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Dalle riforme ai giochi di Palazzo, Napolitano non molla mai

domenica, ottobre 9th, 2016

800px-Giorgio_NapolitanoIl grande burattinaio, l’arbitro non imparziale, un monarca. Su Giorgio Napolitano, in questi anni, si è detto praticamente di tutto. Spesso a ragione. Di primati, nella sua carriera, “Re Giorgio” ne ha collezionati parecchi. Primo dirigente del Pci a ottenere il visto di ingresso negli Stati Uniti, primo ministro degli Interni post-comunista e, soprattutto, primo capo dello Stato rieletto per un secondo (seppur breve) mandato. Da dieci anni a questa parte, Napolitano muove abilmente i fili della politica italiana. Quando sedeva al Quirinale viaggiava ai limiti dei vincoli costituzionali, per non dire che li travalicava. Ma anche adesso che al suo posto c’è Sergio Mattarella, come noto, continua a entrare a gamba tesa praticamente su qualsiasi cosa. Nella storia dell’Italia repubblicana non si ha memoria di tanto attivismo per un presidente emerito. Sarà perché i temi al centro del dibattito odierno, la riforma costituzionale e l’Italicum, sono anche un po’ “figli suoi”; sarà perché in questa partita “Re Giorgio” si gioca un pezzo di credibilità. Ma le uscite sono ripetute e irritano parecchi. Non solo le opposizioni, per intenderci.

LA GIRAVOLTA - Prendete la legge elettorale. Il 14 aprile 2015 l’ex capo dello Stato la benedì, invitando le Camere a “non disfare quello che è stato faticosamente costruito”. Poi, a inizio settembre, la giravolta. L’Italicum “va cambiato perché nell’attuale sistema tripolare rischia mandare al ballottaggio e di far vincere chi al primo turno ha ricevuto una base troppo scarsa di legittimazione col voto popolare”. Sarà. Per non parlare delle sferzate rivolte nei giorni scorsi al premier, Matteo Renzi, “colpevole” di aver trasformato il referendum in un plebiscito su se stesso. Non è un caso del resto che nei nove anni della sua presidenza, a Palazzo Chigi si siano alternati ben cinque presidenti del Consiglio. Spesso defenestrati dall’oggi al domani e in circostanze tutte da chiarire. Tanto per dirne una: nel 2008, quando il secondo governo di Romano Prodi cadde dopo appena due anni, l’allora portavoce del professore, Silvio Sircana, raccontò: “Sono state le dimissioni più veloci della storia, siamo arrivati al Quirinale e le formalità erano già tutte pronte”. Diversamente è andata nel 2011. Quando, dopo le dimissioni di Silvio Berlusconi, “Re Giorgio” conferì l’incarico a Mario Monti, con buona pace del segretario del Pd Pier Luigi Bersani che auspicava un ritorno alle urne.     

OMBRE DAL PASSATO - Il protagonismo di Napolitano non è comunque una novità. L’uomo è fatto così, lo dimostra la sua storia politica. Che si parli di Prima o Seconda Repubblica, lui è rimasto sempre lì, al centro della scena. Tessitore di trame oscure, sopravvissuto indenne a qualsiasi terremoto politico. Esponente dell’ala “migliorista” del partito, la corrente ispirata ai principi del socialismo europeo, con Enrico Berlinguer segretario Napolitano fu il leader dei riformisti del Pci, che già prima dello strappo con Mosca del 1980 avevano scelto la socialdemocrazia battendosi per il dialogo con i socialisti di Bettino Craxi. Il rapporto fra i due fu lungo e intenso. Tanto che ad un certo punto Napolitano si ritrovò in rotta di collisione con linea di Berlinguer. “Negli ultimi anni di vita di Enrico”, ha ricordato due anni fa l’ultimo segretario del Pci, Achille Occhetto, “collaboravo strettamente con lui e ho potuto vedere l’isolamento in cui era nel gruppo dirigente, anzitutto sulla questione morale. Ricordo che Napolitano la criticò scrivendo che quell’impostazione ci avrebbe isolato dalle altre forze politiche”. Però si sa: in politica nulla è per sempre. E così nel 1994, dopo l’inizio di “Tangentopoli” che per i “miglioristi” fu un incubo (molti dirigenti furono arrestati e processati per tangenti), arrivò Berlusconi. Il resto è storia.

(Articolo scritto l’8 ottobre 2016 per La Notizia)

Lobby, gli scandali non smuovono il governo. In 40 anni 58 proposte di legge. Mai approvate

martedì, aprile 26th, 2016

Norma attesa dal 1976, nonostante le polemiche e gli annunci. Per non parlare degli scandali. Come “Tempa Rossa”. Il ddl che dovrebbe regolamentare l’attività dei portatori di interessi è bloccato al Senato. Malgrado gli annunci e le promesse di illustri esponenti del governo. A cominciare dai ministri Boschi e Orlando. “Non presenteremo un nostro provvedimento”, assicura il sottosegretario alle Riforme Pizzetti. Che annuncia l’utilizzo da parte dell’esecutivo del testo degli ex M5s Orellana e Battista

senato-675Tutti la vogliono. Almeno a parole. A cominciare dal ministro per le Riforme costituzionali Maria Elena Boschi  (“Serve arrivare ad avere un provvedimento del genere”) e dal Guardasigilli Andrea Orlando (“È uno strumento contro la corruzione”). Per non parlare del governatore della Puglia, Michele Emiliano, che ne ha ribadito la necessità un minuto dopo aver appreso della sconfitta al referendum sulle trivelle. Ma poi, nei fatti, siamo sempre fermi al punto di partenza. E così nonostante i ripetuti scandali, ultimo in ordine di tempo quello che ha coinvolto l’ormai ex ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi e il compagno Gianluca Gemelli, in Italia la legge sulle lobby resta un vero e proprio miraggio. Nonostante la commissione Affari costituzionali di Palazzo Madama, più di un anno fa, abbia scelto e adottato come testo base tra i 18 depositati il disegno di legge presentato dai senatori ex Movimento 5 Stelle Lorenzo Battista e Luis Alberto Orellana. Ddl poi ripresentato a Montecitorio dalla deputata di Scelta civica Adriana Galgano. Ma senza successo. Risultati, infatti, zero. Con tanti saluti alla sbandierata trasparenza.

TESTO A TESTO – Ma cosa intende fare a questo punto il governo di Matteo Renzi? Nei giorni scorsi erano trapelate indiscrezioni relative alla possibilità, da parte dello stesso esecutivo, di elaborare un nuovo testo che bypassasse quello del duo Orellana-Battista. Ipotesi adesso smentita dal sottosegretario alle Riforme Luciano Pizzetti (Pd). “La nostra intenzione è quella di ripartire proprio dal ddl dei due senatori ex M5S – spiega contattato da ilfattoquotidiano.it –. Valuteremo se presentare degli emendamenti, ma non disporremo un nuovo testo. Il termine per la presentazione dei testi di modifica è stato posticipato a mercoledì 27 aprile dopodiché, una volta terminata la discussione dei provvedimenti in calendario, primo fra tutti quello sul conflitto di interessi, verrà avviato l’esame del testo”, conclude. Staremo a vedere. La cosa certa, al momento, è che la questione si trascina ormai da troppo tempo. “Il prossimo 15 giugno festeggeremo il quarantesimo anniversario della presentazione del primo disegno di legge sulle lobby: dal 1976 ad oggi ne sono stati depositati cinquantotto, tutti rimasti lettera morta”, dice Pier Luigi Petrillo, docente di Teoria e tecniche del lobbying all’Università Luiss di Roma e uno dei massimi esperti della materia. “Il perché di questo ritardo? Alla politica conviene avere un paravento dietro il quale nascondersi per non assumersi la responsabilità delle proprie decisioni – risponde –. In termini di comunicazione è molto più efficace scaricare sulle lobby colpe che invece sono tutte ascrivibili alla classe politica, che da sempre agisce assecondando interessi di parte spesso sgraditi al proprio elettorato”.

LOBBISTI AL TRAGUARDO – Con un ulteriore paradosso. Rappresentato dal fatto che sono le stesse società che fanno lobbying ‘alla luce del sole’ (da Open Gate a Utopia Lab, da Comin&Partners a Reti e Il Chiostro) a chiedere l’intervento del governo per regolamentare il settore. Addirittura con decretazione d’urgenza. Senza dimenticare la campagna #occhiaperti lanciata dalla comunità digitale Riparte il futuro, uno dei principali soggetti animatori di Foia4Italy. “La verità – aggiunge Petrillo – è che già domani mattina lo stesso Renzi potrebbe dare il buon esempio: basterebbe un decreto a sua firma per obbligare tutti i ministri a rendere pubblici gli incontri con i portatori di interessi. In questo modo, come in tutte le moderne democrazie, i cittadini potrebbero monitorare l’attivitàdei propri governanti”. Finora l’unico esponente del governo che mette online i suoi appuntamenti è il viceministro dei Trasporti Riccardo Nencini, che ha proposto l’adozione di un codice di autoregolamentazione valido per tutti i decisori pubblici (leggere l’articolo di Peter Gomez). “Ma quello del segretario del Psi è un caso isolato – ricorda il docente –. E gli altri? Mi auguro che il Parlamento abbia tempo e modo di chiudere al più presto la partita. È positiva la decisione del governo di non ripartire daccapo, però bisogna fare in modo che questa volta si arrivi al traguardo. Altrimenti si tratterà solo dell’ennesima occasione sprecata”.

