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Conflitto d’interessi, il provvedimento arriva alla Camera tra le polemiche: “Testo fasullo, in aula voteremo no”

mercoledì, febbraio 24th, 2016

Lo annuncia Danilo Toninelli, deputato del Movimento 5 Stelle e componente della commissione Affari costituzionali di Montecitorio. Che boccia senza mezzi termini l’ultima versione della normativa. “Bozza iniziale ampiamente condivisibile, poi il partito di Renzi ha fatto un compromesso al ribasso con Forza Italia”. Fra i punti contestati anche la nomina dei due nuovi componenti dell’Antitrust: “Occasione per l’ennesima lottizzazione partitica”

Sisto-Sanna-675Potremmo già definirli come i 16 articoli della discordia. Tanti ne conta, infatti, il testo della legge sul conflitto d’interessi che questo pomeriggio arriverà in Aula alla Camera. Dopo numerosi rinvii. E, visto l’argomento, non senza le polemiche di rito che hanno accompagnato il lavoro preliminare in commissione Affari costituzionali a Montecitorio. La quale ha dato il ‘via libera’ al provvedimento lo scorso 18 febbraio con il parere contrario diForza Italia e Movimento 5 Stelle. I primi la consideranotroppo restrittiva; per i secondi, al contrario, è troppo permissiva. Tanto che sono già pronti circa 280 emendamentiper modificare il testo. Fra i punti maggiormente contestati dai grillini c’è quello che riguarda i soggetti interessati dal provvedimento (le nuove norme verranno applicate a chi ha incarichi di governo nazionale regionale). Ma anche quello relativo ai criteri di nomina dei componenti dell’Antitrust, l’autorità alla quale è affidata la vigilanza sui conflitti stessi, chesalgono da 3 a 5 e che saranno eletti dal Parlamento. Ecco perché “così com’è, noi questa legge non la votiamo – attacca il deputato del M5S Danilo Toninelli (nella foto) parlando conilfattoquotidiano.it –. La bozza iniziale, a firma di Francesco Sanna (Pd), era ampiamente condivisibile”. Invece “la versione uscita dalla commissione è la sorella maggiore di quella varata nel 2004 dal governo Berlusconi”. La contestata legge Frattini.

Onorevole Toninelli, non c’è proprio nessuna possibilità di ripensamento da parte del M5S?
Assolutamente no. Consideriamo questo testo fasullo e insufficiente. È un provvedimento che colpisce una cerchia ristrettissima di persone. Ne sono addirittura esentati i parlamentari e i consiglieri regionali. Una legge-miraggio che colpisce solo 230 persone rispetto alle migliaia di potenziali destinatari. È un provvedimento utile solo per accaparrarsi qualche voto in più alle Amministrative, ma che non risolve assolutamente nulla.

Eppure Forza Italia ha detto che grazie a questo provvedimento si è creato un asse fra voi e il Pd che porterà l’Italia ad una deriva “autoritaria, populista e demagogica”. Risposta?
La voce da cui provengono queste parole è quella di Francesco Paolo Sisto (che
 il 15 febbraio si è dimesso da relatore del ddlndr), avvocato di Silvio Berlusconi e Denis Verdini. Dire che c’è un asse fra il Pd e noi, che come Movimento 5 Stelle chiedevamo un conflitto di interessi serio e pesante, non è nient’altro che una barzelletta. La verità è che, in commissione, Forza Italia ha proposto la cancellazione riga per riga di tutta la legge. Non essendo riusciti nel loro intento ora non gli resta che screditarci.

All’inizio, però, il testo base di Sanna non aveva raccolto giudizi così tranchant da parte vostra. Che cosa vi ha fatto cambiare radicalmente idea?
La prima bozza del provvedimento era buona e ampiamente condivisibile: ridiscutendo la parte relativa alle sanzioni, il M5S l’avrebbe sicuramente votata. Infatti, il primo testo che ci è stato proposto riguardava anche interessi non economici e coinvolgeva tanti altri soggetti che poi in commissione sono spariti dal testo. Come per esempio gli alti burocrati, i sindaci e gli assessori. Poi il partito di Renzi ha fatto un compromesso al ribasso con Forza Italia, che ha annacquato il disegno di legge.

