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Dalle riforme ai giochi di Palazzo, Napolitano non molla mai

domenica, ottobre 9th, 2016

800px-Giorgio_NapolitanoIl grande burattinaio, l’arbitro non imparziale, un monarca. Su Giorgio Napolitano, in questi anni, si è detto praticamente di tutto. Spesso a ragione. Di primati, nella sua carriera, “Re Giorgio” ne ha collezionati parecchi. Primo dirigente del Pci a ottenere il visto di ingresso negli Stati Uniti, primo ministro degli Interni post-comunista e, soprattutto, primo capo dello Stato rieletto per un secondo (seppur breve) mandato. Da dieci anni a questa parte, Napolitano muove abilmente i fili della politica italiana. Quando sedeva al Quirinale viaggiava ai limiti dei vincoli costituzionali, per non dire che li travalicava. Ma anche adesso che al suo posto c’è Sergio Mattarella, come noto, continua a entrare a gamba tesa praticamente su qualsiasi cosa. Nella storia dell’Italia repubblicana non si ha memoria di tanto attivismo per un presidente emerito. Sarà perché i temi al centro del dibattito odierno, la riforma costituzionale e l’Italicum, sono anche un po’ “figli suoi”; sarà perché in questa partita “Re Giorgio” si gioca un pezzo di credibilità. Ma le uscite sono ripetute e irritano parecchi. Non solo le opposizioni, per intenderci.

LA GIRAVOLTA - Prendete la legge elettorale. Il 14 aprile 2015 l’ex capo dello Stato la benedì, invitando le Camere a “non disfare quello che è stato faticosamente costruito”. Poi, a inizio settembre, la giravolta. L’Italicum “va cambiato perché nell’attuale sistema tripolare rischia mandare al ballottaggio e di far vincere chi al primo turno ha ricevuto una base troppo scarsa di legittimazione col voto popolare”. Sarà. Per non parlare delle sferzate rivolte nei giorni scorsi al premier, Matteo Renzi, “colpevole” di aver trasformato il referendum in un plebiscito su se stesso. Non è un caso del resto che nei nove anni della sua presidenza, a Palazzo Chigi si siano alternati ben cinque presidenti del Consiglio. Spesso defenestrati dall’oggi al domani e in circostanze tutte da chiarire. Tanto per dirne una: nel 2008, quando il secondo governo di Romano Prodi cadde dopo appena due anni, l’allora portavoce del professore, Silvio Sircana, raccontò: “Sono state le dimissioni più veloci della storia, siamo arrivati al Quirinale e le formalità erano già tutte pronte”. Diversamente è andata nel 2011. Quando, dopo le dimissioni di Silvio Berlusconi, “Re Giorgio” conferì l’incarico a Mario Monti, con buona pace del segretario del Pd Pier Luigi Bersani che auspicava un ritorno alle urne.     

OMBRE DAL PASSATO - Il protagonismo di Napolitano non è comunque una novità. L’uomo è fatto così, lo dimostra la sua storia politica. Che si parli di Prima o Seconda Repubblica, lui è rimasto sempre lì, al centro della scena. Tessitore di trame oscure, sopravvissuto indenne a qualsiasi terremoto politico. Esponente dell’ala “migliorista” del partito, la corrente ispirata ai principi del socialismo europeo, con Enrico Berlinguer segretario Napolitano fu il leader dei riformisti del Pci, che già prima dello strappo con Mosca del 1980 avevano scelto la socialdemocrazia battendosi per il dialogo con i socialisti di Bettino Craxi. Il rapporto fra i due fu lungo e intenso. Tanto che ad un certo punto Napolitano si ritrovò in rotta di collisione con linea di Berlinguer. “Negli ultimi anni di vita di Enrico”, ha ricordato due anni fa l’ultimo segretario del Pci, Achille Occhetto, “collaboravo strettamente con lui e ho potuto vedere l’isolamento in cui era nel gruppo dirigente, anzitutto sulla questione morale. Ricordo che Napolitano la criticò scrivendo che quell’impostazione ci avrebbe isolato dalle altre forze politiche”. Però si sa: in politica nulla è per sempre. E così nel 1994, dopo l’inizio di “Tangentopoli” che per i “miglioristi” fu un incubo (molti dirigenti furono arrestati e processati per tangenti), arrivò Berlusconi. Il resto è storia.