INTERESSI ALLE STELLE – Altro problema aperto. E di quelli scandalosi. Che in parte spiega le resistenze di Camera e Senato a discutere e approvare una legge sulle lobby. “Molti ex parlamentari svolgono attività di lobbying in modo irregolare– rivela Petrillo –. Anche in questo caso, il legislatore dovrebbe intervenire per vietare ogni attività di intermediazione fra gli ex deputati e senatori e gli attuali eletti. Un aspetto che però nessuno dei diciotto disegni di legge depositati nell’attuale legislatura a Palazzo Madama ha tenuto in considerazione”, conclude il docente della Luiss. Nel frattempo, in attesa di una norma che regoli definitivamente l’attività dei portatori di interesse, bisognerà accontentarsi del nuovo codice etico previsto per i deputati e curato dal presidente del Gruppo Misto, Pino Pisicchio. Una prima parte (riguardante fra le altre cose il conflitto di interessi) è già stata approvata. La seconda, dal titolo emblematico – “Ipotesi di regolamentazione dell’attività di lobbying da parte della Camera dei deputati” – dovrebbe essere ratificata entro il prossimo 26 aprile. L’attuale impostazione non piace però al Movimento 5 Stelle (che sta mettendo a punto una sua proposta di legge sulle lobby). “Abbiamo presentato degli emendamenti affinché gli incontri fra lobbisti e deputati vengano certificati anche fuori dal Palazzo – dice il deputato Danilo Toninelli –. Prevedendo sanzioni sia nei confronti dei lobbisti, che arrivano fino alla cancellazione dall’apposito registro, sia degli eletti, con pene pecuniarie e sospensione dai lavori dell’Aula”. Ma Pisicchio ha bocciato questa ipotesi: “In giunta abbiamo convenuto di approvare il regolamento delle lobby senza modifiche, per farlo entrare subito in vigore come è avvenuto per il codice etico”.

Twitter: @GiorgioVelardi

(Articolo scritto il 21 aprile 2016 per ilfattoquotidiano.it)

Trivelle, Wwf: “Oltre 40 piattaforme mai sottoposte a valutazione di impatto ambientale, intervenga il ministero”

giovedì, aprile 14th, 2016

È quanto scritto dall’associazione ambientalista in un instant book recapitato nei giorni scorsi ai deputati. In previsione del referendum di domenica 17 aprile. Secondo l’organizzazione, il 47,7% delle strutture non sono mai state controllate. Ventisei di queste sono di proprietà dell’Eni. E così Mario Catania (Scelta civica) e il leader di Possibile, Giuseppe Civati, hanno indirizzato un’interrogazione a Gian Luca Galletti

trivelle-675Non c’è solo l’appello del presidente della Corte Costituzionale, Paolo Grossi, a turbare i sogni del premier, Matteo Renzi, in vista del referendum sulle trivelle di domenica prossima. A Montecitorio, sulle scrivanie dei deputati, nei giorni scorsi è infatti arrivata l’anticipazione di un instant book dal titolo emblematico, Trivelle insostenibilirealizzato dal WWF, l’organizzazione internazionale di protezione ambientale con sede in Svizzera. La cui costola italiana ha provato a dare risposta ad una domanda: qual è la situazione delle piattaforme offshore situate nella fascia di interdizione delle 12 miglia?

Analizzando i dati forniti online dall’Ufficio nazionale minerario per gli idrocarburi e le georisorse (Unmig) del ministero dello Sviluppo economico – lo stesso rimasto da pochi giorni senza un titolare dopo le dimissioni di Federica Guidi a causa dell’emendamento “Tempa Rossa” – e mettendoli a confronto con le norme relative alle valutazioni ambientali e alla sicurezza, il WWF è arrivato ad una conclusione che non può far certo dormire sonni tranquilli. E che, al tempo stesso, rappresenta un assist per gli stessi promotori del referendum del 17 aprile. Cioè: 42 delle 88 piattaforme localizzate entro la fascia offlimits delle 12 miglia, alle quali il governo vorrebbe prorogare la concessione, non sono mai state sottoposte a valutazione di impatto ambientale (Via). Si tratta del 47,7% del totale. Il motivo? Nel nostro Paese la Via è diventata operativa solo trent’anni fa (1986), proprio grazie alla legge che ha istituito il ministero dell’Ambiente. Mentre le 42 piattaforme in questione sono state costruite negli anni precedenti. Insomma: fatta la legge, trovato l’intoppo.

Ma a chi appartengono le piattaforme “incriminate”? Ventisei sono di Eni Eni Mediterranea Idrocarburi (che opera nel settore di esplorazione e produzione di idrocarburi in Sicilia), 9 di Edison e 5 di Adriatica Gas. Di queste, 5 sono piattaforme che estraggono petrolio. Ma c’è anche un altro aspetto che il WWF ha messo sotto la lente di ingrandimento: quello relativo all’età media delle piattaforme localizzate nella stessa fascia. Il 48% di queste, fa sapere l’organizzazione ambientalista, ha oltre 40 anni. E, come detto, non è mai stata sottoposta a Via. Di più: ci sono 8 piattaforme (tutte di proprietà di Eni) che secondo la classificazione dell’Unmig sono ‘non operative’ e che “sarebbe bene smantellare perché costituiscono comunque un impianto obsolescente inattivo, con evidenti rischi per la navigazione oltre ad avere, se vicino alla costa, un impatto paesaggistico immotivato”. A fronte di tutto ciò, il WWF ha chiesto un intervento diretto del ministero dell’Ambiente, che “dovrebbe ‘battere un colpo’ anche perché non risulta che abbia detto nulla a suo tempo nemmeno sulla soppressione, voluta dal governo e accolta dal Parlamento, del Piano delle Aree (previsto dallo Sblocca Italia e modificato dalle legge di stabilità 2016, ndr) per le attività di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi che avrebbe dovuto essere sottoposto a valutazione di impatto ambientale”.

Rilievi, quelli effettuati del WWF, che si spostano ora in Parlamento. Con un’interrogazione firmata dall’ex ministro dell’Agricoltura del governo Monti, Mario Catania (Scelta civica), e dal leader di Possibile, Giuseppe Civati. I quali, fra le altre cose, hanno chiesto al ministro dell’Ambiente, Gian Luca Galletti (Udc), se “non voglia compiere tutti i passi necessari affinché le piattaforme realizzate prima del 1986 vengano comunque sottoposte alla valutazione di impatto ambientale”. Ma anche se “non voglia intervenire sul ministero dello Sviluppo economico per chiedere che le 8 piattaforme offshore Eni classificate come ‘non operative’ vengano smantellate dall’azienda responsabile”. È “la trivella di Pandora”, dice Civati a ilfattoquotidiano.it. “Ogni aspetto che riguarda il petrolio in questo Paese, dalle concessioni alle royalties, sta aprendo gli occhi a molti cittadini sull’inerzia di questo governo nell’affrontare le questioni – aggiunge –. Il 17 aprile confidiamo in un ‘sì’ per estendere la campagna a tutto ciò che è connesso: è il momento di cambiare, verso il futuro, non abbracciati ai fossili”.

Sulla stessa lunghezza d’onda anche Catania. “Bisogna verificare l’assoluta sicurezza di queste piattaforme”, spiega l’ex ministro. “Non possiamo accettare nemmeno la più remota possibilità di incidente nel nostro mare, i danni sarebbero incalcolabili – aggiunge –. Sono inoltre convinto che debba finire la pratica di prorogare concessioni in scadenza, correndo anche il rischio di rendere perenne la presenza delle trivelle anche per giacimenti in esaurimento”.

(Articolo scritto il 12 aprile 2016 per ilfattoquotidiano.it)

Privilegi, regalo di Pasqua in vista per gli alti burocrati parlamentari: “Dal Pd 3,5 milioni per le indennità di funzione”

domenica, marzo 20th, 2016

La denuncia del segretario dell’Ufficio di presidenza di Montecitorio, Riccardo Fraccaro (M5S). Che punta il dito contro la bozza di deliberazione che ripristina il ricco bonus per i dirigenti. E accusa il partito del premier: “Vuole cambiare verso alzando gli stipendi dei funzionari di Camera e Senato”

fraccaro_675Ci risiamo. A tre mesi dalla proroga del blocco delle indennità di funzione spettanti agli alti dirigenti della Camera, riesplode la polemica. A scatenarla è l’ennesima denuncia di Riccardo Fraccaro, deputato del Movimento 5 Stelle (M5S) e segretario dell’Ufficio di presidenza di Montecitorio. Che carica a testa bassa contro il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, e il Partito democratico (Pd). L’ex sindaco di Firenze “vuole cambiare verso alzando gli stipendi dei funzionari del Parlamento e blindando questo aumento, che verrà agganciato alla disciplina costituzionale”, denuncia Fraccaro. Che mette sotto accusa “la bozza di deliberazione in tema di indennità e meccanismo di adeguamento retributivo messa a punto dai presidenti dem dei Comitati per gli affari del personale di Montecitorio e Palazzo Madama, Marina Sereni e Valeria Fedeli”, la cui approvazione riporterebbe, secondo l’esponente grillino, le indennità di funzione ai livelli del 2012. Per fare un esempio, quella del segretario generale della Camera dei deputati, che per effetto della sforbiciata del 2013 è stata ridotta a 662 euro al mese, tornerebbe a raggiungere i 2.200 euro

SI CAMBIA VERSO – “Il Pd – aggiunge Fraccaro – ha intenzione di reintrodurre le indennità di funzione del personale, per un costo complessivo di 3 milioni e mezzo di euro, legandole alle riforme”. Riferimento al ruolo unico dei dipendenti di Camera e Senato previsto nel nuovo articolo 40della Costituzione, come modificato dal ddl di riforma che porta il nome della ministra Maria Elena Boschi, al quale lo schema di deliberazione messo alla sbarra del M5s è collegato. Insomma, “invece di tagliare i costi della politica” il partito del segretario-premier “vuole alimentare sprechi e privilegi”, attacca il parlamentare grillino. Ma cos’è l’indennità di funzione? Si tratta, in sostanza, di una somma aggiuntiva in busta paga, spettante ai quadri direttivi, che “dovrebbe essere corrisposta solo a fronte di incarichi di particolare complessità”. Ma che invece, insorge Fraccaro, “con la proposta del partito di Renzi verrà elargita a pioggia calpestando la meritocrazia e favorendo le posizioni di vantaggio maturate sul piano dell’affiliazione politica”. Il tutto “gonfiando gli stipendi già dorati percepiti dai super-burocrati”.