Insomma, non c’è proprio nulla che si salva?
Se dovessi mettere un voto a questa legge in una scala da zero a cento darei cinque. Dopo più di vent’anni di assenza di una norma simile è incredibile doversi accontentare di uno strapuntino. La già citata bozza iniziale riprendeva alcuni principi della legislazione internazionale, per esempio quella francese, nella quale vengono valutati anche i conflitti ‘potenziali’ e gli interessi non economici fra pubblico e privato. Dove sono finiti? Sono spariti dal testo. E non per colpa nostra.

In Aula presenterete degli emendamenti per modificare il testo?
In commissione abbiamo già provato a sistemare alcuni passaggi del testo. Per esempio aumentando di un anno l’impossibilità per un ex membro del governo di andare a lavorare in una società, pubblica o privata, il cui ambito di riferimento collima con quello per cui ricopriva la propria carica.

E adesso?
Chiederemo che il provvedimento venga modificato già a partire dall’articolo 1, per il quale il conflitto di interessi è relativo a “titolari di cariche politiche”. Lo reputiamo sbagliatissimo: preferiremmo infatti si parlasse di cariche “pubbliche”, coinvolgendo anche le pubbliche amministrazioni. Poi c’è il capitolo sanzioni: devono essere più puntuali e la platea dei destinatari va necessariamente allargata. Per non parlare del capitolo relativo all’Antitrust.

Cos’è che non va in questo caso?
La legge prevede che il numero dei suoi componenti, attualmente tre, di cui uno è il presidente, venga elevato a cinque. Il problema è che la nomina di questi due nuovi membri dell’authority diventerà l’occasione per operare l’ennesima lottizzazione partitica. Infatti è stato previsto un meccanismo per il quale il partito di maggioranza porterà a casa tre elementi su cinque, cioè più del 50%. Senza alcuna condivisione con le opposizioni, come avviene per i giudici della Consulta. Anche stavolta, manco a dirlo, fra la prima bozza e il testo che andrà in Aula c’è un abisso.

Questo atteggiamento di chiusura sul conflitto di interessi è stato forse uno dei motivi per cui Renzi ha optato per l’accordo con Ncd sull’altro fronte caldo, le unioni civili?
Chi ci conosce sa che il M5S non fa valutazioni di convenienza. Noi votiamo la legge sulle unioni civili ma senza violare le regole con canguri o altre pericolose forzature. Se Renzi chiederà al Parlamento il voto di fiducia al governo, che ovviamente non voteremo, significa che non si fida dei suoi e teme di andare sotto nelle votazioni di merito più delicate. Invece per una volta dovrebbe avere coraggio e non pensare solo alla poltrona, perché grazie al M5S, che ha detto sì al provvedimento, i numeri ci sono.

Twitter: @GiorgioVelardi

(Articolo scritto il 23 febbraio 2016 per ilfattoquotidiano.it)

Unioni civili, opposizioni all’attacco: “Potevamo votare gli emendamenti in due giorni ma il Pd ha avuto paura”

lunedì, febbraio 22nd, 2016

È quanto sostiene il capogruppo di Forza Italia a Palazzo Madama, Romani. Mentre per Airola (M5S) ne sarebbero serviti “quattro al massimo, compreso il weekend”. D’accordo anche il leghista Calderoli: “Senza ostruzionismi e contingentando i tempi si poteva fare in fretta”. Accuse che i dem rispediscono al mittente. Pini: “Senza il canguro serviranno 135 giorni”