(Articolo scritto l’8 ottobre 2016 per La Notizia)

Caro Pd, attento a Grillo! – da “Il Punto” del 13/07/2012

mercoledì, luglio 18th, 2012

”La gioiosa macchina da guerra” è tornata di colpo un’espressione attuale. Accostata al Partito democratico, che i sondaggi vedono in vantaggio in vista delle elezioni del 2013. Una battuta scherzosa che fu coniata da Achille Occhetto, ultimo segretario del Partito Comunista Italiano e protagonista della “svolta” che portò alla nascita del Pds. Un colloquio, quello intercorso con uno dei principali attori della storia della sinistra italiana, che gli ha permesso di ragionare sul passato e di fare ipotesi sul futuro. Del centrosinistra, ma anche e soprattutto dell’Italia.

Onorevole, se “la gioiosa macchina da guerra” da lei guidata – e di cui recentemente ha negato l’esistenza: «Non c’è mai stata» – non ha superato i crash test, quella con a bordo Pier Luigi Bersani dovrebbe viaggiare spedita. Così non è. Cosa non va nel Pd?
«Il problema del Partito democratico risiede nel suo atto di origine. Si è dato vita ad una semplice fusione a freddo fra apparati, mentre bisognava partire da una costituente programmatica che determinasse una vera e propria contaminazione ideale e politica fra le diverse tradizioni: quella comunista, socialista, del Partito d’Azione e cattolica di sinistra, da cui è animata la società italiana. Soprattutto, andava e va ancora oggi superato il pregiudizio secondo il quale per definirsi liberal bisogna essere moderati: a mio avviso si può essere liberal e al tempo stesso radicali, nel senso alto del termine. Bisogna cioè andare nella direzione del mutamento dell’attuale modello di sviluppo e della finanziarizzazione dell’economia italiana ed europea, sostenendo con forza la costruzione degli Stati Uniti d’Europa. Uno dei punti cardine del programma della “svolta”, di cui non si è tenuto conto. Per fortuna, quando c’è una situazione di crisi, le idee giuste che vengono irrise ritornano a galla».

In molti hanno sottolineato l’esistenza di analogie fra il 1994 e il 2012. Lei invece le ha rigettate: perché?
«Credo che accomunare quanto accaduto diciotto anni fa con ciò che sta succedendo oggi sia una vera e propria idiozia. Nel 1994 eravamo alla fine della prima fase della storia della Repubblica: una situazione segnata dalla grave crisi dei partiti tradizionali, scomparsi sotto la mannaia di Mani pulite. Berlusconi riuscì, grazie ad un inganno mediatico, a presentarsi come “l’uomo nuovo” per il Paese, una figura che non aveva niente a che vedere con il passato. Ciò – come ben sappiamo – non era vero, perché il Cavaliere era figlio dei finanziamenti di Craxi. Il ’94 fu l’inizio di un arco storico che abbiamo definito “Berlusconismo”, che portò delle novità di tipo “dinamico”. Oggi siamo alla fine di questo arco, ma ci troviamo anche di fronte ad una prospettiva diversa, vuota. Credo quindi che coloro che facciano un paragone di questo tipo sbaglino, mettendo a confronto la notte con il giorno».

