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Unioni civili, opposizioni all’attacco: “Potevamo votare gli emendamenti in due giorni ma il Pd ha avuto paura”

lunedì, febbraio 22nd, 2016

È quanto sostiene il capogruppo di Forza Italia a Palazzo Madama, Romani. Mentre per Airola (M5S) ne sarebbero serviti “quattro al massimo, compreso il weekend”. D’accordo anche il leghista Calderoli: “Senza ostruzionismi e contingentando i tempi si poteva fare in fretta”. Accuse che i dem rispediscono al mittente. Pini: “Senza il canguro serviranno 135 giorni”

Senato - ddl Unioni CiviliIl capogruppo di Forza Italia al Senato, Paolo Romani, lo dice sicuro: “Per votare tutti gli emendamenti rimasti al ddl Cirinnà, circa 750 sommando quelli delle opposizioni dopo il ritiro delle migliaia presentati della Lega Nord, ci avremmo impiegato due giorni al massimo. Anche perché nessuno di noi – ci tiene a precisare contattato da ilfattoquotidiano.it – si sarebbe messo a fare ostruzionismo”. Quindi “diciamoci le cose come stanno: il ‘canguro’ è figlio della paura tutta interna al Partito democratico sui numerosi voti segreti. Siccome sarebbero andati sotto hanno preferito rimandare la discussione alla prossima settimana”. Dopo lo slittamento al 24 febbraio del disegno di legge sulle unioni civili, a Palazzo Madama non si placano le polemiche fra opposti schieramenti. Ma non solo. Infatti, ieri ci ha pensato la ‘madre’ del testo, la senatrice Monica Cirinnà, a dare fuoco alle polveri puntando il dito addirittura contro alcuni esponenti del suo stesso partito. “Pago le ripicche di certi renziani che volevano un premietto”, le parole riportate dal Corriere della Sera in un’intervista che però la stessa Cirinnà ha poi smentito di aver rilasciato. Solo uno sfogo con alcuni attivisti Lgbt nel Transatlantico del Senato, a quanto pare. Ma tanto è bastato per lasciare i toni sopra il livello di guardia. E provocare le reazioni non proprio al miele di alcuni pezzi da novanta del Pd, fra cui il capogruppo dei senatori, Luigi Zanda (“no alle insinuazioni infondate”, ha scandito tranchant).

Se il Pd si ritrova ora con la patata bollente fra le mani, decidere, cioè, se stralciare o meno la stepchild adoption, la ferma convinzione delle opposizioni resta una e una sola: la mossa del renziano Andrea Marcucci, ovvero quella di presentare un emendamento ‘taglia emendamenti’, è stata dettata proprio dalla frattura tutta interna al partito del segretario-premier Matteo Renzi. E da nessun altro motivo. “Romani dice che sarebbero bastati due giorni per votare gli emendamenti? Io voglio tenermi un po’ più largo: dico quattro al massimo, weekend compreso – afferma il senatore Alberto Airola del Movimento 5 Stelle –. Insomma, era una partita che si sarebbe potuta concludere già questa settimana, ma il Pd ha avuto paura e ha preferito fare marcia indietro. Cosa che invece non è successa in precedenti occasioni, quando i numeri erano dalla loro”. In che senso? “Ricordo una giornata, mi pare stessimo discutendo in Aula del ddl Boschi, nella quale abbiamo votato ben 900 emendamenti”. Lo ripete, scandendo bene la cifra: “No-ve-cen-to emendamenti. E non potevamo votarne circa duecento in meno in quattro giorni? Dai, non scherziamo…”.

Più cauto sui tempi, invece, Roberto Calderoli (Lega Nord). “Mi sembra difficile fare previsioni: per votare un singolo emendamento – dice il vicepresidente del Senato – ci possono volere cinque minuti come cinque ore. Poi è normale: senza ostruzionismi e contingentando i tempi si può anche fare in fretta”. La cosa certa, aggiunge Calderoli, è che “per il Pd l’emendamento Marcucci si è rivelato un boomerang”. Così “ora, se questo verrà spacchettato e i centristi voteranno contro solo sul canguro legato all’articolo 3 (quello su diritti e doveri derivanti dall’unione civile tra persone dello stesso sesso, ndr) e all’articolo 5 (sulla stepchild adoption, ndr), verrà meno il necessario sostegno del M5S, di Sel, dei bersaniani e dei giovani turchi del Pd. L’unica soluzione logica – conclude – sarebbe quella di ritirarlo, ma alla fine lo faranno dichiarare inammissibile dal presidente Grasso, come da me richiesto ieri mattina. Hanno combinato proprio un bel casino…”. Dal Nazareno, però, le accuse vengono rispedite al mittente. Tanto che su Facebook Giuditta Pini (Pd) scrive: “Per votare tutti gli emendamenti ci vorrebbero 77.700 minuti”, cioè “54 giorni”. E “questo – aggiunge – se il Senato lavorasse 24 ore al giorno per quasi due mesi, senza dormire, senza mangiare, senza fare altro. Quindi una stima probabile potrebbe essere 135 giorni”. Il motivo? “Il ddl costituzionale era un ddl governativo che aveva un contingentamento dei tempi (non si poteva parlare più di tot minuti a gruppo)” mentre “il ddl Cirinnà non ha alcun contingentamento. L’emendamento Marcucci – conclude – serviva semplicemente ad evitare tutto questo”.