Senato - ddl Unioni CiviliIl capogruppo di Forza Italia al Senato, Paolo Romani, lo dice sicuro: “Per votare tutti gli emendamenti rimasti al ddl Cirinnà, circa 750 sommando quelli delle opposizioni dopo il ritiro delle migliaia presentati della Lega Nord, ci avremmo impiegato due giorni al massimo. Anche perché nessuno di noi – ci tiene a precisare contattato da ilfattoquotidiano.it – si sarebbe messo a fare ostruzionismo”. Quindi “diciamoci le cose come stanno: il ‘canguro’ è figlio della paura tutta interna al Partito democratico sui numerosi voti segreti. Siccome sarebbero andati sotto hanno preferito rimandare la discussione alla prossima settimana”. Dopo lo slittamento al 24 febbraio del disegno di legge sulle unioni civili, a Palazzo Madama non si placano le polemiche fra opposti schieramenti. Ma non solo. Infatti, ieri ci ha pensato la ‘madre’ del testo, la senatrice Monica Cirinnà, a dare fuoco alle polveri puntando il dito addirittura contro alcuni esponenti del suo stesso partito. “Pago le ripicche di certi renziani che volevano un premietto”, le parole riportate dal Corriere della Sera in un’intervista che però la stessa Cirinnà ha poi smentito di aver rilasciato. Solo uno sfogo con alcuni attivisti Lgbt nel Transatlantico del Senato, a quanto pare. Ma tanto è bastato per lasciare i toni sopra il livello di guardia. E provocare le reazioni non proprio al miele di alcuni pezzi da novanta del Pd, fra cui il capogruppo dei senatori, Luigi Zanda (“no alle insinuazioni infondate”, ha scandito tranchant).

Se il Pd si ritrova ora con la patata bollente fra le mani, decidere, cioè, se stralciare o meno la stepchild adoption, la ferma convinzione delle opposizioni resta una e una sola: la mossa del renziano Andrea Marcucci, ovvero quella di presentare un emendamento ‘taglia emendamenti’, è stata dettata proprio dalla frattura tutta interna al partito del segretario-premier Matteo Renzi. E da nessun altro motivo. “Romani dice che sarebbero bastati due giorni per votare gli emendamenti? Io voglio tenermi un po’ più largo: dico quattro al massimo, weekend compreso – afferma il senatore Alberto Airola del Movimento 5 Stelle –. Insomma, era una partita che si sarebbe potuta concludere già questa settimana, ma il Pd ha avuto paura e ha preferito fare marcia indietro. Cosa che invece non è successa in precedenti occasioni, quando i numeri erano dalla loro”. In che senso? “Ricordo una giornata, mi pare stessimo discutendo in Aula del ddl Boschi, nella quale abbiamo votato ben 900 emendamenti”. Lo ripete, scandendo bene la cifra: “No-ve-cen-to emendamenti. E non potevamo votarne circa duecento in meno in quattro giorni? Dai, non scherziamo…”.

Più cauto sui tempi, invece, Roberto Calderoli (Lega Nord). “Mi sembra difficile fare previsioni: per votare un singolo emendamento – dice il vicepresidente del Senato – ci possono volere cinque minuti come cinque ore. Poi è normale: senza ostruzionismi e contingentando i tempi si può anche fare in fretta”. La cosa certa, aggiunge Calderoli, è che “per il Pd l’emendamento Marcucci si è rivelato un boomerang”. Così “ora, se questo verrà spacchettato e i centristi voteranno contro solo sul canguro legato all’articolo 3 (quello su diritti e doveri derivanti dall’unione civile tra persone dello stesso sesso, ndr) e all’articolo 5 (sulla stepchild adoption, ndr), verrà meno il necessario sostegno del M5S, di Sel, dei bersaniani e dei giovani turchi del Pd. L’unica soluzione logica – conclude – sarebbe quella di ritirarlo, ma alla fine lo faranno dichiarare inammissibile dal presidente Grasso, come da me richiesto ieri mattina. Hanno combinato proprio un bel casino…”. Dal Nazareno, però, le accuse vengono rispedite al mittente. Tanto che su Facebook Giuditta Pini (Pd) scrive: “Per votare tutti gli emendamenti ci vorrebbero 77.700 minuti”, cioè “54 giorni”. E “questo – aggiunge – se il Senato lavorasse 24 ore al giorno per quasi due mesi, senza dormire, senza mangiare, senza fare altro. Quindi una stima probabile potrebbe essere 135 giorni”. Il motivo? “Il ddl costituzionale era un ddl governativo che aveva un contingentamento dei tempi (non si poteva parlare più di tot minuti a gruppo)” mentre “il ddl Cirinnà non ha alcun contingentamento. L’emendamento Marcucci – conclude – serviva semplicemente ad evitare tutto questo”.