STOP & GO – L’ultimo atto della querelle sulle indennità di funzione era andato in scena lo scorso dicembre. Quando il Comitato affari del personale della Camera, guidato appunto dalla vice presidente in quota Pd Marina Sereni, aveva deciso di prorogarne il blocco mantenendole ferme sui livelli più bassi raggiunti con la sforbiciata del 2013. Un provvedimento che era stato preceduto da roventi polemiche dopo che il M5S aveva denunciato il tentativo di ripristinare il ricco bonus ai livelli del 2012 nelle già pesanti buste paga dei burocrati della Camera. Denuncia alla quale era seguito un radicale cambio di rotta, che ha impedito ai discussi incentivi di sommarsi agli stipendi di dirigenti e funzionari a partire dal 1° gennaio 2016. E motivato con la necessità di arrivare in tempi brevi, spiegarono dal Comitato, “alla definizione del ruolo unico dei dipendenti di Camera e Senato” e “alla armonizzazione del relativo stato giuridico ed economico”.

PIATTO RICCO – Ma di che cifre stiamo parlando? Alla Camera dei deputati il segretario generale, cui spetta uno stipendio annuo superiore ai 300 mila euro, incassava fino al 31 dicembre 2012 altri 2.200 euro netti al mese contro i 662 attualmente percepiti per effetto del taglio del 2013. Ai vice segretari e al capo avvocatura, invece, spettavano 1.450 euro poi ridotti a 652. Il consigliere capo servizio e il consigliere capo della segreteria del presidente percepivano 1.197 euro rispetto agli attuali 598. Il consigliere capo ufficio della segreteria generale si era visto praticamente dimezzare l’indennità di funzione da 882 a 485 euro. Quella del consigliere capo ufficio o titolare di incarico di coordinamento equiparato era scesa da 630 a 378 euro mensili. E anche il coordinatore di unità operativa di V livello ed equiparati avevano subito una decurtazione: da 441 a 286 euro. Per armonizzare il trattamento economico tra Palazzo Madama e Montecitorio, la bozza di deliberazione prevede, all’articolo 1, che l’ammontare delle indennità di funzione per il personale iscritto nel ruolo unico dei dipendenti del Parlamento è fissato sul “valore più basso” tra quelli stabiliti al Senato e alla Camera alla data del 31 dicembre 2012. Ma non basta. Sul tavolo c’è anche un emendamento delle organizzazioni sindacali interne che prevede di calcolare le indennità di funzione “sulla base della media dei valori” stabiliti per i due rami del Parlamento sempre al 31 dicembre 2012. Se passasse, gli importi percepiti dagli alti burocrati sarebbero addirittura maggiori.

SORPRESA PASQUALE – Una modifica della disciplina vigente che farebbe la felicità, secondo Fraccaro, di un esercito di burocrati: “Come ad esempio i 123 dipendenti di IV livello su 265 e i 138 funzionari di V livello su 151”. Un rischio che per il segretario dell’Ufficio di presidenza va scongiurato “fissando dei tetti perenni alle retribuzioni ed eliminando le varie indennità dei funzionari”. Per evitare che, dopo la delusione per il regalo di Natale sfumato, la bella sorpresa possa arrivare, stavolta, nell’uovo di Pasqua.

(Articolo scritto il 19 marzo 2016 con Antonio Pitoni per ilfattoquotidiano.it)

Scelta civica, dopo il rimpasto due parlamentari se ne vanno: “Troppo appiattiti sulle posizioni di Renzi”

venerdì, febbraio 5th, 2016

Il partito guidato da Enrico Zanetti perde altri due pezzi. Si tratta della ex 5 Stelle Paola Pinna e di Stefano Quintarelli. Ora può contare su 21 eletti a Montecitorio. Messa in discussione la linea del segretario e le scelte fatte nel riassetto dell’esecutivo. Alcuni partecipanti alla riunione di ieri parlano di clima “a dir poco burrascoso”. Ora l’obiettivo è evitare nuove fuoriuscite

zanetti-675Non è stata una resa dei conti a tutti gli effetti, anche a causa della mancanza di una linea politica alternativa a quella attuale. Ma il malumore è tangibile, come ammette più di qualcuno. Paventando il rischio di nuove fuoriuscite da un gruppo che ad oggi conta appena 23 deputati. All’interno di Scelta civica, il partito fondato alla vigilia delle elezioni politiche del 2013 dall’allora presidente del Consiglio, Mario Monti, la situazione è tesa. Lo si è capito una volta di più ieri sera nel corso della riunione dei deputati a Montecitorio. Un incontro che uno dei partecipanti, parlando con ilfattoquotidiano.it, non esita a definire “a dir poco burrascoso”. Ma c’è anche chi, forse per non voler gettare altra benzina sul fuoco, parla di “normale dialettica fra colleghi”. Sarà. Sta di fatto che nelle ultime ore sia Paola Pinna, arrivata il 25 marzo 2015 dal Movimento 5 Stelle, sia Stefano Quintarelli hanno annunciato il loro addio. La prima si accaserà nel Pd (“è la naturale conclusione di un percorso politico lineare”, ha affermato) mentre Quintarelli confluirà nel Gruppo Misto. L’obiettivo dichiarato, adesso, è quello di bloccare altri possibili transfughi.

RIMPASTO INDIGESTO – Ma qual è il motivo dei mal di pancia interni a Scelta civica? I ben informati rispondono che il giro di poltrone operato la scorsa settimana dal premier Matteo Renzi sia risultato indigesto a una parte del gruppo. Che pensava – e sperava – di uscire dalla partita con un risultato più largo. Invece, oltre alla promozione del segretario, Enrico Zanetti (diventato viceministro dell’Economia), c’è stata ‘solo’ la nomina di Antimo Cesaro a sottosegretario alla Cultura. Un po’ poco, dunque. Soprattutto per chi, come Giulio Cesare Sottanelli, si vedeva già proiettato al ministero dello Sviluppo economico come sottosegretario. Invece sull’ambita poltrona, alla fine, si è seduto Antonio Gentile (Ncd). In un dicastero nel quale gli alfaniani potevano già contare sulla presenza di Simona Vicari. Alla riunione erano assenti alcuni pezzi da novanta del gruppo. Dal tesoriere del partito, Gianfranco Librandi, all’ex ministro dell’Agricoltura del governo Monti, Mario Catania. Ma non hanno partecipato nemmeno il presidente di Brembo, Alberto BombasseiIlaria Capua e Mariano Rabino (entrambi però erano assenti giustificati).

CERCASI ALTERNATIVA – La linea di Zanetti comunque resiste. Almeno per ora. Anche perché nessuno, nella riunione di ieri sera, ha presentato proposte alternative alle sue. “Certo è che, se l’intenzione è quella di continuare a viaggiare su un percorso unitario, le cose dovranno cambiare: la situazione di difficoltà è evidente – spiega un deputato centrista con la promessa dell’anonimato –. Oggi Scelta civica è un partito quasi completamente appiattito sulle posizioni del Pd e, di conseguenza, su quelle del governo”. Esecutivo nel quale, malgrado l’appoggio incondizionato dimostrato finora, Sc può contare soltanto su due pedine. Insomma, “quella attuale è una linea sterile che non serve a nessuno. Perciò – conclude – è normale che molti non siano contenti”. Una situazione che rischia di avere ripercussioni, in primis, sulle amministrative di primavera. Nelle quali Scelta civica è schierata al fianco del Pd. A Roma appoggerà la candidatura di Roberto Giachetti, mentre a Torino quella di Piero Fassino (con i moderati di Giacomo Portas) e a Milano quella dell’ex amministratore delegato di Expo Giuseppe Sala.

Twitter: @GiorgioVelardi

(Articolo scritto il 4 febbraio 2016 per ilfattoquotidiano.it)

Poletti ministro dimezzato dopo il rimpasto: è senza più delega alla famiglia e al Jobs Act

mercoledì, febbraio 3rd, 2016

Ridimensionato dall’ultimo giro di poltrone all’interno del governo. Lui tira dritto e rilancia: “Reddito minimo per un milione di poveri con minori a carico”. Ma l’opposizione ironizza e lo bersaglia. Scotto (Sinistra italiana): “Lo zelo con cui ha affossato l’articolo 18 non ha pagato”. Santelli (Forza Italia): “Sfiduciato di fatto da Renzi”. Ecco i suoi scivoloni da quando è ministro

poletti-675Lui giura di non sentirsi ‘dimezzato’ dall’arrivo a Palazzo Chigi di Tommaso Nannicini, il già consigliere economico di Matteo Renzi promosso, con l’ultimo valzer di poltrone nell’esecutivo, a sottosegretario alla presidenza del Consiglio (seguirà l’attuazione del Jobs Act per i lavoratori autonomi). Anzi, “con Tommaso ho un meraviglioso rapporto di collaborazione, mi fa piacere lavorare con i giovani bocconiani ‘dal volto umano’”. Né gli importa, pare di capire, di aver perso di punto in bianco la delega alla famiglia. Trasferita nelle mani del neo ministro per gli Affari regionali, l’alfaniano Enrico Costa. Che dovrebbe occuparsi di rapporti fra Stato e Regioni. Il tutto pochi giorni prima del Family Day e dell’approdo nell’Aula di Palazzo Madama del discusso ddl Cirinnà sulle unioni civili. Fosse successo nella vituperata prima Repubblica, sarebbero magari seguite dimissioni clamorose per il drastico ridimensionamento. Ma l’ipotesi non sembra nemmeno sfiorare Giuliano Poletti, uscito più malconcio di tutti dai recenti cambiamenti nella squadra di governo. Lui, il ministro del Lavoro, tira dritto come se nulla fosse. Ieri, per dire, approfittando dell’ospitalità sulle pagine di Repubblica, ha provato a dirottare l’attenzione sulla sua ultima fatica. “Una riforma che – ha affermato – vale almeno quanto il Jobs Act”: un reddito minimo di 320 euro al mese per un milione di poveri con minori a carico.