Casini ha aperto ad un’alleanza fra progressisti e moderati, Vendola ha chiesto che venga ricreato un centrosinistra forte che non escluda Di Pietro. Lei, che sostiene il governatore della Puglia, crede che alla fine si arriverà ad un punto di incontro oppure si darà vita ad una doppia alleanza – Pd e Udc contro Idv e Sel – che rischierebbe di provocare l’ennesima sconfitta?
«Le geometrie fatte a tavolino non tengono conto degli umori della società italiana. In questo Paese è in corso un distacco profondo dalla politica ufficiale, un malcontento che cresce e che rischia di andare esclusivamente nella direzione del voto di protesta. Il vero problema oggi non è quello di anteporre il gioco delle alleanze a tutto il resto, ma di concentrarsi sui programmi, di dire sulla base di quale progetto si vuole correre insieme. In uno scenario come quello che si sta disegnando ultimamente – cioè un centrosinistra dove ci sia solo il centro e non la sinistra – verrebbero a mancare valore e peso; la vera questione è far venir fuori dall’arco del centrosinistra idee capaci di intercettare il disagio e le aspirazioni del popolo italiano».

Parlava di «malcontento che cresce e che rischia di andare esclusivamente nella direzione del voto di protesta». Il pensiero corre a Beppe Grillo. Crede che ci sia la reale possibilità di veder trionfare il Movimento 5 Stelle alle prossime elezioni?
«Qualora non ci fosse un atteggiamento come quello che ho descritto poc’anzi, il Movimento di Beppe Grillo potrebbe fare del male, intercettando il malcontento popolare.Si potrebbe creare una situazione in cui Pdl e Pd perdano voti rispetto alla popolazione, ma i democratici riuscirebbero comunque ad ottenere una vittoria “fragile”. In una situazione come quella attuale, in cui sono necessarie grandi scelte, Grillo potrebbe creare seri problemi a chi governa ».

«Consiglio a Bersani di mettere insieme tre o quattro idee forti attorno a cui chiamare a raccolta tutto il popolo del centrosinistra », ha detto lei. Se fosse il leader dei democrat, da dove partirebbe?
«Prima di tutto bisognerebbe essere in campo, io non lo sono più da tempo. Però, a mio avviso, bisognerebbe spiegare bene agli italiani il tema del rigore. Mi viene in mente Berlinguer, che fu il primo a parlare di austerità ma rimase inascoltato. Collegati a ciò ci sono altri due elementi: l’equità e la redistribuzione della ricchezza. In Europa e nel mondo abbiamo un aumento spaventoso della concentrazione della ricchezza in pochissime mani: si parla addirittura di trecento famiglie che possiedono più di tutto il resto della popolazione mondiale. L’altra faccia della medaglia è un aumento delle condizioni di povertà. Un reale mutamento del modello di sviluppo deve necessariamente passare attraverso l’amalgama di questi due elementi, uscendo dalla dittatura finanziaria delle banche».

Del Pd appare poco chiaro un aspetto: il partito aveva la possibilità di vincere le elezioni dopo la caduta di Berlusconi, ma ha scelto di appoggiare l’esecutivo tecnico di Monti. Lei come ha interpretato questa decisione?
«L’errore è stato commesso un anno prima, quando c’era la possibilità di sferrare il colpo finale e far cadere Berlusconi. Invece si è tergiversato, e in poco tempo siamo rimasti vittima di questo “folletto malizioso” che si chiama spread. Vincendo in quel momento si sarebbero potuti affrontare per tempo i problemi della crisi finanziaria. Nel momento in cui, pochi mesi fa, il Cavaliere ha rassegnato le dimissioni, non so neanche io cosa si potesse fare. Ci sono stati due/tre giorni di terrore, il ricorso a Monti era in quel momento necessario. Ciò che mi lascia perplessoè il fatto che dopo una prima fase di tamponamento si sia andati avanti con un ulteriore tamponamento: in questo modo l’organismo deperisce. Si sta continuando a scaricare sui “soliti noti” ciò che non va».