Ma andiamo avanti. “La legge deve passare”, dice ailfattoquotidiano.it la senatrice dem Rosa Maria Di Giorgi, apertamente contraria alla stepchild adoption così come un altro gruppo di colleghi di partito. “Poco importa – aggiunge – se ci vorrà una settimana in più o in meno. Però dev’essere chiara una cosa: sul ddl Cirinnà io e i miei compagni del Pd, che su alcuni punti del provvedimento la pensiamo diversamente dalla maggioranza, dobbiamo poter esercitare la libertà di coscienza che il nostro segretario ci ha lasciato”. Quindi “l’articolo 5, quello sulla stepchild, sarà votato come tutti gli altri: se avrà i numeri dalla sua parte e passerà ne prenderemo atto”. A prescindere da ciò “serve un confronto, ma da parte nostra non c’è nessuna intenzione né di dilatare i tempi né, tantomeno, di affossare la legge”, chiarisce la Di Giorgi. Quanto alle parole pronunciate dalla Cirinnà al Corriere, che la chiama direttamente in causa (“visto come s’è comportata con me?”), la senatrice afferma: “Monica mi ha inviato un sms ieri mattina alle 7.30 per scusarsi, dicendomi che si è trattato di uno sfogo durante un colloquio con alcuni attivisti Lgbt. Per me è un capitolo chiuso”. Almeno per ora.

Twitter: @GiorgioVelardi

(Articolo scritto il 19 febbraio 2016 per ilfattoquotidiano.it)

Poletti ministro dimezzato dopo il rimpasto: è senza più delega alla famiglia e al Jobs Act

mercoledì, febbraio 3rd, 2016

Ridimensionato dall’ultimo giro di poltrone all’interno del governo. Lui tira dritto e rilancia: “Reddito minimo per un milione di poveri con minori a carico”. Ma l’opposizione ironizza e lo bersaglia. Scotto (Sinistra italiana): “Lo zelo con cui ha affossato l’articolo 18 non ha pagato”. Santelli (Forza Italia): “Sfiduciato di fatto da Renzi”. Ecco i suoi scivoloni da quando è ministro

poletti-675Lui giura di non sentirsi ‘dimezzato’ dall’arrivo a Palazzo Chigi di Tommaso Nannicini, il già consigliere economico di Matteo Renzi promosso, con l’ultimo valzer di poltrone nell’esecutivo, a sottosegretario alla presidenza del Consiglio (seguirà l’attuazione del Jobs Act per i lavoratori autonomi). Anzi, “con Tommaso ho un meraviglioso rapporto di collaborazione, mi fa piacere lavorare con i giovani bocconiani ‘dal volto umano’”. Né gli importa, pare di capire, di aver perso di punto in bianco la delega alla famiglia. Trasferita nelle mani del neo ministro per gli Affari regionali, l’alfaniano Enrico Costa. Che dovrebbe occuparsi di rapporti fra Stato e Regioni. Il tutto pochi giorni prima del Family Day e dell’approdo nell’Aula di Palazzo Madama del discusso ddl Cirinnà sulle unioni civili. Fosse successo nella vituperata prima Repubblica, sarebbero magari seguite dimissioni clamorose per il drastico ridimensionamento. Ma l’ipotesi non sembra nemmeno sfiorare Giuliano Poletti, uscito più malconcio di tutti dai recenti cambiamenti nella squadra di governo. Lui, il ministro del Lavoro, tira dritto come se nulla fosse. Ieri, per dire, approfittando dell’ospitalità sulle pagine di Repubblica, ha provato a dirottare l’attenzione sulla sua ultima fatica. “Una riforma che – ha affermato – vale almeno quanto il Jobs Act”: un reddito minimo di 320 euro al mese per un milione di poveri con minori a carico.