ANDAMENTO LENTO– Insomma, la versione ‘smart’ del reddito di cittadinanza, cavallo di battaglia del Movimento 5 Stelle. Certo è, almeno a sentire i maligni, che la scelta del presidente del Consiglio di ridimensionare ruolo e poteri del suo ministro del Welfare non sembra del tutto casuale. Il motivo? Renzi ha fatto della questione del lavoro uno dei punti salienti della sua agenda di governo ma finora, nonostante i ‘cambiamenti epocali’ annunciati con il Jobs Act (che “sta fallendo nei suoi obiettivi principali”, cioè “promuovere l’occupazione e ridurre la quota di contratti temporanei e atipici”, come ha recentemente rivelato un rapporto di Isi Growth), i numeri della ripresa sono timidi. Nel 2015 sono stati creati circa 115 mila nuovi posti. Ai quali vanno aggiunte le 388 mila trasformazioni da contratti a termine e le 80 mila da apprendistato che però non possono essere considerate come “nuove assunzioni”. Un po’ poco se si considera l’esercito di quasi 7 milioni di persone in cerca di un impiego in giro per l’Italia. La colpa, certo, non è tutta di Poletti. Ma qualcuno dovrà pur risponderne. E il ministro del Lavoro sembra il capro espiatorio perfetto. Anche tenuto conto della lunga serie di gaffes e scivoloni che non hanno certo fatto bene alla sua immagine. A cominciare dal rapporto conflittuale con i numeri, che ad agosto dell’anno scorso gli costarono anche una figuraccia, quando lo stesso ministero del Lavoro fu costretto a correggere i dati sul numero dei nuovi contratti stipulati grazie al Jobs Act: quelli su cessazioni, collaborazioni e apprendistato erano stati calcolati male. Risultato: numeri ridimensionati da 630 mila a 327 mila nei primi sette mesi del 2015.

SENZA GARANZIA – Per non parlare di quella imbarazzante foto che lo ritrae a cena con Salvatore Buzzi, quello che i pubblici ministeri che indagano su ‘Mafia Capitale’ hanno definito come il “braccio destro imprenditoriale” di Massimo Carminati. Banchetto al quale parteciparono, fra gli altri, anche l’ex sindaco di Roma, Gianni Alemanno, più alcuni esponenti del Pd romano. “Sono stufo di essere tirato in ballo per quella foto del 2010 – si è più volte sfogato Poletti –. Come presidente della Lega coop partecipavo a migliaia di iniziative e non potevo conoscere tutti coloro che incontravo”. Uno scatto inopportuno, insomma, ma non solo. Perché a pesare sulla gestione del ministero del Lavoro nell’era Poletti c’è soprattutto la questione legata a Garanzia Giovani, il piano europeo di contrasto alla disoccupazione giovanile che in Italia si sta rivelando un autentico fallimento. Nonostante gli 1,5 miliardi di euro, un quarto dei sei totali, che Bruxelles ha stanziato per il nostro Paese. Con stagisti e tirocinanti che si ritrovano senza stipendio per mesi e il ministero di via Veneto che ammette: “I tempi non sono quelli di un’impresa”. Proprio così. Sta di fatto che molti dei giovani iscritti al programma (944 mila secondo l’ultimo report, di cui poco più della metà presi in carico dai centri per l’impiego) stanno rinunciando. Una vicenda sulla quale anche lo stesso Renzi è stato costretto ad ammettere che le cose non stanno filando lisce come dovrebbero. Per non parlare, poi, dell’uscita che ha fatto tornare in mentre ‘illustri’ predecessori dell’attuale ministro del Lavoro. Ultima in ordine di tempo Elsa Fornero. “La laurea a 28 anni con 110 e lode? Non serve a niente, meglio a 21 con 97”, ha detto Poletti nel corso di una convention a fine novembre. Apriti cielo, una pioggia di polemiche. Tanto che il ministro è stato costretto a correggere il tiro: “Non ho mai pensato che i giovani italiani siano ‘choosy’ o ‘bamboccioni’”. Ma si sa: a volte la toppa è peggio del buco. E gli avversari non hanno mai mancato di farglielo pesare.

BERSAGLIO GROSSO – Anche in queste ore le frecciate si sprecano. Nonostante il rimpasto che lo ha ridimensionato, Poletti continua infatti ad essere uno dei bersagli prediletti delle opposizioni. “Evidentemente lo zelo con il quale il ministro del Lavoro, che è stato leader della cooperazione, ha affossato lo Statuto dei lavoratori abbattendo l’articolo 18 non ha pagato”, ironizza il capogruppo alla Camera di Sinistra Italiana Arturo Scotto. “La delega alla famiglia è stata affidata ad un ministro del Nuovo centrodestra per ammiccare al popolo del family day mentre è in discussione il disegno di legge sulle unioni civili – prosegue –. Allo stesso tempo il Jobs Act è finito direttamente in mano ad un sottosegretario, già consigliere economico del premier, di stretta fiducia di Renzi”. Insomma, conclude Scotto, “Poletti è ormai un ministro dimezzato”. E che esce “sicuramente indebolito da questo rimpasto” anche per Jole Santelli (Forza Italia), ex sottosegretaria al Lavoro del governo di Enrico Letta. “Quello che colpisce – aggiunge la deputata di Fi – è il fatto che ancora una volta Renzi accentri su Palazzo Chigi la gestione dei dossier più spinosi, come il Jobs Act, nominando un fedelissimo come Nannicini e spostando Teresa Bellanova allo Sviluppo economico. È la testimonianza di un’evidente mancanza di fiducia nel suo ministro del Welfare”. Ormai dimezzato e sempre più in ribasso.

(Articolo scritto il 2 febbraio 2016 con Antonio Pitoni per ilfattoquotidiano.it)

Protezione civile, ecco la riforma di Palazzo Chigi: l’ufficio per il rischio sismico declassato a servizio

venerdì, gennaio 29th, 2016

Una scelta “incomprensibile” per i sindacati. Contenuta negli schemi di decreti con i quali Palazzo Chigi si prepara a riorganizzare l’assetto del delicato dipartimento. E che ilfattoquotidiano.it ha potuto visionare. Perplessità anche sulla nuova figura di vertice del direttore operativo, titolare della gestione delle emergenze: “Ci auguriamo che non si riveli una casella per sistemare l’amico di turno”

protezione-civile675“L’Italia è uno dei Paesi a maggior rischio sismico del Mediterraneo”, informa il sito del Dipartimento della Protezione civile che fa capo alla Presidenza del Consiglio. Eppure, tra le novità contenute negli schemi di decreti con i quali Palazzo Chigi si prepara a riorganizzarne l’assetto – e che ilfattoquotidiano.it ha potuto visionare – l’ufficio preposto alla gestione del rischio sismico (e vulcanico) viene declassato a semplice servizio. Una scelta che diverse sigle sindacali non esitano a definire “incomprensibile”. Come pure forti perplessità ha suscitato l’idea di istituire la nuova figura del direttore operativo per supportare il capo del Dipartimento nel “coordinamento e direzione unitaria delle attività di emergenza”. Una figura che, tra le associazioni di categoria dei lavoratori della Presidenza del Consiglio, più di qualcuno ha già definito un “duplicato” del vice capo Dipartimento.

EMERGENZA SI CAMBIA – Nata nel 1982, sulla scia delle polemiche per i drammatici ritardi dei soccorsi e la caotica gestione del post terremoto dell’Irpinia del 1980, la Protezione civile fu istituita per dotare il Paese di un organismo capace di “assicurare assistenza alla popolazione in caso di grave emergenza”. L’ultima riforma del Dipartimento preposto alla sua direzione risale al novembre 2012, quando a Palazzo Chigi sedeva ancora Mario Monti. Ora il governo guidato da Matteo Renzi pensa di ridisegnarne l’assetto. Con due decreti: il primo (del presidente del Consiglio) che abroga la disciplina introdotta dal senatore a vita, il secondo (del segretario generale) che la sostituisce con la nuova. Restano, ma vengono ridisegnati, i sei uffici in cui si articola il Dipartimento: Volontariato e risorse del Servizio Nazionale (attualmente Volontariato, formazione e comunicazione); Promozione e integrazione del Servizio Nazionale (rimpiazza i Rischi idrogeologici e antropici); Attività tecnico-scientifiche per la previsione e prevenzione dei rischi (subentra al Rischio sismico e vulcanico che, come detto, vengono declassati a servizi nell’ambito del nuovo ufficio); Attività per il superamento dell’emergenza e il supporto agli interventi strutturali (al posto della Gestione delle emergenze); Risorse umane e strumentali e servizi generali di funzionamento (ritocca le competenze dell’attuale VI ufficio Risorse umane e strumentali trasformandolo nel V); Amministrazione e bilancio (che da V ufficio diventerà il VI). Al vertice della catena resta il capo del Dipartimento – incarico attualmente ricoperto da Fabrizio Curcio, ex direttore dell’Ufficio emergenze che lo scorso anno ha preso il posto di Franco Gabrielli, dopo la sua nomina a prefetto di Roma – che assicura l’indirizzo, il coordinamento e il controllo delle attività. Affiancato dal vice capo del Dipartimento (in carica c’è Angelo Borrelli): la nuova disciplina conferma i suoi poteri sostitutivi del capo in caso di assenza, impedimento o vacanza dell’incarico. Affidandogli il coordinamento delle incombenze amministrative necessarie al funzionamento della struttura e alla gestione dei Fondi strutturali dell’Unione europea. Oltre che delle attività relative al contenzioso. Tra le figure di vertice, come detto, la new entry è il direttore operativo. Vero e proprio deus ex machina delle emergenze, potrà avvalersi di un intero ufficio articolato in cinque servizi.