Ma andiamo avanti. “La legge deve passare”, dice ailfattoquotidiano.it la senatrice dem Rosa Maria Di Giorgi, apertamente contraria alla stepchild adoption così come un altro gruppo di colleghi di partito. “Poco importa – aggiunge – se ci vorrà una settimana in più o in meno. Però dev’essere chiara una cosa: sul ddl Cirinnà io e i miei compagni del Pd, che su alcuni punti del provvedimento la pensiamo diversamente dalla maggioranza, dobbiamo poter esercitare la libertà di coscienza che il nostro segretario ci ha lasciato”. Quindi “l’articolo 5, quello sulla stepchild, sarà votato come tutti gli altri: se avrà i numeri dalla sua parte e passerà ne prenderemo atto”. A prescindere da ciò “serve un confronto, ma da parte nostra non c’è nessuna intenzione né di dilatare i tempi né, tantomeno, di affossare la legge”, chiarisce la Di Giorgi. Quanto alle parole pronunciate dalla Cirinnà al Corriere, che la chiama direttamente in causa (“visto come s’è comportata con me?”), la senatrice afferma: “Monica mi ha inviato un sms ieri mattina alle 7.30 per scusarsi, dicendomi che si è trattato di uno sfogo durante un colloquio con alcuni attivisti Lgbt. Per me è un capitolo chiuso”. Almeno per ora.

Twitter: @GiorgioVelardi

(Articolo scritto il 19 febbraio 2016 per ilfattoquotidiano.it)

Poletti ministro dimezzato dopo il rimpasto: è senza più delega alla famiglia e al Jobs Act

mercoledì, febbraio 3rd, 2016

Ridimensionato dall’ultimo giro di poltrone all’interno del governo. Lui tira dritto e rilancia: “Reddito minimo per un milione di poveri con minori a carico”. Ma l’opposizione ironizza e lo bersaglia. Scotto (Sinistra italiana): “Lo zelo con cui ha affossato l’articolo 18 non ha pagato”. Santelli (Forza Italia): “Sfiduciato di fatto da Renzi”. Ecco i suoi scivoloni da quando è ministro

poletti-675Lui giura di non sentirsi ‘dimezzato’ dall’arrivo a Palazzo Chigi di Tommaso Nannicini, il già consigliere economico di Matteo Renzi promosso, con l’ultimo valzer di poltrone nell’esecutivo, a sottosegretario alla presidenza del Consiglio (seguirà l’attuazione del Jobs Act per i lavoratori autonomi). Anzi, “con Tommaso ho un meraviglioso rapporto di collaborazione, mi fa piacere lavorare con i giovani bocconiani ‘dal volto umano’”. Né gli importa, pare di capire, di aver perso di punto in bianco la delega alla famiglia. Trasferita nelle mani del neo ministro per gli Affari regionali, l’alfaniano Enrico Costa. Che dovrebbe occuparsi di rapporti fra Stato e Regioni. Il tutto pochi giorni prima del Family Day e dell’approdo nell’Aula di Palazzo Madama del discusso ddl Cirinnà sulle unioni civili. Fosse successo nella vituperata prima Repubblica, sarebbero magari seguite dimissioni clamorose per il drastico ridimensionamento. Ma l’ipotesi non sembra nemmeno sfiorare Giuliano Poletti, uscito più malconcio di tutti dai recenti cambiamenti nella squadra di governo. Lui, il ministro del Lavoro, tira dritto come se nulla fosse. Ieri, per dire, approfittando dell’ospitalità sulle pagine di Repubblica, ha provato a dirottare l’attenzione sulla sua ultima fatica. “Una riforma che – ha affermato – vale almeno quanto il Jobs Act”: un reddito minimo di 320 euro al mese per un milione di poveri con minori a carico.