ANDAMENTO LENTO– Insomma, la versione ‘smart’ del reddito di cittadinanza, cavallo di battaglia del Movimento 5 Stelle. Certo è, almeno a sentire i maligni, che la scelta del presidente del Consiglio di ridimensionare ruolo e poteri del suo ministro del Welfare non sembra del tutto casuale. Il motivo? Renzi ha fatto della questione del lavoro uno dei punti salienti della sua agenda di governo ma finora, nonostante i ‘cambiamenti epocali’ annunciati con il Jobs Act (che “sta fallendo nei suoi obiettivi principali”, cioè “promuovere l’occupazione e ridurre la quota di contratti temporanei e atipici”, come ha recentemente rivelato un rapporto di Isi Growth), i numeri della ripresa sono timidi. Nel 2015 sono stati creati circa 115 mila nuovi posti. Ai quali vanno aggiunte le 388 mila trasformazioni da contratti a termine e le 80 mila da apprendistato che però non possono essere considerate come “nuove assunzioni”. Un po’ poco se si considera l’esercito di quasi 7 milioni di persone in cerca di un impiego in giro per l’Italia. La colpa, certo, non è tutta di Poletti. Ma qualcuno dovrà pur risponderne. E il ministro del Lavoro sembra il capro espiatorio perfetto. Anche tenuto conto della lunga serie di gaffes e scivoloni che non hanno certo fatto bene alla sua immagine. A cominciare dal rapporto conflittuale con i numeri, che ad agosto dell’anno scorso gli costarono anche una figuraccia, quando lo stesso ministero del Lavoro fu costretto a correggere i dati sul numero dei nuovi contratti stipulati grazie al Jobs Act: quelli su cessazioni, collaborazioni e apprendistato erano stati calcolati male. Risultato: numeri ridimensionati da 630 mila a 327 mila nei primi sette mesi del 2015.

SENZA GARANZIA – Per non parlare di quella imbarazzante foto che lo ritrae a cena con Salvatore Buzzi, quello che i pubblici ministeri che indagano su ‘Mafia Capitale’ hanno definito come il “braccio destro imprenditoriale” di Massimo Carminati. Banchetto al quale parteciparono, fra gli altri, anche l’ex sindaco di Roma, Gianni Alemanno, più alcuni esponenti del Pd romano. “Sono stufo di essere tirato in ballo per quella foto del 2010 – si è più volte sfogato Poletti –. Come presidente della Lega coop partecipavo a migliaia di iniziative e non potevo conoscere tutti coloro che incontravo”. Uno scatto inopportuno, insomma, ma non solo. Perché a pesare sulla gestione del ministero del Lavoro nell’era Poletti c’è soprattutto la questione legata a Garanzia Giovani, il piano europeo di contrasto alla disoccupazione giovanile che in Italia si sta rivelando un autentico fallimento. Nonostante gli 1,5 miliardi di euro, un quarto dei sei totali, che Bruxelles ha stanziato per il nostro Paese. Con stagisti e tirocinanti che si ritrovano senza stipendio per mesi e il ministero di via Veneto che ammette: “I tempi non sono quelli di un’impresa”. Proprio così. Sta di fatto che molti dei giovani iscritti al programma (944 mila secondo l’ultimo report, di cui poco più della metà presi in carico dai centri per l’impiego) stanno rinunciando. Una vicenda sulla quale anche lo stesso Renzi è stato costretto ad ammettere che le cose non stanno filando lisce come dovrebbero. Per non parlare, poi, dell’uscita che ha fatto tornare in mentre ‘illustri’ predecessori dell’attuale ministro del Lavoro. Ultima in ordine di tempo Elsa Fornero. “La laurea a 28 anni con 110 e lode? Non serve a niente, meglio a 21 con 97”, ha detto Poletti nel corso di una convention a fine novembre. Apriti cielo, una pioggia di polemiche. Tanto che il ministro è stato costretto a correggere il tiro: “Non ho mai pensato che i giovani italiani siano ‘choosy’ o ‘bamboccioni’”. Ma si sa: a volte la toppa è peggio del buco. E gli avversari non hanno mai mancato di farglielo pesare.

