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Anche Gentiloni ha la fiducite. Sulle leggi si vota e basta

lunedì, aprile 3rd, 2017

Primo_Consiglio_dei_ministri_del_governo_GentiloniPersino il chiaro atto d’accusa di Pietro Grasso è rimasto inascoltato. Decretazione d’urgenza e voti di fiducia, disse il presidente del Senato pochi giorni prima del referendum costituzionale dello scorso 4 dicembre parlando agli studenti della Luiss, “mortificano il ruolo primario del Parlamento” che fatica a svolgere la propria funzione a causa della “frammentazione politica e del trasformismo”.

Il risultato? Mercoledì, proprio a Palazzo Madama, il Governo di Paolo Gentiloni ha posto l’ennesima questione di fiducia (passata con 145 voti sì e 107 no), stavolta sul cosiddetto decreto legge migranti che prevede l’apertura di nuovi centri di identificazione ed espulsione (Cie) e procedure più rapide per l’espulsione degli immigrati irregolari. Sarà che quello guidato dall’ex ministro degli Esteri è considerato come un Esecutivo “fotocopia” del precedente con a capo Matteo Renzi, fatto sta che l’andazzo è rimasto pressoché identico. Dal 12 dicembre, giorno in cui è entrato in carica, il Governo ha già usato lo strumento della fiducia 6 volte: una media di due al mese, come ha fatto notare Openpolis.

Il confronto – In precedenza, la stessa era già stata posta due volte per il decreto salva banche (sia alla Camera sia al Senato), due volte per il Milleproroghe (anche in questo caso in entrambi i rami del Parlamento) e a Palazzo Madama per l’approvazione del ddl sul codice penale. Non proprio benissimo, se si considera che il rapporto fra voti di fiducia e leggi approvate è al 40% e in questa legislatura ne sono già state poste 82: “solo” 10 sotto il Governo di Enrico Letta, 66 durante quello dell’ex sindaco di Firenze e segretario del Pd e 6 – appunto – da quello di Gentiloni. E potrebbe non essere finita qui se è vero, come riferito nei giorni scorsi da alcuni organi di stampa, che dopo due anni di tira e molla anche il ddl concorrenza si appresta a sbarcare nell’Aula di Palazzo Madama “blindato” dalla fiducia. Staremo a vedere. Quel che è certo, al momento, è che dal quarto Governo di Silvio Berlusconi in poi (2008/2011), soltanto Mario Monti e i “suoi” tecnici avevano raggiunto livelli superiori (45,13%) con una media di 3 al mese.

Oltre i limiti – Insomma, i nostri Esecutivi hanno un evidente problema di “fiducite”. Se n’era accorto, già una decina d’anni fa, pure l’oggi presidente emerito Giorgio Napolitano. Messaggio che l’ex capo dello Stato aveva più volte ribadito prima di passare il testimone a Sergio Mattarella. La fiducia, disse per esempio “Re Giorgio” nel 2011, “non dovrebbe eccedere limiti oltre i quali si verificherebbe una inaccettabile compressione delle prerogative delle Camere”. Com’è andata a finire? Che due anni fa, come noto, il Governo Renzi decise addirittura di porla sulla legge elettorale, quell’Italicum che non solo non è stato “copiato” da mezza Europa (“Matteo” dixit) ma che è stato pure “rottamato” dalla Corte costituzionale, scatenando l’ira sia delle opposizioni sia della minoranza del Pd.

Twitter: @GiorgioVelardi

Articolo scritto il 1 aprile 2017 per La Notizia

Otto marzo, c’è poco da festeggiare. Tra partiti e grandi aziende la parità dei sessi è ancora un miraggio

mercoledì, marzo 8th, 2017

8-marzo-mimosaTrenta per cento. È questa la quota di donne in alcuni dei luoghi che contano della politica (non solo quella italiana) e dell’economia. Certo, si tratta di numeri in crescita rispetto al passato, come ha rivelato l’ultimo dossier di Openpolis dal titolo “Trova l’intrusa”. Ma se dal mero dato quantitativo, chiarisce l’associazione, si passa all’aspetto qualitativo le cose cambiano parecchio. Così, analizzando le varie situazioni, si scopre per esempio che se da un lato è vero che alle ultime amministrative due donne, Virginia Raggi e Chiara Appendino (entrambe del Movimento 5 Stelle), sono state elette sindache di importanti città come Roma e Torino, dall’altro nei 106 capoluoghi di provincia le prime cittadine sono appena 9, l’8,4%. La parità, nonostante slogan e buoni propositi, resta dunque un miraggio.

Prendiamo il Parlamento. La legislatura in corso è quella che ha visto la maggior presenza femminile di sempre. Alla Camera le deputate sono il 31,30% del totale degli eletti, ma quelle che occupano poltrone “di peso” sono il 19,23%. Al Senato le cose viaggiano sulla stessa lunghezza d’onda. La presenza di quote rosa fra gli scranni scende infatti al 29,6% mentre aumenta il numero di quelle che ricoprono incarichi importanti: 25,58%. Un po’ poco, obiettivamente, rispetto a quelli appannaggio dei colleghi maschi.

Indietro tutta – Che dire poi del Governo? Se tre anni fa quello guidato da Matteo Renzi faceva registrare una percentuale femminile del 26,23% (16 su 61 tra ministri, viceministri e sottosegretari), Paolo Gentiloni è partito senza scelte eclatanti in fatto di parità, con il 27,78% di ministre: 5 su 18 di cui due senza portafoglio. Questo vuol dire che nel Consiglio dei ministri il 40% dei ministri senza portafoglio è donna; le viceministre sono il 14,29% del totale mentre tra i sottosegretari il 31,43% è donna. La musica non cambia nemmeno nelle giunte e nei consigli regionali, fa notare ancora Openpolis. Le governatrici sono appena 2, Debora Serracchiani (Friuli-Venezia, Pd) e Catiuscia Marini (Umbria, Pd), e le donne restano lontane dalla gestione dei capitoli più importanti. Le assessore sono infatti molto più rare nelle tre materie che compongono la quasi totalità dei budget regionali: bilancio (dove sono appena il 15%), urbanistica, infrastrutture e trasporti (24%) e sanità (25%).

Fuorigioco – Ma non c’è solo la politica. Un capitolo a parte meritano infatti anche le grandi aziende e i loro consigli di amministrazione (Cda). Lo scorso anno, ha calcolato l’associazione, le donne sono arrivate ad occupare 687 poltrone in Cda e organi di controllo. Un record se, come detto precedentemente, si guarda esclusivamente al dato numerico. Scavando si scopre però che in queste realtà le donne hanno per lo più incarichi non esecutivi: nel 68,56% dei casi si tratta di amministratrici indipendenti, quindi di figure non legate ai dirigenti esecutivi o agli azionisti, chiamate a vigilare nel solo interesse della società. Man mano che si sale al vertice, per di più, queste diminuiscono: solo il 3% è presidente o presidente onorario e solo il 2,47% amministratrice delegata. Si tratta di un problema che non riguarda solo l’Italia, sia chiaro. Ecco perché, purtroppo, c’è ancora poco da festeggiare.