ANDAMENTO LENTO– Insomma, la versione ‘smart’ del reddito di cittadinanza, cavallo di battaglia del Movimento 5 Stelle. Certo è, almeno a sentire i maligni, che la scelta del presidente del Consiglio di ridimensionare ruolo e poteri del suo ministro del Welfare non sembra del tutto casuale. Il motivo? Renzi ha fatto della questione del lavoro uno dei punti salienti della sua agenda di governo ma finora, nonostante i ‘cambiamenti epocali’ annunciati con il Jobs Act (che “sta fallendo nei suoi obiettivi principali”, cioè “promuovere l’occupazione e ridurre la quota di contratti temporanei e atipici”, come ha recentemente rivelato un rapporto di Isi Growth), i numeri della ripresa sono timidi. Nel 2015 sono stati creati circa 115 mila nuovi posti. Ai quali vanno aggiunte le 388 mila trasformazioni da contratti a termine e le 80 mila da apprendistato che però non possono essere considerate come “nuove assunzioni”. Un po’ poco se si considera l’esercito di quasi 7 milioni di persone in cerca di un impiego in giro per l’Italia. La colpa, certo, non è tutta di Poletti. Ma qualcuno dovrà pur risponderne. E il ministro del Lavoro sembra il capro espiatorio perfetto. Anche tenuto conto della lunga serie di gaffes e scivoloni che non hanno certo fatto bene alla sua immagine. A cominciare dal rapporto conflittuale con i numeri, che ad agosto dell’anno scorso gli costarono anche una figuraccia, quando lo stesso ministero del Lavoro fu costretto a correggere i dati sul numero dei nuovi contratti stipulati grazie al Jobs Act: quelli su cessazioni, collaborazioni e apprendistato erano stati calcolati male. Risultato: numeri ridimensionati da 630 mila a 327 mila nei primi sette mesi del 2015.

SENZA GARANZIA – Per non parlare di quella imbarazzante foto che lo ritrae a cena con Salvatore Buzzi, quello che i pubblici ministeri che indagano su ‘Mafia Capitale’ hanno definito come il “braccio destro imprenditoriale” di Massimo Carminati. Banchetto al quale parteciparono, fra gli altri, anche l’ex sindaco di Roma, Gianni Alemanno, più alcuni esponenti del Pd romano. “Sono stufo di essere tirato in ballo per quella foto del 2010 – si è più volte sfogato Poletti –. Come presidente della Lega coop partecipavo a migliaia di iniziative e non potevo conoscere tutti coloro che incontravo”. Uno scatto inopportuno, insomma, ma non solo. Perché a pesare sulla gestione del ministero del Lavoro nell’era Poletti c’è soprattutto la questione legata a Garanzia Giovani, il piano europeo di contrasto alla disoccupazione giovanile che in Italia si sta rivelando un autentico fallimento. Nonostante gli 1,5 miliardi di euro, un quarto dei sei totali, che Bruxelles ha stanziato per il nostro Paese. Con stagisti e tirocinanti che si ritrovano senza stipendio per mesi e il ministero di via Veneto che ammette: “I tempi non sono quelli di un’impresa”. Proprio così. Sta di fatto che molti dei giovani iscritti al programma (944 mila secondo l’ultimo report, di cui poco più della metà presi in carico dai centri per l’impiego) stanno rinunciando. Una vicenda sulla quale anche lo stesso Renzi è stato costretto ad ammettere che le cose non stanno filando lisce come dovrebbero. Per non parlare, poi, dell’uscita che ha fatto tornare in mentre ‘illustri’ predecessori dell’attuale ministro del Lavoro. Ultima in ordine di tempo Elsa Fornero. “La laurea a 28 anni con 110 e lode? Non serve a niente, meglio a 21 con 97”, ha detto Poletti nel corso di una convention a fine novembre. Apriti cielo, una pioggia di polemiche. Tanto che il ministro è stato costretto a correggere il tiro: “Non ho mai pensato che i giovani italiani siano ‘choosy’ o ‘bamboccioni’”. Ma si sa: a volte la toppa è peggio del buco. E gli avversari non hanno mai mancato di farglielo pesare.

BERSAGLIO GROSSO – Anche in queste ore le frecciate si sprecano. Nonostante il rimpasto che lo ha ridimensionato, Poletti continua infatti ad essere uno dei bersagli prediletti delle opposizioni. “Evidentemente lo zelo con il quale il ministro del Lavoro, che è stato leader della cooperazione, ha affossato lo Statuto dei lavoratori abbattendo l’articolo 18 non ha pagato”, ironizza il capogruppo alla Camera di Sinistra Italiana Arturo Scotto. “La delega alla famiglia è stata affidata ad un ministro del Nuovo centrodestra per ammiccare al popolo del family day mentre è in discussione il disegno di legge sulle unioni civili – prosegue –. Allo stesso tempo il Jobs Act è finito direttamente in mano ad un sottosegretario, già consigliere economico del premier, di stretta fiducia di Renzi”. Insomma, conclude Scotto, “Poletti è ormai un ministro dimezzato”. E che esce “sicuramente indebolito da questo rimpasto” anche per Jole Santelli (Forza Italia), ex sottosegretaria al Lavoro del governo di Enrico Letta. “Quello che colpisce – aggiunge la deputata di Fi – è il fatto che ancora una volta Renzi accentri su Palazzo Chigi la gestione dei dossier più spinosi, come il Jobs Act, nominando un fedelissimo come Nannicini e spostando Teresa Bellanova allo Sviluppo economico. È la testimonianza di un’evidente mancanza di fiducia nel suo ministro del Welfare”. Ormai dimezzato e sempre più in ribasso.

(Articolo scritto il 2 febbraio 2016 con Antonio Pitoni per ilfattoquotidiano.it)