BERSAGLIO GROSSO – Anche in queste ore le frecciate si sprecano. Nonostante il rimpasto che lo ha ridimensionato, Poletti continua infatti ad essere uno dei bersagli prediletti delle opposizioni. “Evidentemente lo zelo con il quale il ministro del Lavoro, che è stato leader della cooperazione, ha affossato lo Statuto dei lavoratori abbattendo l’articolo 18 non ha pagato”, ironizza il capogruppo alla Camera di Sinistra Italiana Arturo Scotto. “La delega alla famiglia è stata affidata ad un ministro del Nuovo centrodestra per ammiccare al popolo del family day mentre è in discussione il disegno di legge sulle unioni civili – prosegue –. Allo stesso tempo il Jobs Act è finito direttamente in mano ad un sottosegretario, già consigliere economico del premier, di stretta fiducia di Renzi”. Insomma, conclude Scotto, “Poletti è ormai un ministro dimezzato”. E che esce “sicuramente indebolito da questo rimpasto” anche per Jole Santelli (Forza Italia), ex sottosegretaria al Lavoro del governo di Enrico Letta. “Quello che colpisce – aggiunge la deputata di Fi – è il fatto che ancora una volta Renzi accentri su Palazzo Chigi la gestione dei dossier più spinosi, come il Jobs Act, nominando un fedelissimo come Nannicini e spostando Teresa Bellanova allo Sviluppo economico. È la testimonianza di un’evidente mancanza di fiducia nel suo ministro del Welfare”. Ormai dimezzato e sempre più in ribasso.

(Articolo scritto il 2 febbraio 2016 con Antonio Pitoni per ilfattoquotidiano.it)

Il 2016 di Renzi: dalle unioni civili al conflitto d’interessi alla revisione della Costituzione. Ecco le riforme incompiute

martedì, gennaio 5th, 2016

Si preannuncia un anno difficile per il premier. A partire dal mese di gennaio. Tanti i provvedimenti rimasti nel limbo. Per le difficoltà politiche incontrate dalla maggioranza. Nella lista delle cose da fare anche ius soli, omicidio stradale, codice degli appalti e legge elettorale per le città metropolitane

renzi-67511Avrebbe voluto inserirle nella eNews che ha inviato ai suoi sostenitori pochi giorni fa. Quella con cui ha tessuto le lodi del suo governo, che ha approvato “leggi attese da molto tempo”. Dall’Italicum alla ‘Buona scuola’ fino alla riforma dell’articolo 18. Eppure, almeno stavolta, il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, ha dovuto fare i conti con la realtà. Con la fine del 2015, infatti, mancano ancora all’appello numerose riforme. Alcune delle quali fondamentali per lo storytelling dell’ex sindaco ‘rottamatore’ di Firenze. Insomma, il 2016 si preannuncia un anno difficile per il premier e i suoi ministri. Da gennaio tornano in Aula altri delicati dossier. Dalle unioni civili all’omicidio stradale. Dallo ius soli al reato di tortura fino al codice degli appalti. Senza dimenticare la riforma costituzionale, quella della prescrizione e del terzo settore.

Unioni civili Saranno il primo banco di prova del governo alla riapertura del Parlamento. A fine gennaio, infatti, l’Aula del Senato voterà il disegno di legge sulle unioni civili. Un provvedimento su cui Matteo Renzi è stato più volte costretto a fare marcia indietro. Nonostante le promesse di mandarlo in porto già nel 2015. Colpa principalmente di Area popolare, il gruppo che unisce Nuovo centrodestra e Udc, da sempre contrario alla cosiddetta “stepchild adoption” (cioè l’adozione da parte di uno dei due componenti di una coppia del figlio del partner). La ministra per le Riforme costituzionali, Maria Elena Boschi, non ha escluso la possibilità di un’alleanza “con altri” – ovvero il Movimento 5 Stelle – se i centristi dovessero passare al muro contro muro. Uno scenario che metterebbe in serio rischio la tenuta dell’esecutivo. Anche perché il leader di Ncd e ministro dell’Interno, Angelino Alfano, si è detto “pronto a tutto” pur di bloccare le adozioni da parte delle coppie gay. Non solo. Perché ci sono da superare anche le resistenze del Vaticano, che ha parlato di “un governo che mette all’angolo la famiglia tradizionale”.