Twitter: @GiorgioVelardi

Articolo scritto il 7 marzo 2017 per La Notizia

Rivive il Patto del Nazareno per sbloccare lo stallo sulla legge elettorale. Pd e Forza Italia verso un nuovo accordo

lunedì, marzo 6th, 2017

Renzi-BerlusconiUn nuovo patto tra Pd e Forza Italia, anche se “è meglio non scomodare il Nazareno” perché “sappiamo com’è andata a finire…”. Sarà. Certo è che l’indiscrezione raccolta da La Notizia farebbe pensare alla riedizione plastica del famoso accordo stretto il 18 gennaio 2014 nella sede del Pd fra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi. Per andare al sodo bisogna prima riavvolgere il nastro tornando al 12 dicembre scorso, giorno della nomina di Anna Finocchiaro a ministro per i Rapporti con il Parlamento del “nuovo” Governo Gentiloni. Nomina arrivata dopo la vittoria del No al referendum che ha lasciato vuota l’importante casella di presidente della commissione Affari costituzionali di Palazzo Madama.

La sostituzione della Finocchiaro sarebbe dovuta arrivare in tempi rapidissimi, complice la voglia dell’ex premier di approvare una nuova legge elettorale per tornare al voto il prima possibile. Poi però le cose sono andate diversamente: la Consulta che ha “smontato” l’Italicum, il pressing di Bruxelles sui conti pubblici, l’inchiesta Consip che coinvolge il padre di Renzi e il suo braccio destro Luca Lotti. Senza dimenticare, ultima in ordine di tempo, la scissione dentro al Pd, arrivata a complicare ulteriormente i giochi proprio dentro la prima commissione del Senato.

Ballando al buio – Non è un mistero, come avevamo già raccontato, che il Pd voglia piazzare su quella poltrona uno fra Roberto Cociancich, Stefano Collina e Francesco Russo. Mentre gli scissionisti di Mdp, rimasti in maggioranza, hanno intenzione di riproporre il nome di Doris Lo Moro, che insieme a Maurizio Migliavacca siede in commissione (Miguel Gotor è uscito due giorni fa perché il neonato gruppo ha diritto a due soli posti). Qui viene il bello: i membri della commissione sono 27 ma la maggioranza – Pd più alleati – si ferma a 13, contando pure Lo Moro e Migliavacca. Senza di loro si scende a 11. Ecco quindi entrare in gioco Forza Italia. “Si potrebbe raggiungere un accordo fra noi e il Pd”, rivela un importante parlamentare berlusconiano. Un accordo che permetterebbe ai dem di portare a casa la guida dell’organismo scongiurando i pericoli che potrebbero scaturire dai mal di pancia dei due esponenti di Mdp. Il tutto con un presupposto: “Non siamo disponibili a trattare al buio”, chiarisce l’azzurro. Tradotto: il testo della nuova legge elettorale dovrà essere condiviso e condivisibile.

Tutti per uno – Un particolare mica da ridere, vista la posizione di Berlusconi per il quale “non c’è nessuna alternativa al proporzionale”. Mentre Renzi, dopo la bocciatura dell’Italicum, ha rilanciato il Mattarellum. Calcolatrice alla mano, in Affari costituzionali FI conta 3 membri: Claudio FazzoneAnna Maria Bernini e Lucio Malan. E, guarda caso, 11 più tre fa 14: cioè la maggioranza. Certo, i verdiniani Riccardo Mazzoni e Antonio Milo sono pronti al soccorso, ma a quel punto Movimento 5 Stelle e Mdp alzerebbero le barricate. Ecco perché alla fine il “delitto perfetto” potrebbe essere nientemeno che la resurrezione del Nazareno.

Twitter: @GiorgioVelardi

Articolo scritto il 4 marzo 2017 per La Notizia

Da Boccia a Chaouki e Lumia: ecco la squadra di Emiliano

mercoledì, marzo 1st, 2017

Michele_EmilianoHa deciso di rimanere nel Pd e correre per la guida della segreteria, giocando una partita senza esclusione di colpi. Come dimostrano le parole pronunciate non più tardi di 48 ore fa, quando ha detto tranchant che se qualcuno vuole togliersi dai piedi Matteo Renzi allora deve votare per lui. Lui è Michele Emiliano, governatore della Puglia che proprio non ci sta a fare l’agnello sacrificale lasciando campo libero all’ex premier e segretario dem uscente e al ministro della Giustizia Andrea Orlando. Anzi.

Così, come pure i suoi sfidanti, l’ex sindaco di Bari sta organizzando le truppe in vista della battaglia congressuale. Truppe che saranno formate da parlamentari, governatori, consiglieri regionali. Più la cosiddetta “società civile”. In molti per adesso non vogliono esporsi pubblicamente, anche perché la presentazione delle candidature alla segreteria scadrà il 6 marzo e non si possono commettere errori. Quel che è certo è che a tirare la volata del presidente pugliese c’è un pezzo da novanta del partito come Francesco Boccia, numero uno della commissione Bilancio di Montecitorio, secondo il quale “con Emiliano segretario del Pd tutte le anime della sinistra possono tornare a casa”. Schierato col governatore c’è anche un altro barese doc come Dario Ginefra, di cui il 5 giugno 2016 Emiliano, particolare succoso, è stato testimone di nozze.

Terza via – Non solo. Sempre dalla Camera arrivano anche altri quattro nomi. Si tratta di Simone Valiante (vicino all’ex ministro dell’Istruzione Giuseppe Fioroni), Antonio Castricone, Colomba Mongiello, pure lei pugliese, e Khalid Chaouki. Nome, quest’ultimo, che ha sorpreso non pochi, visto che nel mare magnum delle correnti del Pd il deputato di origine marocchina “nuota” in quella dei Giovani Turchi – o Rifare l’Italia – capitanata da Matteo Orfini e Orlando. Sarebbe stato logico, quindi, immaginare un suo appoggio a Renzi o al Guardasigilli. Invece Chaouki ha scelto la “terza via”. Poi, come detto, ci sono i governatori. Due in questo caso i nomi caldi, fra conferme e smentite: quelli di Mario Oliverio (Calabria), su cui però aleggia il punto interrogativo, e Rosario Crocetta, numero uno della Sicilia. In un primo tempo era stato tirato in ballo anche Nicola Zingaretti (Lazio), che però ha annunciato il proprio sostegno a Orlando. Un secco “no” è arrivato pure da Sergio Chiamparino (Piemonte): “Emiliano mi appare come l’altra faccia di Renzi, ne è speculare nell’idea che sembra avere della leadership”.   

In marcia – Dalla Sicilia vengono anche Pino Apprendi e il potente senatore della commissione Antimafia Giuseppe “Beppe” Lumia. Il primo, deputato dell’Ars, presiederà il comitato elettorale di Emiliano sull’Isola. Secondo quanto riferito a La Notizia da più fonti, anche il parlamentare, inseparabile di Crocetta, farà il “portatore d’acqua” per il presidente pugliese. In attesa che altri sposino la sua causa.