C’È CHI DICE NO – Modifiche che non piacciono a varie organizzazioni sindacali. Due le criticità sottolineate dal segretario generale del Dirstat, Arcangelo D’Ambrosio. “Innanzitutto, va assolutamente rivista l’idea di accorpare tutti i rischi in un unico ufficio, comprimendo quello attualmente dedicato al rischio sismico in un singolo servizio – obietta –. Quanto all’introduzione di un dirigente di prima fascia in staff al capo Dipartimento, con ruolo di direttore operativo, sembra prefigurare di fatto un duplicato di funzione già esistente, quella cioè del vice capo Dipartimento. Ci auguriamo che non si riveli una casella creata al solo scopo di sistemare l’amico di turno”. E ancora. “Anche la gestione delle emergenze convogliata in un ufficio di staff è del tutto singolare – prosegue D’Ambrosio –. Si rischia di replicare ciò che è avvenuto con l’accorpamento del Corpo Forestale nei Carabinieri, con il risultato di svilire e disperdere specifiche professionalità”. Condivisibile invece “l’intenzione di rimettere mano alle posizioni organizzative”, conclude il segretario del Dirstat: “Potrebbe essere l’occasione per garantire un po’ di trasparenza e pubblicità che in Presidenza è sempre stata lacunosa”. Il riordino del Dipartimento, secondo il coordinatore della Flp-Pcm Lauro Crispino, è “fortemente sbilanciato verso l’attività emergenziale, al punto da prefigurare un ufficio sovraordinato a tutta l’organizzazione”. Inoltre, appare “incomprensibile anche la pervicacia dimostrata nel voler declassare l’ufficio Sismico ad un servizio”. Nello specifico, prosegue Crispino, “tale riorganizzazione parrebbe concepita per il consolidamento di interessi personali in nome dei quali anche le regole di attribuzione e di rinnovo degli incarichi di prima fascia sono state adattate”. La conferma? “Non potrebbero essere interpretate in modo diverso le figure di vertice poste alle dirette dipendenze del capo Dipartimento – accusa il rappresentante della Flp –. In particolar modo l’ennesimo direttore generale di staff, di cui avremmo fatto volentieri a meno”. Unica nota positiva “la prefigurazione di posizioni organizzative e di reclutamento di 15 dirigenti”. A patto che, conclude Crispino, “non costituisca l’ennesima boutade per garantire la sopravvivenza di contratti dirigenziali, conferiti anche ad estranei alla pubblica amministrazione, sulla base del principio di intuitu personae”.

(Articolo scritto con Antonio Pitoni il 28 gennaio 2016 per ilfattoquotidiano.it)

Cybersecurity, Renato Farina, alias Betulla, sponsorizza la nomina di Marco Carrai: “E’ di Cl come me”

mercoledì, gennaio 27th, 2016

“Non posso rilasciare interviste ma non smentisco quelle dichiarazioni”. Così a ilfattoquotidiano.it l’ex deputato e giornalista. Che secondo Libero ha invitato i parlamentari di Forza Italia “a non fare barricate” contro l’amico fiorentino del premier Matteo Renzi. “È bravo davvero, sono un suo estimatore per la comune militanza ciellina”

carrai-675Renato Farina si scusa, rispondendo alle domande de ilfattoquotidiano.it: “Sono un dipendente del gruppo parlamentare di Forza Italia (alla Camera, ndr) e, per contratto, non posso rilasciare interviste. Non è stata una mia dichiarazione al giornalista, ma non smentisco niente”. La dichiarazione in questione, riportata oggi dal quotidiano Libero, è un vero e proprio spot alla nomina, alla guida della cybersecurity, di Marco Carrai, amico fidatissimo del premier Matteo Renzi. “Perché è bravo davvero”, assicurava l’ex parlamentare berlusconiano ai deputati azzurri. “Non è il caso di fare barricate su Marco Carrai alla cybersecurity del governo”, ragionava Farina, oggi animatore del Mattinale, il bollettino quotidiano voluto dal capogruppo di Fi Renato Brunetta, che detta la linea sui principali temi d’attualità della giornata. Insomma, un invito a non ostacolare la nomina del fedelissimo del numero uno di Palazzo Chigi da parte dell’ex vicedirettore di Libero che non nasconde di essere un “estimatore di Carrai per la comune militanza ciellina”.

NIENTE IN ORDINE Curioso, in ogni caso, che a sponsorizzare la nomina di Carrai (nella foto con Agnese Landini, moglie del premier) a capo della cybersecurity sia lo stesso Farina, assurto all’onore delle cronache per i suoi legami con i servizi segreti sotto lo pseudonimo di ‘Betulla’. Furono i magistrati Armando Spataro e Ferdinando Pomarici a scoprire la sua collaborazione, dal 1999 al 2006, con il Sismi allora diretto da Niccolò Pollari. Farina ha raccontato la sua versione dei fatti in un libro, Alias agente Betulla, pubblicato nel 2008, un anno dopo aver patteggiato una condanna a sei mesi (commutati in una multa di 6.800 euro) per favoreggiamento nell’ambito dell’inchiesta sul rapimento dell’ex imam di Milano Abu Omar. Che gli è costata anche la radiazione dall’Ordine dei giornalisti (Odg), per violazione del divieto di intrattenere rapporti con i servizi segreti. Evitata giocando d’anticipo: chiese la cancellazione dagli elenchi prima dell’adozione del provvedimento disciplinare. Quando poi, nel settembre 2014, il consiglio dell’Ordine della Lombardia ammise con voto unanime la sua domanda di reiscrizione, il giornalista di Repubblica, Carlo Bonini, si dimise polemicamente dal consiglio nazionale dello stesso Odg.

ALL’ULTIMO DOSSIER “La sua riammissione nell’Ordine – disse Bonini – oltraggia non solo la memoria di Giuseppe D’Avanzo, un amico di cui ho pudore a parlare, per me un padre non solo della professione, ma soprattutto quello che ha dato al giornalismo. E il silenzio è dei complici”. Il riferimento è all’attività di dossieraggio contro magistrati, politici e giornalisti svolta dalla struttura con la quale Farina collaborava. E sulla quale anche il Copasir, organo di controllo parlamentare sui servizi segreti, ha avviato una indagine. L’anno scorso l’ultimo colpo di scena: ospite di Fatti e misfatti su TgCom24, Pollari scagionò ‘Betulla’: “Non è il giornalista Farina, ma è un’altra persona”. E lui, proprio al Fatto quotidiano, confermò. Stavolta smentendo se stesso.

(Articolo scritto con Antonio Pitoni il 25 gennaio 2016 per ilfattoquotidiano.it)

Reato di tortura: nonostante le promesse di Renzi la legge che lo introduce non c’è

venerdì, gennaio 22nd, 2016

Il provvedimento è sparito dall’ordine del giorno della commissione Giustizia di Palazzo Madama. Rischiando di non vedere mai la luce. La denuncia dell’associazione Antigone: “Testo svuotato dopo le audizioni delle forze dell’ordine”. Silenzio del premier e del Guardasigilli, Andrea Orlando. Mentre il governo studia il modo per evitare nuove condanne da parte di Strasburgo

agenti-diaz-675La proposta di legge per l’introduzione nel codice penale italiano del reato di tortura si è fermata a un tweet. Quello scritto dal presidente del Consiglio, Matteo Renzi, l’8 aprile 2015. Il giorno dopo la condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo per i fatti della scuola Diaz durante il G8 di Genova. La “macelleria messicana”, come la definì uno degli agenti che la notte del 21 luglio 2001 fecero irruzione nella Diaz. “Quello che dobbiamo dire lo dobbiamo dire in Parlamento con il reato di tortura”, diceva nove mesi fa Renzi rispondendo in 140 caratteri all’ex leader dei no-global Luca Casarini. “Questa – aggiungeva – è la risposta di chi rappresenta un Paese”. Peccato che ad oggi quella risposta non sia ancora arrivata. Anzi: c’è seriamente il rischio che non arrivi mai. Perché il provvedimento, già approvato in prima lettura sia dal Senato sia dalla Camera fra marzo 2014 e aprile 2015, è attualmente arenato nelle secche della commissione Giustizia di Palazzo Madama presieduta da Francesco Nitto Palma (Forza Italia). Di più: “È addirittura scomparso dall’ordine del giorno della stessa commissione”, denuncia a ilfattoquotidiano.it il presidente di Antigone, Patrizio Gonnella. Proprio così. Nel silenzio del premier e del ministro della Giustizia, Andrea Orlando.

SENZA TRACCIA – Una circostanza singolare. Soprattutto per chi, come Renzi, ha fatto dei diritti civili un cavallo di battaglia. Aggiunge Gonnella: “Dopo la condanna per il caso di Arnaldo Cestaro (il manifestante più anziano torturato alla Diaz che con la sua denuncia ha portato alla punizione da parte di Strasburgo, ndr) sono accaduti due fatti a mio avviso molto gravi”. Per prima cosa, a maggio dello scorso anno, “la commissione Giustizia di Palazzo Madama ha audito in maniera ‘informale’ tutti i capi delle forze di polizia e i vertici dell’Associazione nazionale magistrati, senza però produrre un resoconto di quanto è stato detto – dice il presidente di Antigone –. Chi c’era racconta di un’Anm favorevole al varo di questa misura, mentre le forze dell’ordine si sono dette contrarie chiedendo che il testo uscito dalla Camera fosse modificato”. Detto, fatto. Così “la proposta di legge, che già non era perfettamente in linea con i dettami della Convenzione Onu del1984, è stata stravolta: il reato di tortura è diventato generico, un pannicello caldo senza alcuna valenza reale”, attacca Gonnella. L’aspetto più controverso è la reintroduzione del plurale quando si parla delle violenze. Tradotto: “Per configurarsi il reato di tortura i maltrattamenti perpetrati nei confronti di un soggetto devono essere plurimi, un solo episodio non basta – spiega Gonnella –. Un fatto paradossale e inaccettabile”.