Massimo D’Alema ha parlato di Monti come di «un liberale con posizioni compatibili con il nostro orizzonte programmatico». Da chi ha alle spalle una storia come la sua, parole del genere sono suonate leggermente stonate. Crede che l’ex Commissario europeo possa essere il presidente del Consiglio ideale anche per la prossima legislatura?
«Evidentemente D’Alema conosce il vero orizzonte programmatico del Pd, cosa che sfugge ai più. Da quanto mi risulta ce ne sono almeno tre o quattro. L’eventuale rielezione di Monti non si può scindere dalla valutazione dei processi sul campo. Se andiamo avanti con l’attuale situazione di malcontento andremo incontro a forti tensioni sociali che renderanno difficile la sua ricollocazione al governo. Arriveremo ad un punto in cui la scelta tra un’ipotesi organica di centrosinistra – con una vera prospettiva di rinnovamento programmatico – ed il centrodestra diventerà inevitabile»

Matteo Renzi chiede la “rottamazione” dell’establishment del Partito Democratico: da Veltroni a Rosy Bindi, da Enrico Letta a D’Alema. Crede che quella del sindaco di Firenze sia una proposta a cui dare seguito?
«Ritengo che Renzi abbia ragione a proporre il mutamento di una classe politica che è lì da sempre e che non si smuove, qualsiasi cosa faccia. Il torto risiede però nel fatto di porre la questione soltanto in termini anagrafici. Lui più volte ha detto che “Tizio, Caio e Sempronio hanno fatto bene”, ma che “data l’età devono andarsene”. Io l’ho anticipato, mi sono “rottamato” molto prima. A parte ciò, credo che Renzi faccia meglio a dire dove si è sbagliato, e in quale direzione si deve andare. C’è un’altra cosa che non mi convince di lui: apprezzo che sia un liberal, ma ciò non vuol dire coniugare questa idea solo con il moderatismo. È possibile – e la tradizione italiana lo dimostra con i Salvemini, i Gobetti, i fratelli Rosselli – coniugare come ho detto prima la visione liberal con quella radical, di mutamento effettivo del modello sviluppo. E in questo senso, a differenza di Renzi, non si può stare con Marchionne».

Crede che Renzi abbia sbagliato partito?
«Ci sono due considerazioni da fare: Renzi ha sbagliato partito e il partito ha sbagliato se stesso, perché non è riuscito in quello che doveva essere il capolavoro di un partito democratico. Ovvero far sì che uomini onesti provenienti dalla tradizione cattolica potessero convivere in una sintesi più alta con quella socialista».

Berlusconi ieri e oggi. C’è chi consiglia al Cavaliere di fare «il padre nobile» del centrodestra, ma lui sembra non voler sentir parlare di pensionamento politico. Si aspetta l’ennesimo colpo di teatro, una nuova “discesa in campo” magari dopo aver ripulito il partito dai dissidenti?
«Berlusconi è un leone in gabbia che cerca il pertugio dal quale poter uscire. È ovvio che pensi ad un colpo di teatro. Bisogna però capire se lui aspiri a fare “il padre nobile” del Pdl – il che è legittimo – oppure stia cercando lo slancio per ritornare in sella come in passato. In questo senso, credo che la sua sia solo un’illusione».

Dove, a suo avviso, il Cavaliere ha fallito?
«Berlusconi ha commesso tre errori. Il primo: ha pensato di governare unendo forze eterogenee, una con vocazione nazionalista, l’altra scissionista; il secondo: i conflitti di interesse e le vicende private hanno preso il sopravvento su tutto il resto; quest’ultimo aspetto porta alla terza considerazione: la “repubblica dei cittadini” è stata sovrastata dagli interessi personali e di partito. Insomma, è stato tutto il contrario di tutto, cioè di quanto lui ha promesso nel 1994».

In un quadro come quello che abbiamo finora analizzato ci sono importanti riforme istituzionali da fare. Lo stallo sulla legge elettorale è imbarazzante: lei per quale tipo di sistema opterebbe?
«Se vengono messe avanti questioni che in questi pochi mesi non si possono realizzare, temo che si rischi di lasciare immutata la situazione, in cui c’è una vergogna che si chiama “Porcellum” che non permette ai cittadini di scegliere i propri rappresentanti. Io dico che sarebbe più opportuno fare “meno ma meglio”: la necessità è quella di mettersi d’accordo per abolire l’attuale sistema. Se si guarda in prospettiva, invece, ritengo che il doppio turno alla francese sia la soluzione migliore».

Twitter: @GiorgioVelardi