Articolo scritto il 1° marzo 2017 per La Notizia

Tutti gli uomini di Andrea Orlando. Da Zingaretti a Bettini, ecco le truppe per tentare l’assalto al Pd

sabato, febbraio 25th, 2017

ministro_ORLANDO_0Andrea Orlando gioca per vincere. “Arriverò primo e dico al secondo e al terzo: non vi preoccupate perché non sarò il capo della mia corrente ma il segretario del Pd”, sono state le parole pronunciate ieri dal ministro della Giustizia al circolo Pd Marconi, dove ha lanciato ufficialmente la sua candidatura alla segreteria. Ora però la domanda sorge spontanea: con i renziani pronti da tempo alla battaglia congressuale e col governatore della Puglia Michele Emiliano che sta organizzando le truppe, chi sosterrà la corsa del “silenzioso” Andrea?

I nomi, a dire il vero, sono già molti. Anche perché, come ha spiegato a La Notizia un parlamentare dem che conosce bene il Guardasigilli, “Renzi è popolare fra la gente” ma “bisogna vedere se dopo quello che è successo il 4 dicembre ha ancora i numeri dentro al partito”. I primi endorsement per Orlando sono parecchio “pesanti”, visto che arrivano dal governatore della Regione Lazio, Nicola Zingaretti (“Dobbiamo cambiare il partito e serve un segretario che unisca”, ha scritto su Facebook), e da Goffredo Bettini, già stratega della candidatura di Rutelli e braccio destro di Veltroni. “Tradito” dall’altro leader dei Giovani Turchi Matteo Orfini, il numero uno di via Arenula può comunque contare su buona parte dei componenti della corrente che guida.

Turchi in movimento – A cominciare dall’ex assessore ai Trasporti del Comune di Roma Stefano Esposito e dall’ex tesoriere del partito Antonio Misiani, passando per Valeria Valente (candidata a sindaco di Napoli alle ultime amministrative) e Daniele Marantelli. Senza dimenticare la sottosegretaria all’Ambiente Silvia Velo, il vicepresidente della commissione Agricoltura di Montecitorio Massimo Fiorio, Anna Rossomando, Antonio Boccuzzi e Michele Bordo, quest’ultimo presidente della commissione per le Politiche Ue della Camera. Ma non solo. A sostegno del ministro si sono infatti già schierati anche Michele MetaMarco Miccoli, Anna Giacobbe (deputata ligure ed ex segretaria della Cgil regionale) e Massimiliano Valeriani, capogruppo dem nel Consiglio regionale del Lazio.

Senza alternativa – Secondo quanto hanno riferito a La Notizia fonti interna al Pd, inoltre, anche la sottosegretaria all’Economia Paola De Micheli – già lettiana – sembra intenzionata a schierarsi con Orlando. Così come Gianni Cuperlo e Andrea De Maria, che hanno convocato un’assemblea per il 4 marzo ma che di fatto, vista anche la posizione di Cesare Damiano (schierato col Guardasigilli), non hanno altra scelta se non quella di sposare la causa di “Andrea”. Stessa cosa faranno anche l’ex ministra Barbara Pollastrini e le deputate Liliana Ventricelli ed Elisa Simoni. Molti si chiedono poi se e quando arriverà l’endorsement più pesante, quello di Giorgio Napolitano, che il 16 dicembre scorso ha passeggiato a braccetto nel salone Garibaldi del Senato proprio con Orlando. Vedremo.

Twitter: @GiorgioVelardi

Articolo scritto il 24 febbraio 2017 per La Notizia

La scissione costa cara a Renzi. D’Alema e compagni già volano nei sondaggi: così Matteo rischia grosso

sabato, febbraio 18th, 2017

dalemaGraziano Delrio, uno dei fedelissimi dell’ex premier Matteo Renzi, è stato in qualche modo profetico. “La scissione è una scelta tragica”, ha detto il ministro dei Trasporti dopo l’infuocata direzione del Partito democratico di lunedì scorso, perché “butta all’aria gli sforzi di tante persone, è una responsabilità enorme che ci si prende sulle spalle”. Ed è proprio così. Perché a sentire alcuni tra i principali sondaggisti del nostro Paese, un Pd senza la minoranza dei vari Pier Luigi Bersani, Roberto Speranza e Massimo D’Alema tanto invisa all’ex sindaco di Firenze rischia di portare i dem ad ambire al gradino più basso del podio in vista delle prossime elezioni Politiche. Una dura botta per le sfrenate ambizioni del rottamatore, che punta a riprendersi Palazzo Chigi. Ma andiamo con ordine.

Se il Movimento 5 Stelle oscilla ancora fra il 28 e il 30% nonostante i guai che attanagliano la giunta romana di Virginia Raggi, e un Centrodestra con Forza Italia, Lega Nord e Fratelli d’Italia riuniti sotto lo stesso tetto nonostante la diversità di vedute potrebbe addirittura giocarsela alla pari con i pentastellati (molto conterà ovviamente con che tipo di legge elettorale si andrà a votare), l’addio della costola “sinistra” del partito del Nazareno provocherebbe un’emorragia importante. Tanto che al collo dei dem finirebbe addirittura una simbolica quanto inutile medaglia di bronzo. “Secondo le rilevazioni che abbiamo effettuato negli ultimi giorni”, dice a La Notizia Carlo Buttaroni, presidente e direttore scientifico di Tecnè, “l’area di sinistra alla quale possiamo oggi ascrivere i vari Bersani, Michele Emiliano e D’Alema vale circa il 14%”.

Inutile stampella – Certo, ammette Buttaroni, “stiamo ragionando senza un’offerta politica concreta, che ad oggi potremmo quasi definire ‘immaginifica’”. Però i numeri parlano chiaro. Ancora di più se la “stampella” del Campo progressista di Giuliano Pisapia rischia di non riuscire a colmare il vuoto lasciato dagli scissionisti. “A Milano, Pisapia ha sempre goduto di un alto gradimento, ma trasformare la sua popolarità in consenso politico – conclude il numero uno di Tecnè – non sarà facile”.

Tutti dentro – Anche per Ipr Marketing la fuoriuscita della minoranza avrebbe effetti dolorosi per il Pd. “Un partito di sinistra che comprende al suo interno pure il progetto di Vendola e Fratoianni”, rivela il direttore Antonio Noto, “vale oggi fra il 10 e l’11%. Il Pd? Si fermerebbe al 22%”. Ben lontano dai fasti del 40,8% raccolto alle Europee del 2014. “Così facendo i dem rischiano di arrivare dietro al Centrodestra unito e al M5s”, fa notare il numero uno di Ipr, “anche se molto dipenderà dal tipo di legge elettorale che partorirà il Parlamento”. Perdite più contenute, invece, secondo Emg Acqua, l’istituto diretto da Fabrizio Masia. Che ieri a Repubblica ha spiegato che con la scissione il Pd perderebbe il 4%, percentuale che però potrebbe salire fino al 10-12%. Renzi è avvisato.