CORSI E RICORSI – Non è tutto. Perché quella di Cestaro, che è stato risarcito con 45 mila euro dallo Stato italiano per le violenze subite nel 2001, non è una vicenda isolata. Altre cento persone, infatti, attendono il pronunciamento di Strasburgo per le violenze subite alla Diaz e alla caserma Nino Bixio di Bolzaneto, l’altro teatro dei pestaggi al tempo del G8 di Genova. Per evitare l’ennesima condanna, il 9 gennaio scorso il ministero degli Esteri, per conto del governo, ha proposto ai ricorrenti una “conciliazione amichevole”: 45 mila euro a testa di risarcimento dei danni morali subiti per gli abusi commessi a Bolzaneto. “Un’altra circostanza gravissima”, commenta Gonnella. “Di fatto, il governo propone di monetizzare le violenze, così com’è già avvenuto a novembre 2015 per casi analoghi avvenuti nel carcere di Asti, per paura che una nuova condanna da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo porti con sé l’ennesimo richiamo a varare una legge che introduca anche in Italia il reato di tortura. Spero che Renzi e Orlando intervengano in prima persona – conclude il presidente di Antigone –. Solo loro possono sbloccare questa impasse”.

PER COLPA DI CHI – Ma le responsabilità non sono soltanto dei soggetti indicati da Gonnella. Infatti c’è dell’altro, come testimoniano le parole del senatore Felice Casson (Pd). “Purtroppo ciò che sta accadendo non mi sorprende”, dice amareggiato. “Da tre legislature – ricorda l’esponente dem – Camera e Senato provano a mandare in porto un simile provvedimento, senza mai riuscirci”. La colpa? “Principalmente dei partiti di centrodestra”, risponde. “In passato erano soprattutto gli esponenti di Alleanza Nazionale ad opporsi fermamente a questa legge” mentre “oggi, con alcune eccezioni, il testimone è passato ai gruppi di quell’area presenti in Parlamento, compresa la Lega Nord, i quali pensano che si tratti di una norma punitiva nei confronti delle forze dell’ordine”. Invece “non è così”, argomenta l’ex magistrato. Che ci tiene a sottolineare come “il problema sia prima di tutto etico: chi lavora in nome e per conto dello Stato deve avere a cuore il bene delle persone, e chi sbaglia deve pagare – conclude –. Se ci sono delle mele marce è giusto sanzionarle altrimenti le conseguenze ricadranno anche su chi svolge i propri compiti rispettando le regole”. Non tutti però la pensano allo stesso modo. “Il testo approvato dalla Camera mette in serio rischio il lavoro delle forze dell’ordine e può avere effetti devastanti”, dice a ilfattoquotidiano.it il senatore ex Nuovo centrodestra, Carlo Giovanardi. “Spacciare per tortura casi come quelli di Cucchi, Uva o Aldrovandi – prosegue – stravolge completamente le finalità di una norma che invece deve indicare fattispecie chiare ed equilibrate”. Insomma, le posizioni appaiono distanti. Chissà che alla fine questo non diventi il pretesto per chiudere il provvedimento nel cassetto. Ancora una volta.

Twitter: @GiorgioVelardi

(Articolo scritto il 20 gennaio 2016 per ilfattoquotidiano.it)

Giubileo: 159 milioni di euro per Roma, ma a decidere come spenderli sarà solo Renzi

giovedì, gennaio 21st, 2016

La norma, contenuta nel provvedimento che stanzia risorse per riqualificare la Capitale, affida la gestione dei fondi al presidente del Consiglio. E a nessun altro. Bocciato dall’Aula della Camera un emendamento di Fabio Rampelli (Fratelli d’Italia) che chiedeva il coinvolgimento del sindaco nelle decisioni. Opposizioni all’attacco. Lombardi (M5S): “Si rischia uno scontro istituzionale senza precedenti se sarà eletto uno dei nostri”. Zaratti (Sel): “Scelta incomprensibile”. Civati (Possibile): “È la logica dell’uomo solo al comando”  

renzi-675C’è chi parla di “deriva plebiscitaria”, chi di “centralismo antidemocratico” e chi, addirittura, paventa il rischio di “uno scontro istituzionale senza precedenti”. Il pomo della discordia sono i 159 milioni di euro (94 per l’anno 2015 e i restanti 65 per il 2016) che il cosiddetto ‘decreto Giubileo’ stanzia tramite un fondo per “la realizzazione di interventi” volti a riqualificare Roma durante l’anno santo straordinario indetto da Papa Francesco. Con particolare riferimento alla mobilità, al decoro urbano e alle periferie. A decidere come verranno spesi i soldi, dice il provvedimento, saranno “uno o più decreti del presidente del Consiglio dei ministri”. Tradotto: solo Matteo Renzi avrà voce in capitolo sulla questione. Mentre saranno esclusi dalla partita il commissario straordinario, Francesco Paolo Tronca, e il nuovo sindaco di Roma, che sarà eletto in primavera. Una circostanza singolare, secondo le opposizioni. Che non a caso hanno cercato di invertire la rotta. Un emendamento presentato dal deputato Fabio Rampelli (Fratelli d’Italia), il quale chiedeva che le risorse fossero ripartite “di concerto” con il primo cittadino della Capitale, è stato però bocciato dall’aula di Montecitorio. A favore della modifica, insieme al partito di Giorgia Meloni, hanno votato anche Forza Italia, Lega Nord, Movimento 5 Stelle, Sinistra italiana e Alternativa Libera-Possibile. Ma i 158 voti raccolti non sono serviti a farla passare.

QUI COMANDO IO – “Lo reputo un fatto molto grave”, dice Rampelli, “perché dopo la cacciata di Ignazio Marino il governo ha deciso di lasciare al loro posto i presidenti dei municipi e nominare un commissario straordinario, salvo poi scavalcarli completamente nel momento di decidere come e per cosa stanziare questi soldi. Trovo incompressibile – prosegue – che a decidere di un’amministrazione comunale sia il presidente del Consiglio. È l’ennesima testimonianza della deriva plebiscitaria alla quale stiamo andando incontro”, conclude Rampelli. Sulla stessa lunghezza d’onda anche il M5S. “Oltre al fatto che la cifra stanziata è risibile e arriva con grave ritardo – attacca la deputata Roberta Lombardi – Renzi ha pensato bene di non dare voce al sindaco, espressione del voto popolare, ma di proseguire lungo la strada del centralismo antidemocratico. Roma ha 1,2 miliardi di disavanzo ai quali vanno aggiunti una serie infinita di debiti fuori bilancio con cui il prossimo primo cittadino si troverà a fare i conti. Si rischia uno scontro istituzionale senza precedenti, soprattutto se sarà eletto un sindaco espressione del M5S o delle altre forze di opposizione”.

ONERI E ONORI – “L’impressione è che Renzi voglia scaricare sui sindaci solo gli oneri lasciando per sé gli onori, e quanto previsto dall’articolo 6 del ‘decreto Giubileo’ non è che l’ultima dimostrazione”, spiega Filiberto Zaratti, deputato romano di Sinistra italiana. “È impensabile impegnare dei soldi su questioni come la mobilità, le periferie e il decoro urbano senza ascoltare ciò che ha da dire chi amministra quotidianamente la città – aggiunge –. Non vorremmo che questo fosse il modo per consultare i sindaci amici osteggiando gli avversari”. Per Giuseppe Civati, deputato ex Partito democratico oggi leader di Possibile, “la bocciatura di questo emendamento rientra nella logica dell’uomo solo al comando di matrice renziana, fatta di cambiali in bianco consegnate nelle mani del governo e nella quale gli equilibri costituzionali sono prerogativa di una singola persona. Spero solo – conclude – che alla fine nessuno si lamenti”.

(Articolo scritto il 19 gennaio 2016 per ilfattoquotidiano.it)

Il Patto del Nazareno secondo Verdini: l’accordo Berlusconi-Renzi nei report dell’ex braccio destro al leader forzista

martedì, gennaio 19th, 2016

Ecco i punti più interessanti del libro del deputato Massimo Parisi (Ala). Costruito attraverso i rapporti scritti che lo stesso Verdini inviava al leader azzurro. Tra gennaio 2014 e gennaio 2015, data di nascita e morte del celebre accordo stretto nella sede del Pd. Con racconti inediti e giudizi sprezzanti anche sugli esponenti del Pd. Renzi? “È solo un chiacchierone. Dice sempre le stesse cose. Per ora è stato un perfetto trasformista”. La Boschi? “Più adatta al tema forme che al tema riforme”

verdini-renzi-6751È il racconto di una vicenda che ha indubbiamente segnato la recente storia politica italiana. Ma non solo. A sentire l’autore, il deputato di Alleanza liberalpopolare-autonomie (Ala), Massimo Parisi, è anche “il primo tassello di un progetto politico nuovo” che sarà definito negli anni a venire. Il Patto del Nazareno, libro edito da Rubbettino presentato oggi a Roma alle 18 alla sala del Tempio di Adriano, racconta, principalmente attraverso i report che Denis Verdini era solito inviare a Silvio Berlusconi, quanto è accaduto fra il 18 gennaio 2014 e il 31 gennaio 2015, data di nascita e di morte del celebre accordo stretto nella sede del Pd fra Matteo Renzi e il leader di Forza Italia. “L’idea iniziale era quella di scrivere un libro che esaltasse Renzi e Berlusconi come nuovi padri costituenti, poi le cose sono andate diversamente”, spiega Parisi. Tanto che “il primo titolo che avevo immaginato era Quelli che fecero l’Italicum”. Ilfattoquotidiano.it ha potuto leggere il libro in anteprima. Eccone, di seguito, i 10 punti principali.

Agli albori del patto. Uno dei primi episodi raccontati dal deputato di Ala nel suo libro è quello relativo alla possibilità che l’incontro fra Renzi Berlusconi potesse tenersi a Firenze e non nella Capitale. Qualche giorno prima del vertice al Nazareno, Parisi si reca quindi nello studio di Verdini per sconsigliargli il manifestarsi di un simile scenario: così “sembrerebbe che anche Berlusconi viene a omaggiare Renzi e a Firenze dobbiamo farci le amministrative”. Verdini risponde facendo leggere al suo interlocutore un promemoria del 14 gennaio 2014 che ha spedito al leader di FI: “Io ti consiglio ancora di vedere Renzi a Roma, presso la sede del Pd, per una serie di motivi”, scrive. Primo: “Sfatare un tabù: pensa al tuo ingresso a largo del Nazareno e al giro del mondo che faranno quelle immagini”. Due: “Questa trattativa, al di là della sostanza, che in questo caso è vita, ti riporta al centro della politica e degli assetti futuri delle istituzioni”. Infine: “Pensa all’importanza di un incontro pubblico con il segretario del Partito democratico, proprio nei mesi in cui volevano renderti ‘impresentabile’ e trattarti da ‘pregiudicato’ espulso dalla politica. Ora invece ricevuto nella sede del Pd, saresti uno dei padri fondatori della Terza Repubblica”.