Riforma costituzionale Anno nuovo, vita nuova? Il vecchio adagio popolare farà eccezione nel 2016 per le riforme costituzionali. Nonostante le promesse del presidente del Consiglio, Matteo Renzi (“nel 2015 porteremo a termine l’iter parlamentare delle riforme costituzionali”) poco meno di dodici mesi fa. Manca all’appello la seconda doppia lettura. Poi, in autunno, la parola passerà agli italiani che dovranno pronunciarsi con il referendum – che il premier ha già trasformato in plebiscito personale – sulla nuova Costituzione. Tra le novità introdotte dal disegno di legge che porta la firma del ministro per le Riforme, Maria Elena Boschi, il superamento del bicameralismo perfetto; un nuovo sistema per l’elezione del presidente della Repubblica e dei 5 giudici costituzionali di nomina parlamentare, scelti separatamente da Camera e Senato; cento senatori eletti insieme ai consiglieri regionali e con l’immunità; aumento delle firme per i referendum abrogativi e per le leggi di iniziativa popolare; abolizione del Cnel.

Omicidio stradale Il via libera definitivo dovrebbe arrivare alla ripresa dei lavori parlamentari. O almeno così ha promesso la ministra Boschi alle associazioni delle vittime della strada che da anni aspettano un provvedimento. Dopo il via libera della Camera, il 10 dicembre scorso, anche il Senato ha licenziato la legge che ora tornerà a Montecitorio per la quarta e ultima lettura. Eppure Renzi avrebbe voluto vederla approvata in via definitiva entro la fine del 2015. Ma cosa prevede? L’introduzione dei due nuovi reati di omicidio stradale lesioni personali stradali. Rischia una pena da 5 a 12 anni, che sarà triplicata in caso di omicidio multiplo (senza però superare i 18 anni di reclusione), chi si mette alla guida ubriaco o sotto l’effetto di droghe. Mentre chi è sobrio ma procura lesioni permanenti rischia da 6 mesi a 2 anni. Accantonato il cosiddetto “ergastolo della patente”, cioè la revoca definitiva che il premier avrebbe voluto introdurre.

Prescrizione e terzo settore Erano diventate priorità per il governo dopo la deflagrazione dello scandalo “Mafia Capitale” che ha investito le Coop. Ma tanto la riforma della prescrizione quanto quella del terzo settore non hanno ancora visto la luce. Ferme in commissione a Palazzo Madama, difficilmente approderanno in Aula prima della prossima primavera. Anche per le polemiche che hanno accompagnato, in particolare, la legge sui nuovi termini di decorrenza per la perseguibilità di alcuni reati. A cominciare dalla prescrizione per la corruzione che il testo approvato alla Camera in prima lettura ha elevato a 21 anni, provocando la dichiarazione di guerra del Ncd, deciso a dare battaglia sul provvedimento al Senato. Polemiche che non hanno risparmiato neppure la riforma del terzo settore: tra i punti contestati la mancata istituzione di un’Authority di vigilanza e la possibilità per le imprese sociali di distribuire gli utili.

Codice degli appalti È un’altra incompiuta di questo 2015. Si tratta della riforma del codice degli appalti, ora in discussione al Senato per la terza (e ultima) lettura. A inizio dicembre la commissione Lavori pubblici di Palazzo Madama ha licenziato il testo proveniente da Montecitorio lasciandolo praticamente invariato, visto che tutti gli emendamenti sono stati ritirati o respinti. Proprio per questo il provvedimento, che fra le altre cose affida nuovi poteri all’autorità anticorruzione di Raffaele Cantone, sarebbe dovuto andare in Aula prima della pausa natalizia. “Uno slittamento a gennaio non sarebbe un bel segnale per una riforma che tutti consideriamo necessaria”, aveva ammonito il relatore, Stefano Esposito (Pd). È andata diversamente. Con buona pace di Esposito.