Twitter: @GiorgioVelardi

Articolo scritto il 17 febbraio 2017 per La Notizia

Renzi, Verdini, Trump. Chi ha vinto e chi ha perso in questo 2016

sabato, dicembre 31st, 2016

IMG_9940Alcuni lo ricorderanno come un anno a dir poco paradisiaco, altri ancora come quello delle grandi occasioni mancate. Dodici mesi vissuti in una sorta di purgatorio, insomma. Per qualcun altro, invece, sarà semplicemente da cancellare perché è stato un vero e proprio inferno. Meglio voltare pagina e farlo in fretta. Quando mancano poche ore alla fine del 2016 è possibile tracciare un bilancio di quali siano stati i top e i flop in politica, sport, musica, cinema. Gli avvenimenti che hanno caratterizzato il 2016, da gennaio fino a dicembre, del resto, sono stati numerosi. In Italia c’è stato il referendum costituzionale, ma anche le elezioni Amministrative che hanno visto la vittoria del Movimento 5 Stelle a Roma e Torino (con risultati ad oggi contrastanti). Mentre a livello internazionale l’evento clou sono state senza ombra di dubbio le elezioni americane, che hanno incoronato il repubblicano Donald Trump. Ma non solo. La vittoria del Leicester di Claudio Ranieri in Premier League e quella di tanti atleti azzurri a Rio 2016 – due nomi su tutti: Niccolò Campriani e “Bebe” Vio – fanno da contraltare al flop di Federica Pellegrini. Ecco vincitori e vinti di questo 2016.

INFERNO – Il flop dell’anno è indubbiamente quello dell’ex sindaco di Firenze ed ex presidente del Consiglio Matteo Renzi, che aveva puntato tutte le sue fiches sul referendum costituzionale del 4 dicembre scorso. Com’è andata a finire è cosa nota. Oggi da segretario del Pd si aggira per le corsie del supermercato con il carrello della spesa al seguito, ma lo rivedremo nel 2017, questo è poco ma sicuro. Chi invece non è mai sparita dai radar è Maria Elena Boschi, un’altra delle grandi sconfitte del 2016 (i motivi sono gli stessi dell’ex premier). L’ex ministra delle Riforme è diventata sottosegretaria alla presidenza del Consiglio del Governo di Paolo Gentiloni. Insomma, è praticamente uscita dalla porta e rientrata dalla finestra. Che dire poi di Giorgio Napolitano? Il presidente emerito della Repubblica, un altro dei “padri” del ddl Boschi, sperava nel successo del Sì al referendum. Poi, metabolizzata la batosta, ha ammesso: “Con il No ho perso anch’io”. Averlo capito è già qualcosa. A Roberto Benigni, invece, è costata cara la giravolta in corso d’opera. All’inizio era “orientato a votare No”, poi si è schierato con Renzi e soci: non gli è andata bene. Virginia Raggi (M5S), prima sindaca donna della Capitale, doveva invece rivoltare Roma come un pedalino. Ma fra perquisizioni, arresti e una città bloccata non si può certo dire che ci stia riuscendo. Capitolo ministri. I nomi sono quelli di Federica Guidi e Giuliano Poletti. La prima è stata costretta a dimettersi ad aprile per la vicenda “Tempa Rossa”; sul secondo, dopo due gaffe nel giro di pochi giorni – le dichiarazioni sul voto anticipato per scongiurare il referendum sul Jobs Act e quelle, peggiori, sui giovani italiani che vanno all’estero – pende una mozione di sfiducia che pure la minoranza dem minaccia di votare. Altra grande sconfitta del 2016 è Hillary Clinton: doveva diventare la prima donna alla Casa Bianca, ma gli Usa le hanno preferito Trump. Non possiamo certo dimenticarci, infine, di Lapo Elkann e Federica Pellegrini. A fine novembre, il primo è stato arrestato a New York per aver simulato un sequestro dopo un festino a base di coca e sesso. Alle Olimpiadi di Rio, “Federica” doveva portare a casa almeno una medaglia. È tornata a mani vuote e con i nervi a fior di pelle. Di più: nei giorni scorsi è stata pure ufficializzata la crisi col fidanzato Filippo Magnini.

PURGATORIO – Ma c’è anche chi ha vissuto un anno in chiaroscuro. Né vincitore né vinto. È il caso di Denis Verdini, che col neonato gruppo Ala ha fatto da stampella al fu Governo Renzi per poi rimanere a bocca asciutta al momento di riempire le caselle dell’Esecutivo “fotocopia” di Gentiloni. Non è comunque detta l’ultima parola: l’appoggio esterno dei suoi può sempre tornare utile. È stato un 2016 dal sapore agrodolce anche per la coppia d’oro del M5S, quella formata da Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista. In prima linea durante la campagna elettorale per il referendum, entrambi si sono ritrovati loro malgrado invischiati nell’affaire Raggi (soprattutto dopo l’arresto di Raffaele Marra), stretti nella morsa delle correnti che stanno agitando i pentastellati e che vogliono minarne la scalata alla leadership. Anche Silvio Berlusconi può sorridere a metà. Ringalluzzito dalla vittoria del No il 4 dicembre – ma non gli sarebbe dispiaciuto un successo del Sì – l’ex premier è tornato ad occupare ancor più insistentemente le pagine dei giornali grazie al tentativo di scalata di Mediaset da parte di Vivendi. La doccia gelata per l’inquilino di Arcore è però arrivata lo scorso 15 dicembre. Giorno in cui il procuratore aggiunto di Milano Pietro Forno e i pm Tiziana Siciliano e Luca Gaglio hanno ribadito davanti al gup Carlo Ottone De Marchi la richiesta di rinvio a giudizio per il Cavaliere, accusato di corruzione in atti giudiziari nel processo “Ruby ter”. E Gianni Cuperlo? Anche a lui l’anno poteva andare meglio. Prima oppositore di Renzi, poi sostenitori del Sì al ddl Boschi, infine di nuovo picconatore: “Il Pd senza congresso è morto, è un partito senz’anima”. Sarebbe bastato accorgersene prima. Negli Usa, invece, Barack Obama sognava un’uscita di scena sicuramente diversa. Sperava, soprattutto, di lasciare le chiavi dello Studio ovale alla Clinton. Invece ha dovuto ammettere che forse la candidata democratica non è stata capace “di farsi vedere ovunque”. A chi poteva andare meglio in ambito sportivo? Sicuramente a José Mourinho, Vincenzo Nibali, Alex Schwazer e Lionel Messi.