Lo zio dell’Italicum. L’ex braccio destro del Cavaliere non parteciperà al faccia a faccia. “Ho detto a Renzi che lo chiamerà Gianni Letta per fissare ora e giorno dell’incontro e le relative modalità. (…) Penso che ti potrei essere utile e sarei anche orgoglioso di essere al tuo fianco in un momento così decisivo, ma non c’è bisogno che tu mi dica niente: capisco che per una questione d’immagine è meglio passare la palla a Gianni”, scrive Verdini. Ma il senatore toscano ha già intavolato la trattativa con Roberto D’Alimonte, “lo zio dell’Italicum”, come ama autodefinirsi. Il confronto fra i due si tiene domenica 12 gennaio 2014 a Firenze e dura quattro ore. “Anche in questo caso tutto avviene al riparo di telecamere e giornalisti, giacché i due si vedono nell’abitazione di D’Alimonte”, annota Parisi. È un nuovo report di Verdini a Berlusconi del 14 gennaio 2014 a raccontare com’è andata: “L’incontro è stato lungo e molto approfondito sia sul piano tecnico che su quello sociologico. (…) Per sua stessa ammissione, la conoscenza, i dati e le simulazioni che io gli ho illustrato e consegnato erano quasi del tutto identici ai suoi. (…) Dopo le basi che io e D’Alimonte abbiamo gettato – conclude – il suo successivo incontro con Renzi è stato ottimo per il possibile accordo. Di questo ho avuto notizia da entrambi”.

Telefonare Palazzo Chigi. Un altro episodio curioso, raccontato nel libro, è quello che avviene durante il vertice a Largo del Nazareno. “L’incontro dura molto più del previsto – scrive Parisi –. Alle 6 della sera, Berlusconi e Letta sono ancora seduti sul divanetto dell’ufficio di Renzi. (…) Il telefonino del segretario del Pd squilla di frequente e, stando al racconto che Berlusconi farà poco dopo a Verdini, a chiamare con insistenza è Palazzo Chigi”. Dall’altra parte del telefono, a chiamare ripetutamente Renzi, è l’allora presidente del Consiglio, Enrico Letta, “un altro toscano che di questa storia sarà però soltanto prima spettatore e poi vittima” che “aspetta con impazienza notizie e forse ha già in fondo capito che anche la vita del suo governo è appesa a quel vertice”.

Il perfetto trasformista. Leggendo il testo si capisce come, almeno nelle fasi iniziali del loro rapporto, Verdini non avesse grande stima di Renzi. Quando, durante la campagna del 2013 per le primarie per la leadership (poi perse dall’allora sindaco di Firenze contro Pier Luigi Bersani), Parisi cerca di mettere in guardia Verdini “dal rischio ‘Renzi’ e dalla possibilità che ottenesse un successo clamoroso e che ce lo ritrovassimo come avversario”, egli risponde: “È solo un chiacchierone. Dice sempre le stesse cose”. E ancora, il 27 dicembre 2013: “Se fosse uno sciatore”, Renzi “sarebbe uno specialista degli slalom, ma ora il bluff sta necessariamente per essere visto. Tolta la rottamazione, che è un concetto piuttosto semplice, non è ancora chiaro che cosa sia esattamente il renzismo”. Di più: “Abbiamo letto tante autorevoli analisi sulla sua carica innovativa e la sua radicale discontinuità, il ricambio generazionale, il rinnovamento politico-culturale, la rigenerazione morale ed esistenziale. (…) Renzi riesce a promuovere molto bene la confezione” ma “per ora è stato un perfetto trasformista”.

Le segretarie del segretario. Tranchant sono invece i giudizi che Verdini dà dei componenti della segreteria del Pd guidata dal futuro premier. “Più che di una segreteria politica – scrive Parisi citando il report del 28 dicembre 2013 – si tratta di un gruppo di segretarie e segretari di Renzi”. Luca Lotti? “L’unica cosa che si sa di lui è che è un collaboratore di Renzi. Non solo per età e inesperienza, il profilo appare oggettivamente modesto”. Francesco Nicodemo? “Forse l’unica cosa che può aver eccitato Renzi è che questo tipo ha passato gli ultimi mesi a insultarsi con i comunicatori più vicini a Bersani, tali Stefano Di Traglia e Chiara Geloni”. Debora Serracchiani? “Studia faziosità da Rosy Bindi”. Federica Mogherini? “La solita solfa gné-gné-pacifismo-femminismo-europeismo”. Pina Picierno? “Veltroniana, franceschiniana, bersaniana e fervente anti-renziana alle scorse primarie, ma poi evidentemente pentita: un altro salto sul carro del vincitore ben riuscito”. Maria Elena Boschi? “Bella è certamente bella, a dir poco. Più adatta al tema forme che al tema riforme, si potrebbe dire”. Marianna Madia? “Ha già girato praticamente tutte le correnti del Pd”. L’unico su cui Verdini esprime apprezzamento è il vicesegretario Lorenzo Guerini: “Forse è l’unico elemento davvero bravo e interessante. Simpatico e concreto, appare (e forse è) effettivamente lontano dallo stereotipo del sinistro torvo, ideologico e trinariciuto”.

Non trattate con Nardella. Il 18 dicembre 2013 il Corriere della Sera dà notizia di un faccia a faccia fra il capogruppo di Forza Italia alla Camera, Renato Brunetta, e Dario Nardella (al tempo deputato del Pd) sulla legge elettorale. I due avrebbero ragionato su una rivisitazione del Mattarellum. “L’incontro ha un impatto deflagrante: i due mediatori non sanno a quel momento dello stato avanzato (ma riservato) dei contatti Verdini-Renzi – rivela Parisi –. Verdini di per sé fa spallucce, tuttavia quando lo stato maggiore del partito si riunisce e Brunetta insiste sull’opportunità di proseguire nel contatto con Nardella, Verdini perde le staffe e i due di fronte a numerosi testimoni si prendono a male parole, fin quando, esasperato dall’insistenza del capogruppo, il fiorentino di ghiaccio viola la riservatezza cui è vincolato da settimane, tira fuori il telefonino e mostra un sms”. Il mittente è Matteo Renzi. Scrive: “Non trattate di legge elettorale con Nardella”.

L’accordo è rotto (anzi no). Più volte, come racconta Parisi, il patto del Nazareno sembra sull’orlo di rompersi. Evidente, anche se “non trapela minimamente sui giornali della domenica”, è “il disappunto di Verdini” nei confronti di Renzi al termine del fatidico incontro al Nazareno. I due avevano concordato una legge elettorale sul ‘modello spagnolo’, ma davanti a Berlusconi e Letta il segretario dem cambierà le carte in tavola. A Sant’Andrea delle Fratte, infatti, lo ‘Spagnolo’ diventerà ‘Italicum’. Renzi, come riporta il deputato di Ala, spiegherà ai suoi interlocutori che contro questo sistema “si coalizzerebbero tutti, da Napolitano a Enrico Letta, (…) con effetti devastanti sulla stessa tenuta della legislatura”. Un cambiamento sostanziale: il computo dei seggi viene spostato dal livello del collegio alla distribuzione nazionale. Ma non solo: ci sono le questioni relative alle ‘liste civetta’ e alla soglia da raggiungere per conquistare il premio di maggioranza. Senza dimenticare gli emendamenti ‘salva Lega’ e ‘Lauricella’. Il momento di massima tensione, in questa fase, è però il durissimo faccia a faccia fra Brunetta e la Boschi del 10 marzo 2014. Il capogruppo di FI chiede un incontro a Renzi (“un quarto d’ora nella pausa pranzo”) per parlare della questione delle ‘quote rosa’. Il segretario dem, già sbarcato a Palazzo Chigi, decide però di non convocare l’ex ministro. Morale: nell’ufficio del presidente della commissione Affari costituzionali di Montecitorio, al tempo il forzista Francesco Paolo Sisto, Brunetta sbotta. “Il patto è rotto”, dice. “Il patto è rotto”, ripete. “Ne nasce una furibonda rissa verbale fra Brunetta e la Boschi: non l’avevo mai vista incazzata, e la ministra dimostra di tener testa al suo antagonista”, scrive Parisi. Alla fine la situazione tornerà alla normalità. Il patto è salvo. Per ora.

Verdini jr. diventa renziano. A un certo punto, nel testo di Parisi, compare anche il figlio di Denis Verdini, Tommaso. Di buon mattino, il 20 gennaio 2014, dopo una notte passata in discoteca, il 25enne viene svegliato dal padre. Il motivo? Per comunicare con Verdini senior, che “ha poca confidenza con il computer”, nel weekend Renzi invia le proprie mail alla casella di posta elettronica del giovane. Il quale, ‘a sua insaputa’, è un sostenitore del premier. O almeno così ha detto a quest’ultimo lo stesso Verdini. Una volta venuto a conoscenza dell’involontario endorsement, Tommaso starà al gioco tanto da inviare a Renzi un sms: “Matteo sono molto contento di come sono andate le cose, ho molta fiducia in te, l’ho sempre avuta… In bocca al lupo. Post scriptum: in casa Verdini vada come vada hai sempre un alleato”. E poi? “In verità nel corso dei mesi successivi – annota l’autore –Tommaso si è realmente convertito al renzismo”.

