo assorbendo, nostro malgrado, dopo i fatti che hanno anticipato, sabato sera a Roma, la finale di Coppa Italia tra Napoli e Fiorentina. Occasione che ci ha permesso di fare la conoscenza di un personaggio, Gennaro De Tommaso detto Genny ‘a carogna, figlio di un affiliato al clan Misso del rione Sanità e capo della curva A del San Paolo, il cui volto e le cui gesta hanno fatto rapidamente il giro del mondo coprendo di ridicolo un Paese la cui reputazione è già ridotta ai minimi termini.

Un tizio finito in poche ore – nel bene e nel male – sulla bocca e nelle orecchie di tutti, immortalato da fotografi e telecamere con indosso una maglietta che inneggiava alla libertà per l’assassino di un poliziotto (l’ispettore capo della Polizia Filippo Raciti, morto durante gli scontri che il 2 febbraio 2007 seguirono il derby siciliano fra Catania e Palermo), condannato a 8 anni di carcere per omicidio preterintenzionale e minorenne all’epoca dei fatti.

I media, manco a dirlo, sono stati “sul pezzo”, tutti intenti a mostrarci fino allo sfinimento quegli attimi a bordo campo, con il capitano dei partenopei, Marek Hamšík, costretto ad andare sotto la curva occupata dai suoi tifosi a parlare con il “portavoce” Gennaro detto Genny chiedendogli il permesso di giocare. Sarebbe bastato l’annuncio dello speaker dello stadio a rassicurare le decine di migliaia di tifosi presenti, dicendo loro che i feriti, seppur in gravi condizioni, non erano morti (come qualcuno artatamente vociferava). Si sarebbe evitato un simile teatrino. Ma forse i dirigenti gallonati presenti a bordo campo, con le loro radioline e gli auricolari ben piantati nell’orecchio, non ci hanno pensato o non ne hanno avuto la forza. Il dubbio resta.

Illustri commentatori hanno detto e scritto che l’Italia, che sta faticosamente cercando (cercando, si badi bene) di uscire dalle sabbie mobili, non merita tutto ciò. Mi permetto di dissentire dicendo che invece ce lo meritiamo eccome. Di più: dentro ognuno di noi c’è un pezzetto di Genny ‘a carogna. Qualcuno si incazzerà. È corretto che lo faccia e che me lo dica anche in modo aspro. Ma reputo da sempre molto più efficace dire ciò che si pensa invece di scadere nel finto buonismo.

La verità è che l’Italia, da tempo immemore, è tenuta sotto scacco delle mafie. È una banalità, me ne rendo conto. Ma, ahinoi, è così. Ci dicono quello che ci vogliono dire, ma da qualche anno ci rendiamo conto da soli dell’esistenza di un sottobosco inesplorato con cui, un po’ ovunque, dobbiamo fare i conti. Ai tempi di Tangentopoli c’erano le mazzette date sottobanco, oggi ci sono gli appalti, le consulenze, i favori camuffati da contratti di sponsorizzazione. Il pizzo che molti nostri commercianti sono costretti a pagare per evitare pesanti ritorsioni. È l’altra faccia della stessa medaglia. Il nostro Paese ha abdicato anni fa alla criminalità organizzata, non certo sabato e non certo su un campo di calcio.

Lo ha fatto portando al governo (dal contesto locale all’ambito nazionale) personaggi legati alla mafia, alla camorra, alla ‘ndrangheta – non credo serva fare nomi – finiti troppo spesso sulle cronache dei giornali ma poi puntualmente ricandidati dai partiti in procinto delle elezioni perché portatori di acqua, o meglio di voti (tanti). Il tutto in nome di un «garantismo» a targhe e giorni alterni: oggi a te, domani a me. Ma cane non mangia cane quindi amici come prima e voltiamo pagina. Lo ha fatto abolendo reati come il falso in bilancio, varando la bellezza di 7 condoni dal 1973 ad oggi, permettendo a chi aveva portato i propri capitali all’estero di usufruire dello scudo fiscale a fronte del pagamento di cifre ridicole e consentendo alle lobby di fare e disfare senza mai varare una legge che ne regolasse l’attività (nel cassetto ci sono 50 proposte rimaste lettera morta. Il motivo? Non è dato sapere). Votare gente così ci rende, in minima parte, come Genny ‘a carogna.

Un Paese non è giusto solo se, ad un certo punto della sua storia, decide di mettere 80 euro in tasca ai suoi cittadini. Serve anche quello, per carità. Ma prima di tutto occorre andare a colpire chi, da decenni, ha permesso che l’evasione toccasse livelli spaventosi, contribuendo a che la pressione fiscale raggiungesse picchi terribili e asfissianti (in primis per quegli imprenditori sani e onesti che, purtroppo a migliaia, sono stati costretti a tirare giù la saracinesca dopo lo scoppio della crisi). Attenzione: non parlo solo dei malavitosi in senso stretto. Giorni fa un mio amico mi raccontava di un dentista che a suo padre, per un intervento ai denti, ha chiesto 6mila euro tutti rigorosamente in nero. Queste persone andrebbero denunciate alle autorità perché sono un tumore da curare in fretta. E non con l’aspirina, come si è fatto in questi anni, o annunciando vacui «giri di vite». Ma con misure pesanti. Come in America, paese a cui spesso – in maniera ridicola – vogliamo paragonarci.

Tornando a bomba sulla questione degli ultras, potremmo semplificare dicendo che era tutto scritto. Checché ne dica qualche nostro politicante dai capelli grigi e ormai prossimo alla pensione, da tempo i nostri servizi di intelligence hanno acceso un faro sulla galassia della protesta. Facce note, personaggi più volte soggetti a Daspo che continuano a stazionare nelle curve di mezza Italia sono però il simbolo di un corto circuito del buonsenso difficile da riparare. All’ingresso di uno stadio è meglio togliere il tappo dalla bottiglietta d’acqua di un bambino che sequestrare bombe carta e petardi alle frange violente del tifo. Obnubilati dalle boutade, dalle tette e dai culi ci siano ridotti così: ai piedi di Genny ‘a carogna. Che, a pensarci bene, non ha dato l’assenso alla pubblicazione di questo post. Avrei mica dovuto chiederglielo?