PARADISO – Tra i vincitori dell’anno che sta per volgere al termine figura senz’altro Donald Trump. Il tycoon ha vinto le elezioni americane avendo praticamente contro tutta la grande stampa e le celebrities (da George Clooney a Lady Gaga fino a Bruce Springsteen), schierate con la rivale Hillary. Alla stessa categoria è ascrivibile anche il direttore del Fatto Quotidiano, Marco Travaglio, che con il suo giornale ha trainato la vittoria del No al referendum. In questo contesto non possiamo certo dimenticarci del leader della Lega Nord, Matteo Salvini, il primo a festeggiare quando la sconfitta di Renzi alle urne era ormai certa e pronto a lanciare la sfida a Silvio Berlusconi per la guida del Centrodestra. A Torino c’è invece Chiara Appendino. Battuto il sindaco uscente Piero Fassino (Pd) alle comunali di giugno, la prima cittadina del capoluogo piemontese sta facendo sicuramente meglio della sua collega romana, tanto che il suo nome già circola nelle segrete stanze per il ruolo di candidata premier del Movimento 5 Stelle. Vedremo. Tanti sono invece i protagonisti dello sport che quest’anno si sono distinti per le loro grandi imprese. Claudio Ranieri è il primo fra questi. L’ex allenatore di Juventus, Roma e Inter ha compiuto un vero e proprio miracolo calcistico portando il “piccolo” Leicester alla vittoria della Premier League, prima volta in assoluto nella storia del club. Dopo un Europeo vissuto da protagonista con l’Italia, nonostante l’eliminazione ai quarti di finale contro la Germania ai calci di rigore, anche Antonio Conte sta brillando in Inghilterra: il suo Chelsea è primo in classifica con 6 punti di vantaggio sul Liverpool. Mentre Cristiano Ronaldo, attaccante del Real Madrid, ha messo in bacheca un triplete da brivido: Champions League, Europeo e Pallone d’Oro (il quarto in carriera). Davvero niente male. Dalle Olimpiadi arrivano invece le belle storie di Niccolò Campriani e Beatrice “Bebe” Vio. Il fiorentino, classe ’87, è rientrato dal Brasile con due ori (carabina 10 metri aria compressa e carabina 50 metri da 3 posizioni). Sempre a Rio, stavolta alle Paralimpiadi, la schermitrice ha vinto la medaglia d’oro nella prova individuale battendo in finale la cinese Zhou Jingjing. E che dire di Zanardi? Alle Paralimpiadi il leggendario Alex, 50 anni compiuti, ha prima vinto l’oro nella cronometro di handbike e poi l’argento nella gara individuale in linea di handbike H5. La colonna sonora? Sicuramente Andiamo a comandare di Fabio Rovazzi, rivelazione dell’estate 2016 (e non solo).

Twitter: @GiorgioVelardi

Articolo scritto il 31 dicembre 2016 per La Notizia 

Renzi sconfessa se stesso. Il voto subito affossa 73 leggi. Ecco tutte quelle che saltano se si va alle urne

giovedì, dicembre 29th, 2016

Renzi_1Ci sono voluti mesi, in alcuni casi addirittura anni, per approvarli in almeno uno dei due rami del Parlamento. Ma adesso, vista l’ipotesi molto probabile di tornare alle urne prima della scadenza naturale della legislatura (2018), rischiano di essere condannati a morte certa. Di cosa stiamo parlando? Dei 73 provvedimenti che, secondo i calcoli dell’associazione Openpolis, dal 2013 ad oggi sono stati approvati da Camera o Senato ma che sono rimasti nel limbo, complici anche i veti incrociati tra le forze che compongono la maggioranza di Governo. E che dopo il referendum del 4 dicembre scorso e il cambio della guardia a Palazzo Chigi fra Matteo Renzi e Paolo Gentiloni, utile più che altro a scrivere una nuova legge elettorale e andare in fretta a votare, rischiano di essere ridotti a carta straccia. Alcuni, fra le altre cose, sono dei veri e propri cavalli di battaglia dell’ex sindaco di Firenze, colui che più degli altri spinge per le elezioni anticipate.

Nel dimenticatoio – In testa ci sono, senza dubbio, il conflitto d’interessi e il cosiddetto ius soli. Del primo provvedimento, Renzi parlò dal palco della Leopolda a novembre 2012. “Faremo la legge nei primi cento giorni”, assicurò. Poi a maggio 2015 fu l’allora ministra per le Riforme, Maria Elena Boschi, a rincarare la dose. Com’è andata a finire? Il testo approvato il 25 febbraio 2016 alla Camera, relatore Francesco Sanna (Pd), è bloccato in commissione Affari costituzionali a Palazzo Madama. E lì, a meno di clamorosi colpi di scena, è destinato a rimanere. Anche sullo ius soli l’ex premier si è più volte espresso pubblicamente. L’ultima esattamente un anno fa, quando disse che il 2016 sarebbe stato l’anno dei diritti civili, compresa la legge sulla “nuova” cittadinanza. Eppure anche il provvedimento approvato ad ottobre 2015 in prima lettura dalla Camera è rimasto incagliato al Senato e tanti cari saluti.

Tempo scaduto – Che dire, poi, del ddl concorrenza? Pure stavolta le cose sono andate per le lunghe. Il ddl è stato adottato dal Consiglio dei ministri il 20 febbraio 2015, praticamente due anni fa. Il via libera della Camera è arrivato invece il 7 ottobre dello stesso anno, quello della commissione Industria di Palazzo Madama il 2 agosto 2016. Risultato: complice il referendum, la discussione è slittata sine die. Rischia di finire nel dimenticatoio, ma questa volta non casualmente (visto il niet dei partiti dei Centrodestra), il ddl che introduce il reato di tortura, approvato sia al Senato (marzo 2014) sia alla Camera (aprile 2015). Ma nel lungo elenco figurano anche la legge sulla tutela dei minori per la prevenzione e il contrasto al cyberbullismo, la riforma del processo penale e quella dei partiti. Certo, si tratta di una situazione non proprio nuova, visto che anche alla fine della passata legislatura furono lasciati in sospeso lo stesso numero di provvedimenti. Ma forse mai come stavolta, in nome della “rottamazione”, bisognava invertire il trend.

Twitter: @GiorgioVelardi

(Articolo scritto il 28 dicembre 2016 per La Notizia)

Dai renziani ai Giovani Turchi fino alla corazzata di Franceschini. Ecco le correnti che agitano il Pd

domenica, dicembre 11th, 2016

PartitodemocraticoFranceschiniani, renziani, bersaniani, Giovani Turchi, Sinistra è cambiamento. E via discorrendo. È una galassia di anime sparse e tradizioni disparate, il Pd. Il cui principale problema, disse una volta l’ultimo segretario del Pci, Achille Occhetto, “risiede nel suo atto di origine” visto che “si è dato vita ad una semplice fusione a freddo fra apparati”. Il risultato è sotto gli occhi di tutti. E oggi, dopo la crisi di Governo scatenata dalla vittoria del No al referendum e le conseguenti dimissioni di Matteo Renzi, si misurano con il bilancino i pesi delle varie correnti, si sale e scende dal carro del vincitore – stavolta è toccato all’ex sindaco di Firenze, domani chissà – ci si divide sul da farsi. Chi vorrebbe le dimissioni di Renzi anche da segretario e chi no; chi pensa che “Matteo” debba restare comunque alla guida del Governo e chi invece glielo sconsiglia vivamente; chi vorrebbe andare subito a votare e chi intende addirittura arrivare fino alla fine della legislatura. In quest’ultimo caso con il chiaro intento di rottamare definitivamente l’uomo che della rottamazione ha fatto il suo cavallo di battaglia. Ma com’è composta la galassia dem? Ecco le 5 principali correnti che “agitano” il partito.

