Sono 85 i cronisti uccisi in Messico dal 2000 ad oggi. Più di 45 solo negli ultimi sei anni, da quando al potere c’è Felipe Calderón. I narcos e la criminalità organizzata sono le cause principali degli omicidi. Ma spesso dietro questi casi c’è il benestare di politici collusi con la malavita
L’hanno trovata morta nella sua abitazione a Xalapa, nello stato orientale di Veracruz, 300 chilometri dalla capitale Città del Messico. Il suo corpo è stato rinvenuto in bagno, con chiari segni di percosse e di strangolamento. Regina Martinez era una giornalista. Una cronista coraggiosa. Che non si è arresa – malgrado la spietata “caccia ai reporter” che si è scatenata in Messico negli ultimi due lustri – e che ha perso la vita in «circostanze ancora da chiarire». Il movente appare però nitido. Gli ultimi articoli che Regina (corrispondente della rivista Proceso, settimanale indipendente fondato nel 1976) aveva scritto riguardavano due esponenti politici del Partido Revolucionario Institucional candidati alla Camera dei deputati, e i rapporti fra la polizia e i narcotrafficanti. Una vicenda che si intreccia con quella di 84 suoi colleghi, uccisi dal 2000 ad oggi. Più di 45 solo dal 2006, anno in cui il cristiano-conservatore Felipe Calderón ha preso il potere. Vite spezzate dalla criminalità organizzata e da una politica con essa collusa, tanto che secondo un rapporto della Press Emblem Campaign il Messico è (insieme al Pakistan) il Paese in cui è più difficile operare la professione.
OLTRE IL SILENZIO – Yolanda Ordaz de la Cruz, Miguel Ángel Lòpez Velasco, Noel Lòpez Olguìn, Raùl Régulo Garza Quirino. Potremmo continuare, la lista è – purtroppo – lunga. Tutti i nomi che avete appena letto sono di giornalisti uccisi negli ultimi anni. Yolanda Ordaz era una cronista del quotidiano Notiver, trovata senza vita a Veracruz (stesso stato in cui viveva Regina Martinez). Uccisa nel luglio 2011 mentre stava indagando sull’assassinio del vicedirettore della sua testata, di sua moglie e di suo figlio. Anche Miguel Ángel Lòpez Velasco è stato assassinato insieme alla sua famiglia. Aveva 55 anni e anche lui scriveva per Notiver. Era redattore per La Verdad de Jàltipan Noel Lòpez Olguìn, ammazzato dopo una prigionia durata oltre due mesi. Raùl Régulo Garza Quirino, collaboratore del settimanale La Ùltima Palabra, è stato invece freddato a gennaio da un gruppo di uomini armati mentre era a bordo della sua auto. Ma a fare clamore sono stati anche i casi di Hugo Cesar Muruato (giornalista radiofonico di Chihuahua, dov’è concentrato il 30 per cento dei 41mila omicidi dovuti alla guerra fra Stato e narcos degli ultimi anni); di Marìa Elizabeth Macìas, caporedattrice di Colonia Madero, decapitata; di Marcela Yarce e Rocio Gonzalez Trapaga, amiche e colleghe, i cui corpi sono stati sono stati ritrovati nel parco Iztapalapa, in un quartiere di Città del Messico. Era settembre 2011. Malgrado l’esistenza di una procura speciale per indagare sui crimini della libertà di espressione (la Fiscalía Especial), nessuno di questi casi è mai stato risolto. Il 6 marzo scorso il Senato messicano ha approvato un emendamento costituzionale che considera l’omicidio di un giornalista un crimine contro la libertà di espressione. Un provvedimento necessario, arrivato però con grave ritardo.
LADY CORAGGIO – C’è però chi non si arrende, e continua a combattere oltre ogni intimidazione, minaccia e sopruso. La storia di Lydia Cacho è l’emblema di chi il bavaglio non vuole metterlo. Di chi non intende autocensurarsi. Di chi, a rischio della propria vita, racconta lo sporco nascosto nelle pieghe della società. Lydia è giornalista, scrittrice ed attivista per i diritti delle donne e dei bambini. Nel 2003 scrive alcuni articoli per il quotidiano Por Esto!, in cui denuncia i presunti abusi sessuali nei confronti di minori nella città di Cancún. Due anni dopo esce il suo primo libro, Los Demonios del Éden (“I demoni dell’Eden”), in cui svela un ecosistema di prostituzione e pedopornografia che ha il benestare di politici e uomini d’affari, e in cui viene accusato in maniera esplicita il famoso proprietario di alberghi Jean Succar Kuri. Sono coinvolti – secondo quanto racconta lei nel volume – anche altri personaggi di spicco della società messicana. Uno di questi, Kamel Nacif Borge, la cita per diffamazione. Lydia viene arrestata illegalmente, malmenata, minacciata a poi rilasciata su cauzione. Una sospensione della libertà voluta, come riveleranno le intercettazioni telefoniche rese pubbliche pochi mesi più tardi, dal Governatore dello stato di Puebla Mario Marìn Torres e dallo stesso Borge. Nel 2007 la Corte Suprema del Messico ammette che la decisione di arrestare Lydia Cacho era priva di fondamento, e la Commissione nazionale Onu per i diritti umani la invita a lasciare il Paese per salvaguardare la propria incolumità. Lei non abbandona il Messico, anzi. Nel 2010 esce in tutte le librerie la sua opera seconda, Las esclavas del poder (“Le schiave del potere”), un’inchiesta sulla tratta di giovani donne. Le minacce non finiscono, ma lei assicura che malgrado qualcuno «voglia mettere a tacere il mio lavoro, questo non succederà».