Pistola schizza piscio. Fondamentale è anche il lungo report che Verdini invia a Berlusconi il 7 aprile 2014, pochi giorni dopo una dura intervista di Brunetta al Corriere (“Renzi vuole distruggerci”) e un fuori onda fra Maria Stella Gelmini e Giovanni Toti nel quale quest’ultimo dice che il Cavaliere “non sa cosa fare con Renzi, perché ha capito che questo abbraccio mortale ci sta distruggendo, ma non sa come sganciarsi”. Parisi riporta il contenuto del documento: “Io, malgrado ciò che scrivono i quotidiani (debitamente imbeccati da qualcuno dei nostri) non ho alcun interesse individuale a portare avanti il rapporto con Renzi – scrive Verdini –. Se sono un convinto sostenitore dell’esigenza di proseguire questa strada è solo perché sono certo che sia quella giusta principalmente per te e per il nostro movimento politico. (…) Quando avevamo le pistole cariche non le abbiamo usate, ora che, come si dice in Toscana, abbiamo una pistola ‘schizza piscio’, vorremmo far paura a chi ha il cannone!”. Si tratta di un documento ‘storico’. All’interno del quale, secondo Parisi, avviene una “conversione laica”, l’“ingresso” di Verdini “nella chiesa del Nazareno”. Il premier “somiglia a quel genio della politica e dell’impresa che nel 2001 propose agli italiani un ‘contratto con gli italiani’”, scrive il leader di Ala. Cioè proprio Berlusconi. In un altro report (15 maggio), dopo la pubblicazione del colloquio tra Alan Friedman e il Cavaliere nel quale egli si dice molto deluso da Renzi seppellendo il Nazareno, Verdini chiede all’ex premier di essere “sollevato” dall’incarico di “ufficiale di collegamento” con il numero uno di Palazzo Chigi.

Il cerchio tragico. L’ultimo report è datato 27 marzo 2015, circa due mesi dopo l’elezione al Colle di Sergio Mattarella che ha messo la parola “fine” sull’accordo. Verdini, oltre che a Berlusconi, lo invia a Gianni Letta e Fedele Confalonieri, che del patto sono stati sponsor ‘esterni’. Quelle che l’ex plenipotenziario di FI mette nero su bianco sono parole dure. “Dopo aver buttato via in un colpo solo il patrimonio politico del patto del Nazareno – domanda Verdini – intendi cestinare anche l’immenso patrimonio politico che hai costruito in vent’anni? Ti sei rinchiuso nel castello incantato con intorno personaggi che il partito non apprezza e non rispetta e li stai usando come clave per regolare non si sa quali conti e perché”. Sono i componenti di quello che il senatore toscano chiama “cerchio magico”, chiedendosi però se non sia “tragico”. Addirittura “un mediocre sinedrio fatto di arroganza, di superficialità e anche, lasciamelo dire, di incompetenza”. Seguono gli addii di Raffaele FittoDaniele Capezzone e dello stesso Verdini. Il resto è storia.

(Articolo scritto il 18 gennaio 2016 per ilfattoquotidiano.it)

Governo, giro di poltrone nella maggioranza: l’alfaniano Albertini e il bersaniano Errani tra le new entry

mercoledì, gennaio 13th, 2016

L’ex sindaco di Milano favorito per il ministero degli Affari regionali. All’ex governatore dell’Emilia Romagna potrebbe andare la casella di vice ministro dello Sviluppo economico. Agli Esteri il Pd spinge Amendola per rimpiazzare Pistelli. E alla Cultura ipotesi Cesaro di Scelta civica per il dopo Barracciu. Ecco le ultime sul toto nomine che impazza in Parlamento. In ballo anche due ambite presidenze di commissione a Palazzo Madama: alla Giustizia in arrivo D’Ascola di Ncd e ai Lavori pubblici il dem Ranucci. I verdiniani si chiamano invece fuori (per ora)

Renzi-6755L’ex sindaco di Milano Gabriele Albertini, alla fine, potrebbe spuntarla per la poltrona di ministro degli Affari regionali. Casella vacante – e coperta dall’interim del premier Matteo Renzi – dal 30 gennaio dell’anno scorso, data delle dimissioni rassegnate da Maria Carmela Lanzetta. Al partito di Angelino Alfano potrebbe andare anche la presidenza di una commissione ‘pesante’ del Senato, dove Nico D’Ascola è in pole per raccogliere il testimone dall’azzurro Francesco Nitto Palma alla Giustizia. Per ricostituire la compagine governativa ci sono da assegnare anche i vice ministeri degli Esteri e dello Sviluppo economico: il primo liberato dal trasloco di Lapo Pistelli alla vice presidenza dell’Eni, il secondo da quello di Claudio De Vincenti a Palazzo Chigi. Per completare l’opera c’è poi da rimpiazzare la dimissionaria (ex) sottosegretaria alla Cultura Francesca Barracciu. Ma il giro di valzer delle poltrone non finisce qui. Con qualche mese di ritardo rispetto alla prassi che fissa l’appuntamento a metà mandato, il Senato dovrà procedere al rodaggio delle presidenze di commissione. E in ballo, oltre alla scricchiolante poltrona di Nitto Palma, c’è anche quella di Altero Matteoli ai Lavori pubblici.

NCD ALL’INCASSO Quella delle commissioni è una partita non più rinviabile. Il fischio finale dovrebbe arrivare entro il 20 gennaio. E il borsino del toto-presidenze è praticamente blindato. Secondo quanto riferiscono fonti qualificate a ilfattoquotidiano.it, per sostituire l’ex ministro del quarto governo Berlusconi alla guida della commissione Giustizia in pole position c’è Nico D’Ascola, senatore del Nuovo centrodestra già avvocato dello studio Ghedini e di Claudio Scajola. Mentre nella corsa per rimpiazzare l’azzurro Matteoli, il nome che circola con maggiore insistenza è quello di Raffaele Ranucci del Partito democratico. A parte queste due caselle è certo che non ci saranno stravolgimenti, anche per non alterare gli equilibri tra le forze che animano la maggioranza di governo. E le correnti interne ai partiti. Di fatto, quindi, sembrano sicuri di mantenere il proprio posto Anna Finocchiaro (Affari costituzionali), Pier Ferdinando Casini (Esteri), Nicola Latorre (Difesa), Andrea Marcucci (Istruzione), Paola De Biasi (Sanità), Giuseppe Marinello (Ambiente), Maurizio Sacconi (Lavoro), Mauro Marino (Finanze), Giorgio Tonini (Bilancio) più i due esponenti della minoranza dem Massimo Mucchetti (Industria) e Vannino Chiti (Politiche europee). Stesso discorso per Roberto Formigoni (Agricoltura), nonostante, soprattutto all’interno del Pd, in molti non gradiscano le posizioni oltranziste del ‘Celeste’ sulle unioni civili. Meglio evitare, almeno per ora, un casus belli all’interno della maggioranza.

BALLO DI GOVERNO Poi c’è da quadrare il cerchio della squadra di governo. Tra i nomi in lizza per un biglietto di ingresso nell’esecutivo la new entry, come detto, è il senatore di Ncd, Gabriele Albertini. Nonostante la preferenza di Renzi per una donna agli Affari regionali (Dorina Bianchi, Federica Chiavaroli, Rosanna Scopelliti e Laura Bianconi tra le più accreditate per le quote rosa) la linea che starebbe prendendo piede nel partito di Alfano è quella di lasciare la poltrona ad un esponente del Nord per riequilibrare geograficamente gli incarichi interni. E per questa ragione a spuntarla potrebbe essere, alla fine, proprio l’ex sindaco di Milano. L’alternativa su cui sui sta ragionando è quella di promuovere il piemontese Enrico Costaagli Affari regionali liberando al collega di partito D’Ascola la poltrona di viceministro della Giustizia. Ma a sentire i ragionamenti di Transatlantico, la vera priorità del presidente del Consiglio sarebbe quella di mettere a posto le cose all’interno del Pd. Scongiurando nuove trincee della minoranza dem con le amministrative ormai all’orizzonte. Per smorzare la tensione, l’ipotesi più accreditata è quella di lasciare all’ex presidente della regione Emilia Romagna, Vasco Errani, la carica di vice ministro dello Sviluppo economico. Poltrona rivendicata anche da Scelta civica che preme per Giulio Cesare Sottanelli. Che difficilmente, però, potrà spuntarla contro il fedelissimo di Bersani. Ma alla fine il fu partito di Mario Monti potrebbe anche accontentarsi dell’assegnazione del sottosegretariato alla Cultura ad Antimo Cesaro. Sarà quasi certamente il Pd, infine, a raccogliere l’eredità di Pistelli alla Farnesina. Dove l’attuale responsabile Esteri della segreteria dem, Vincenzo Amendola, non dovrebbe avere concorrenza per occupare l’ultimo sottosegretariato ancora vacante.

VERDINIANI FUORI GIOCO Questioni quindi molto delicate, quelle delle presidenze di commissione e degli incarichi di governo, rilanciate dall’intervista alla ministra delle Riforme, Maria Elena Boschi, al Corriere della Sera. “Ci sono da ricoprire i ruoli di vice ministro degli Esteri e dello Sviluppo economico, e quello di ministro degli Affari regionali – aveva spiegato –. Non è un rimpasto: sono integrazioni che servono per far funzionare meglio il governo”. Un’intervista non certo passata inosservata e diventata ieri argomento di conversazione sui divanetti di Montecitorio. “E’ solo una coincidenza o piuttosto, alla vigilia delle votazioni sulla riforma costituzionale, un’operazione di moral suasion per evitare sorprese su un provvedimento al quale l’esecutivo ha legato la sua sorte?”, ragionava un autorevole deputato del centrosinistra. Di sicuro, rinvio dopo rinvio, finora Renzi non ha mostrato particolare fretta. Anzi, è possibile che le attese nomine non avvengano simultaneamente. Quel che è certo, almeno per ora, è che Alleanza liberalpopolare-autonomie (Ala), il gruppo capeggiato da Denis Verdini, non sembrerebbe della partita. “Accettare la presidenza di una commissione equivarrebbe ad entrare in maggioranza, figurarsi occupare una poltrona nel governo – spiega un parlamentare di Ala –. Non è questo il nostro intento: per ora continueremo a valutare i singoli provvedimenti e a decidere, caso per caso, se votarli o meno”.

(Articolo scritto il 12 gennaio 2016 con Antonio Pitoni per ilfattoquotidiano.it)