Franceschiniani (o Area Dem) – È la componente guidata dall’attuale ministro della Cultura ed ex segretario del partito, Dario Franceschini. Quella numericamente più forte in Parlamento, visto che al suo interno annovera un centinaio fra deputati (una settantina) e senatori (una trentina). Calcolatrice alla mano, circa un quarto dell’intera pattuglia parlamentare. Di Area Dem fanno parte molti esponenti di spicco del Pd, a cominciare dai due capigruppo a Montecitorio e Palazzo Madama, Ettore Rosato e Luigi Zanda, ma anche la vicepresidente della Camera Marina Sereni e l’ex sindaco di Torino Piero Fassino (che non è parlamentare). E che dire di Francesco Saverio Garofani? Pure lui “franceschiniano”, il 21 luglio 2015 è diventato presidente della commissione Difesa della Camera subentrando ad Elio Vito (Forza Italia). Nella lunga lista figurano anche la vicesegretaria dem Debora Seracchiani, la ministra della Difesa Roberta Pinotti, i sottosegretari Pier Paolo Baretta, Antonello Giacomelli, Gianclaudio Bressa e Luigi Bobba. Più i componenti della segreteria Francesca Puglisi (Scuola), Emanuele Fiano (Riforme) e Chiara Braga (Ambiente). Ultima, ma non meno importante, “Lady Pesc” Federica Mogherini. Cosa vogliono i franceschiniani? L’ha chiarito Zanda non più tardi di tre giorni fa: “La maggioranza va ricercata con l’obiettivo di proseguire fino alla naturale conclusione della legislatura”. 

Renziani (o Giglio magico) – La pattuglia dei renziani che fa capo al premier dimissionario è meno numerosa rispetto a quella dei franceschiniani, visto che le candidature per le liste delle Politiche 2013 furono gestite dai bersaniani, molti dei quali convertitisi al credo di “Matteo”. I cosiddetti “renziani doc” sono una sessantina, la quasi totalità dei quali siede alla Camera (50). I nomi più noti sono quello della ministra per le Riforme Maria Elena Boschi, del “Gianni Letta di Renzi”, cioè il potente sottosegretario alla presidenza del Consiglio Luca Lotti, e dell’altro vicesegretario dem Lorenzo Guerini. Più Francesco Bonifazi, tesoriere del Pd anche noto come “Bonitaxi”: è stato l’autista di uno dei camper con cui nel 2012 Renzi ha girato l’Italia in cerca di consensi. Ma non va dimenticato nemmeno Ernesto Carbone, il deputato che prestò a Renzi la Smart blu con la quale il 13 febbraio 2014 l’allora segretario dem si recò a Palazzo Chigi per incontrare Enrico Letta prima della sua defenestrazione. E gli altri? Nel “giglio magico” ci sono anche il commissario alla spending review Yoram Gutgeld, il ministro dei Trasporti Graziano Delrio e quello degli Esteri Paolo Gentiloni, i sottosegretari Davide Faraone, Ivan Scalfarotto e Angelo Rughetti, l’europarlamentare Simona Bonafè, il presidente della commissione Istruzione e Cultura del Senato Andrea Marcucci, il responsabile Giustizia della segreteria David Ermini, la senatrice Rosa Maria Di Giorgi, i deputati Matteo Richetti, Lorenza Bonaccorsi, Roberto Giachetti ed Edoardo Fanucci. Infine, ecco spuntare quello che bonariamente Dagospia ha definito “il Sancho Panza” di Renzi, ovvero il sindaco di Firenze Dario Nardella. Qual è la linea dei renziani? Tornare al voto il prima possibile. Punto.

Giovani Turchi (o Rifare l’Italia) – Alle ultime primarie, quelle vinte da Renzi nel 2013, appoggiarono Gianni Cuperlo. Poi sono entrati in maggioranza, salvo prepararsi adesso a tenere le mani libere: non si sa mai. I leader di questa corrente, che in Parlamento conta una cinquantina di adepti, sono il ministro della Giustizia Andrea Orlando (la cui aspirazione, dicono, è quella di candidarsi al prossimo congresso) e il presidente del partito Matteo Orfini, ex dalemiano. Gli altri nomi: i senatori Francesco Verducci e Stefano Esposito (ex assessore ai Trasporti della giunta Marino), le deputate Giuditta Pini, Valentina Paris e Chiara Gribaudo e i deputati Khalid Chaouki, Antonio Misiani e Fausto Raciti (segretario del Pd siciliano). Orizzonte: “La legislatura è finita, senza nuovi accordi resta solo il voto”, ha detto ieri Orfini.

Bersaniani (o Area riformista) – È quella che, semplificando, viene chiamata “minoranza dem”. Ne fanno parte l’ex segretario Pier Luigi Bersani e Roberto Speranza, l’ex capogruppo alla Camera che il 15 aprile 2015 si dimise in polemica con la decisione del Governo di porre la fiducia sulla legge elettorale, l’Italicum. Ma il fronte dei “bersaniani”, che in questi anni ha perso per strada qualche pezzo ma che può ancora contare su una sessantina fra deputati e senatori, è formato pure da Davide Zoggia, Nico Stumpo, Miguel Gotor, Danilo Leva, l’ex segretario generale della Cgil Guglielmo Epifani e l’ex ministro dell’Istruzione del Governo Letta Maria Chiara Carrozza. “Bisogna rimettere il Paese su binari normali: si vota nel 2018 e il congresso del Pd si celebra a fine 2017”, ha spiegato Bersani. Per loro, dunque, la linea è questa.

Sinistra è cambiamento – Nata “per unire e non per dividere” e “per raccogliere fino in fondo la sfida di Governo e di cambiamento che tutti i democratici hanno di fronte”: così recita il sito della corrente che ha come esponente di spicco il ministro delle Politiche agricole Maurizio Martina e che ha preso forma dopo l’approvazione dell’Italicum, schierandosi a favore del Sì al referendum. È l’ala dialogante col Governo al cui interno figurano molti ex Ds, fra i quali Cesare Damiano. Ma non solo. Ci sono, per esempio, i sottosegretaria Paola De Micheli (già lettiana) e Luciano Pizzetti e i deputati Matteo Mauri e Micaela Campana. La loro è una posizione “attendista”. “Personalmente auspico un governo che faccia una legge elettorale: senza una che sia coerente tra Camera e Senato non si può votare”, le parole di Damiano.   

Twitter: @GiorgioVelardi

Articolo scritto il 10 dicembre 2016 per La Notizia

La sconfitta di Renzi che non è una sconfitta

lunedì, dicembre 5th, 2016

Matteo_RenziC’è un paradosso nella sconfitta di Renzi. E cioè che quella del premier uscente non è una sconfitta. Non in toto, almeno. «Ma che stai a dì?», domanderà qualcuno. Mi spiego. Da questa consultazione l’ex sindaco di Firenze si porta dietro un bagaglio di 10-12 milioni di voti sui 13.430.000 totali che hanno optato per il Sì. Tolti un milione-un milione e 200 mila voti di alfaniani e centristi, più un altro milione che – mettiamo – ha votato a favore del ddl Boschi perché seguace del “cambiamento”, a conti fatti questo è.