«SISTEMA CORROTTO» – «La violenza contro i giornalisti in Messico è un problema ancestrale. La situazione è peggiorata quando è iniziato il confronto con il narcotraffico, che coinvolge persone che appartengono a governo, polizia ed esercito. Dal 2000, con l’avvento al potere del Pan (Partito d’Azione Nazionale, ndr), la condizione dei cronisti è migliorata perché si possono trattare temi che in precedenza erano tabù. L’altra faccia della medaglia è però il fatto che molti colleghi sono finiti nel mirino della criminalità e sono morti». Lo dice a Il Punto un giornalista messicano, di cui preferiamo non rivelare il nome. «Dal 2009 ad oggi – prosegue – hanno perso la vita 30 reporter, altri 4 sono spariti e ci sono stati 26 attacchi contro le sedi dei mezzi di informazione. Il grosso problema è che nessuno di questi casi è stato risolto. Ora è in corso la discussione di una legge che permette alle autorità di investigare sulla morte dei giornalisti, ma dopo anni di omicidi sembra essere una presa in giro». Il punto nevralgico della questione è un altro: «In Messico il sistema giudiziario è torbido, la corruzione esistente impedisce che le cose migliorino. In questo ambito – con alcune eccezioni – gli stipendi sono molto bassi. Con i loro soldi i narcos possono comprare qualsiasi cosa e qualsiasi persona. Per fortuna ci sono molti colleghi, oltre a Lydia Cacho, che malgrado tutto continuano a fare il loro lavoro con dedizione». Con Calderón la situazione non è migliorata: «Lui pensava di risolvere la situazione con l’esercito, invece si è scatenata una guerra. I narcos sono armati fino ai denti, sono già morte decine di migliaia di persone. Mi piacerebbe che si dicesse più spesso che le armi di cui dispongono i narcotrafficanti arrivano dagli Stati Uniti, con cui ci sono collegamenti importantissimi che gli permettono di attraversare la frontiera con la droga ed avere informazioni riservate». Il primo luglio ci sono le elezioni: «Se tornasse al potere il Pri (Partito Rivoluzionario Industriale, ndr) potrebbe essere raggiunto un accordo con i narcos per evitare che questi ultimi usino ancora la violenza. Con il Pan e con la sinistra una cosa simile non potrebbe accadere. Anche con un patto del genere non è detto che la situazione per la stampa migliori».
PROBLEMA GLOBALE – Quello di giornalisti uccisi e minacciati dalla criminalità e dal “potere” non è però un problema che indossa solo la bandiera tricolore del Messico. Secondo la già citata Press Emblem Campaign, nei primi tre mesi del 2012 sono 31 i cronisti che hanno perso la vita in altre aree del mondo. Una cifra che è raddoppiata rispetto allo stesso periodo del 2011. Solo in Siria – dove proseguono le rivolte contro il regime di Bashar al-Assad – sono caduti 9 reporter, 5 stranieri e 4 delle testate nazionali. Fra i primi anche l’americana Marie Colvin e il francese Rem Ochlick, morti alla fine di febbraio durante un bombardamento nella città di Homs. Il presidente della Ong con sede a Ginevra, Blaise Lampen, ha sottolineato come «il pesante tributo pagato in Siria colloca il Paese in prima linea tra i luoghi più pericolosi per i giornalisti». Ma sulla black list degli Stati a rischio ci sono anche Somalia (3 morti), India (2), Bolivia (2), Nigeria (2), Afghanistan, Filippine, Thailandia, Haiti, Honduras, Colombia e Brasile. Lo scorso anno sono morti 106 giornalisti. Solo un terzo a causa di incidenti. Numeri, storie e persone che volevano solo fare il mestiere più bello del mondo.
Twitter: @GiorgioVelardi