Ius soli È da sempre uno dei cavalli di battaglia del presidente del Consiglio. Ma anche il provvedimento sul cosiddetto ius soli sta andando avanti a passo di lumaca. A metà ottobre la Camera ha dato il primo via libera al disegno di legge che prevede, di fatto, due modi di acquisizione della cittadinanza: lo ius soli temperato e lo ius culturae. Nel primo caso, potranno chiedere la cittadinanza italiana i minori figli di genitori stranieri di cui almeno uno sia in possesso di un permesso di soggiorno europeo di lungo periodo. Nel secondo, invece, il minore nato in Italia (o arrivato sul territorio entro i 12 anni) che abbia concluso almeno un ciclo scolastico nel nostro Paese. “Siamo ancora in pista per i diritti civili”, ha assicurato Renzi nelle ultime eNews. Vedremo.

Conflitto d’interessi A maggio scorso la ministra Maria Elena Boschi promise che il governo avrebbe portato in Parlamento il conflitto di interessi (di cui lei stessa è stata accusata nella vicenda che riguarda Banca Etruria) “già nelle prossime settimane”. Peccato che ad oggi, passati sette mesi, nessuno abbia ancora visto il provvedimento. Né alla Camera né al Senato. L’11 dicembre la commissione Affari costituzionali di Montecitorio ha approvato il testo base della legge, primi firmatari Francesco Sanna (Pd) e Francesco Paolo Sisto (Forza Italia), che dovrebbe sostituire la contestata ‘Frattini’ (2004). Ma senza il voto delle opposizioni, Sel e M5S. Una proposta che cerca di fare dei passi in avanti nel risolvere l’annosa vicenda, pur non senza diverse criticità. Come la questione dei conflitti non patrimoniali. Se ne riparlerà nel 2016. Forse.

Città metropolitane Si tratta di un argomento passato sottotraccia. Ma secondo quanto previsto dalla legge Delrio, entro aprile prossimo il Parlamento avrà il compito di varare la legge elettorale con cui dovranno andare al voto le tre principali città metropolitaneRoma, Milano e Napoli. In realtà ci sono scarse possibilità che ciò accada. A novembre, proprio a ilfattoquotidiano.it, il sottosegretario agli Affari regionali, Gianclaudio Bressa, ha affermato che “serve più tempo” perché “ci sono aspetti che non possono essere risolti con un provvedimento da approvare in tempi così rapidi”. Tradotto: se ne riparlerà fra 6 anni e i cittadini non potranno eleggere direttamente gli organi previsti dalla Delrio.

Reato di tortura Quando il 9 aprile di quest’anno è stata approvata alla Camera, dopo l’ok del Senato arrivato a marzo 2014, in molti hanno pensato che si trattasse della “volta buona”. Invece, da quel giorno, della legge che dovrebbe istituire anche in Italia il reato di tortura (reso ancor più necessario dopo la condanna della Corte europea dei diritti umani di Strasburgo per i fatti del G8 di Genova) si sono perse le tracce. Che il 2016 possa segnare la svolta? Difficile, se non addirittura impossibile. “Dopo le promesse primaverili siamo tornati nuovamente nel buio”, denuncia a ilfattoquotidiano.it il presidente dell’associazione Antigone, Patrizio Gonnella. “Il ddl sulla tortura è scomparso definitivamente dai punti all’ordine del giorno della commissione Giustizia del Senato – aggiunge –. Ancora una volta hanno vinto le lobby contrarie alla legge che sono riuscite a convincere le forze politiche ad affossare l’introduzione di questo reato nel codice penale italiano”.

(Articolo scritto con Antonio Pitoni il 4 gennaio 2016 per ilfattoquotidiano.it)