Dall’altra parte ci sono 19 milioni 400 mila voti, che raccolgono al loro interno 5 Stelle, Lega Nord, Forza Italia, partigiani più varie ed eventuali. Quindi: in un ipotetico scenario elettorale di tutti-contro-tutti cosa potrebbe succedere? Renzi partirebbe comunque da lì, da quei 10-12 milioni di voti più o meno certi. Per gli altri è tutto da vedere. Ecco perché ho l’impressione che, al contrario di quello che molti pensano di primo acchito, “Matteo” non uscirà di scena così presto. Adda passà ‘a nuttata. E sarà lunga. Parecchio lunga.

Da Accozzaglia a Zagrebelsky, l’alfabeto del referendum per cambiare la Costituzione

venerdì, dicembre 2nd, 2016

referendumDomenica si va in campo, anzi, alle urne. Gli italiani saranno chiamati a votare sulla riforma costituzionale più ampia e complessa nella storia della Repubblica, visto che il ddl Boschi prevede la modifica di oltre 40 articoli della Carta. In questi mesi se ne sono sentite di tutti i colori. Fra insulti, gaffe ed endorsement, ecco l’alfabeto del referendum.

A come Accozzaglia – Vuol dire “turba confusa di persone spregevoli, o massa discordante di cose”. Il premier ha usato questa espressione per apostrofare il variegato universo schierato per il No alla riforma. “In questo referendum c’è un’accozzaglia di tutti contro una sola persona senza una proposta alternativa”, le parole di Renzi. “Abbiamo messo insieme D’Alema e Grillo”. Poi però il numero uno di Palazzo Chigi ha fatto retromarcia: “Mi scuso se ho offeso qualcuno, facciamo coalizione coesa”. La sostanza non è cambiata granché.

B come Boschi e Berlusconi – La prima è la madre della riforma, il secondo uno dei suoi grandi oppositori: voterà No ma non disdegnerebbe un successo del Sì, complici le aziende. In questi mesi Maria Elena ha girato l’Italia in lungo e in largo, senza contare le numerose ospitate tv. Poi l’hanno mandata all’estero e non è filato sempre tutto liscio. Come quando è stata contestata a Zurigo e per un attimo ha perso la calma e il sorriso. Che dire invece del leader di Forza Italia? Se il ddl Boschi passasse, ripete, il rischio è di “una dittatura di un uomo solo al comando”. Ma Mediaset vota Sì. E allora…

C come Cnel – Secondo i (pochi) sondaggi che hanno “spacchettato” il quesito, l’abolizione del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro è una delle poche cose votabili della riforma. Istituito nel 1957, ha diritto all’iniziativa legislativa ma in 59 anni ha presentato “solo” 14 proposte, nessuna delle quali diventata legge. Quanto si risparmierà con la sua eliminazione? Il Governo dice 20 milioni. Su Lavoce.info però l’ex commissario alla spending review Roberto Perotti ha parlato di soli di 3 milioni. “Il motivo principale è che la riforma ha disposto che tutto il personale del Cnel venga assunto dalla Corte dei Conti, quindi non vi sarà alcun risparmio su quel fronte”. Non proprio un grande successo.

D come Delrio – Se Renzi dovesse perdere il referendum e lasciare la guida del Governo, il nome del ministro dei Trasporti è in pole per sostituirlo. Anche se si tratterebbe di un cambio “di facciata”. Più un Renzi-bis senza Matteo che un Delrio I. Lui comunque ha le idee chiare: “Se vince il no bisognerà rimettere il mandato nelle mani del capo dello Stato che deciderà il da farsi”. Insomma, Delrio è pronto. Poi si vedrà.

E come Economist – Prima No, poi Sì. Ci mancava solo il forse. La scorsa settimana il noto giornale britannico (di cui Exor, società della famiglia Agnelli, è il principale azionista) è stato al centro di un caso abbastanza singolare: giovedì l’edizione settimanale si è schierata contro il ddl Boschi, prefigurando la creazione di un “governo tecnocratico” se Renzi dovesse perdere. Apriti cielo. Ma l’annuale, uscito il giorno dopo, ha invece rivolto un endorsement al Sì, prefigurando “instabilità politica e forse anche economica” in caso di successo del No. Idee chiare…

F come Financial Times – Che la stampa internazionale abbia partecipato attivamente a questa lunga campagna elettorale è indubbio. In questo quadro, non poteva mancare l’importante quotidiano economico-finanziario del Regno Unito. Se il prossimo 4 dicembre “Renzi perderà il referendum fino a 8 banche italiane rischiano di fallire”, ha scritto il Ft. L’invasione delle cavallette è scongiurata. Per ora.

G come Governo tecnico – Non solo l’ipotesi Delrio. Come ricordato, l’Economist ha aperto alla possibilità di un Governo tecnico in caso di sconfitta del Sì. Spauracchio subito agitato dal premier per fare propaganda per il Sì. Avevate dubbi?

I come Italicum – È la legge elettorale approvata a maggio 2015 ed entrata in vigore il 1° luglio 2016, che tutti vogliono già cambiare e sulla quale pende la pronuncia di legittimità della Consulta. È stato uno dei principali terreni di scontro fra i renziani e la minoranza del Pd, schierata per il No (con l’eccezione del “pontiere” Gianni Cuperlo). Per alcuni, le caratteristiche dell’Italicum amplificano gli squilibri della riforma; per altri la nuova legge elettorale per la Camera è coerente con le innovazioni costituzionali.

L come Lettere – Quelle che Renzi ha mandato agli italiani all’estero hanno scatenato un putiferio. Ma per certi versi si sono rivelate un boomerang per il premier, visto che un refuso riguardante l’indirizzo del sito Internet del comitato per il Sì ha finito con l’aiutare il No. Scherzi del destino.

M come Movimento 5 Stelle – A pochi giorni dal referendum è stato “colpito” dallo scandalo delle presunte firme false a Palermo. È però il vero asse portante del No alla riforma. Per i grillini, il referendum potrebbe rappresentare un trampolino di lancio verso il governo del Paese se vincesse il No, ma potrebbe anche condannarli a fare l’opposizione permanente se al contrario vincesse il Sì.

N come Napolitano – Il presidente emerito della Repubblica è uno dei padri della riforma. Voterà Sì, anche se non ha gradito né i toni della campagna, definita “aberrante”, né la personalizzazione del premier. E non gli ha risparmiato una pubblica tirata di orecchie.

O come Onida – L’accoglimento del ricorso dell’ex presidente della Consulta avrebbe potuto addirittura portare allo “spacchettamento” e al rinvio del voto. Il Tribunale di Milano lo ha respinto: Renzi ha tirato un sospiro di sollievo.

P come Prodi – L’ultimo colpo di scena di ieri. Il fondatore dell’Ulivo ha annunciato che voterà Sì, anche se la riforma è “poco profonda e poco chiara”.

Q come Quorum – Trattandosi di un referendum costituzionale, non sarà necessario raggiungerlo. Sarà valido con qualsiasi numero di elettori.

R come Risparmi – Il Governo sostiene che la riforma porterà risparmi per 500 milioni di euro all’anno. Ma a ottobre 2014 la Ragioneria generale dello Stato parlava di una cifra più contenuta: appena 57,7 milioni. Dal canto suo, il già citato Perotti parla di 161 milioni a regime: 131 dalla riduzione del numero dei senatori e dall’abolizione delle indennità, 3 dall’abolizione del Cnel, 17 dalla riduzione dei compensi dei consiglieri regionali e 10 dall’eliminazione dei contributi ai gruppi consiliari regionali. Insomma, i conti di Renzi&Boschi non tornano. Sarebbe il caso di rifarli.

S come Scrofa ferita – Renzi ha usato “accozzaglia”, Grillo gli ha risposto per le rime. Il premier, ha detto il fondatore del M5S, “ha una paura fottuta del voto del 4 dicembre. Si comporta come una scrofa ferita che attacca chiunque veda. Ormai non argomenta, si dedica all’insulto gratuito e alla menzogna sistematica”. Da che pulpito…

T come Twitter – Anche questa campagna elettorale si è giocata a colpi di tweet e post su Facebook. Gli account Twitter di “Basta un Sì” e del “Comitato per il No” hanno oggi – rispettivamente – 11.300 e 7.154 follower. Su Facebook i “mi piace” sono invece 159.274 e 151.507. Secondo una recente analisi de IlSocialPolitico.it, Twitter è terreno favorevole al Comitato del Sì mentre Facebook è dalla parte del No. Vedremo come andrà nel “Paese reale”.

U come Unico – Nessuno “spacchettamento”: sulla scheda gli italiani troveranno un unico quesito. Circostanza che ha dato vita a numerose polemiche. Per come è formulato, dicono le opposizioni, rischia infatti di essere fuorviante e trarre in inganno gli elettori.

V come Verdini – È un altro dei padri indiscussi del ddl Boschi, diventato determinante anche per gli equilibri del Governo Renzi dopo la nascita del suo gruppo, Ala. “Siamo in paradiso”, disse ad aprile dopo aver incontrato a Montecitorio i vertici del Pd. E si capisce perché.

Z come Zagrebelsky – Anche l’altro presidente emerito della Consulta è stato uno dei primi a schierarsi contro la riforma, arrivando a paventare l’ipotesi di non insegnare più Diritto costituzionale se dovesse vincere il Sì. È presidente onorario del Comitato per il No ed è stato uno dei pochi (insieme all’eterno Ciriaco De Mita) ad essersi confrontato direttamente con Renzi nel dibattito televisivo moderato dal direttore del Tg La7, Enrico Mentana.

Articolo scritto il 2 dicembre 2016 per La Notizia

Intervista a Civati: “Questa Leopolda è diventata la passerella del potere”

domenica, novembre 6th, 2016

Governo: Civati,voterei no ma non voglio lasciare PdC’è una foto che li ritrae vicini, Giuseppe Civati e Matteo Renzi. Era il 2010, Leopolda numero uno. Quella della “rottamazione”. Il primo era consigliere regionale della Lombardia, il secondo sindaco di Firenze. Oggi di quella stagione non è rimasto più nulla, dice a La Notizia il leader di Possibile. “L’unica cosa che Matteo ha rottamato è stata la sinistra – attacca Civati –. Sei anni fa c’era la prospettiva di costruire un’area riformista che unisse le diverse tradizioni culturali. Poi, purtroppo, tutto si è trasformato in un grande casting”.

Però dica la verità: le manca non essere lì?
No. Mi dispiace il fatto che dalla prima edizione ad oggi questo appuntamento si sia progressivamente allontanato da quello che era il suo obiettivo iniziale. Del resto, questa è la metafora del Paese. Renzi si è disfatto di chi, come me, ha opinioni diverse scegliendo di trasformare la Leopolda prima in un comitato elettorale, poi in un evento governativo e infine in una passerella del potere.

Ma quella è stata anche casa sua. O no?
È stata, ha detto bene. Poi Renzi ha “cambiato verso” al Partito democratico facendolo diventare qualcosa di irriconoscibile.

Sei anni fa lei sedeva accanto all’allora sindaco di Firenze. È rimasto qualcosa del “rottamatore” che diceva di voler essere?
È rimasta l’ambizione. Renzi è un animale politico e personalmente non l’ho mai sottovalutato, al contrario di quanto hanno fatto altri, come Pier Luigi Bersani. Io non sono mai stato “renziano”, come ha sempre sostenuto qualcuno. Ero lì per portare il mio contributo, le mie idee. Poi il presidente del Consiglio ha scelto di fare una corsa in solitaria, con il suo gruppo dirigente molto “fiorentino”, contraddicendo tanti punti della “Carta di Firenze” che presentammo allora.

Rileggendo le “100 idee per l’Italia” del 2011 si scopre che Renzi proponeva l’abolizione di una delle due Camere e la riduzione, da 945 a 500, dei parlamentari. Poi è andata diversamente.
Se avesse presentato una riforma del genere gliel’avremmo votata. Quella su cui gli italiani saranno chiamati a esprimersi il 4 dicembre, invece, è la smentita di se stesso.

Insomma, dalla prima Leopolda ad oggi Renzi ha “rottamato” Renzi. 
La traiettoria che ha seguito è un’occasione mancata. Credo in realtà che abbia rottamato una cosa sola.

A cosa si riferisce?
Alla sinistra. Cercare di far fuori Bersani per tenersi uno come Franceschini, sinceramente, non mi sembra proprio una “rottamazione”. A livello personale Renzi ha ottenuto tutto, peraltro facendo l’opposto di quanto raccontava, tipo che bisognava andare a Palazzo Chigi passando per il voto popolare. Dall’altra parte, non ha dato le risposte che la generazione che era alla Leopolda sei anni fa si aspettava. Questo lo si è capito bene quando ha preso il treno per andare ad Arcore e incontrare Silvio Berlusconi. Da quel momento in poi io e Matteo abbiamo imboccato due direzioni opposte.

Anche quest’anno su quel palco saliranno in tanti. 
Non io. Mi rattrista il fatto che Renzi non abbia voluto confrontarsi con me sulla riforma costituzionale. Gli avevo fatto un’esplicita richiesta tramite il suo ufficio stampa, ma non c’è stata data alcuna risposta.

Eppure del referendum si parlerà eccome.
Ma se ne parlerà il meno possibile. È la battaglia simbolo, ma da tempo hanno esaurito gli argomenti.

Se Renzi uscisse sconfitto dalle urne cosa dovrebbe fare?
L’unica prospettiva è andare ad elezioni con una legge elettorale diversa da quella terribile che ha inventato lui. Cosa rimarrà di questi anni folgoranti di Renzi? Una brutta riforma costituzionale, che gli italiani bocceranno; l’Italicum, che è pessimo e il Jobs Act, che piace solo a Berlusconi e simili. Per il resto, non mi sembra che la rivoluzione tanto decantata abbia portato a niente.
 
Articolo scritto il 5 novembre 2016 per La Notizia