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Il Senato e la «materia conciaria»

venerdì, novembre 23rd, 2012

In tempi di crisi e spending review, al Senato si discute anche di come utilizzare i termini «cuoio», «pelle» e «pelliccia» (più quelli da essi derivanti o loro sinonimi). Titolo breve del ddl n. 2642 (approvato il 14 novembre), che ha come relatore Cosimo Izzo (Pdl) e tra i cofirmatari Nicola Latorre (Pd): «Disposizioni in materia conciaria». Lo scopo? Duplice:«Da un lato preservare i consumatori da inganni sui prodotti conciari e di pellicceria; dall’altro, tutelare il settore produttivo di riferimento da azioni scorrette provenienti soprattutto da imprese di Paesi esteri, (…) che ponevano in essere veri e propri comportamenti anticoncorrenziali pregiudizievoli per l’industria nazionale».

«Nel Pd non prevalga linea anti-Bersani. Il Pdl costruisca leadership collegiale» – da “Il Punto” del 16/11/2012

mercoledì, novembre 21st, 2012

Colloquio con Michele Prospero, docente di Scienza politica e filosofia del diritto alla “Sapienza” di Roma ed editorialista de “l’Unità”.

Professore, mesi fa lei si chiedeva se quelle del centrosinistra fossero primarie o «una sfilata». È riuscito a dare una risposta al suo interrogativo? 

«A quel tempo c’erano alcuni fattori di disturbo, fra cui le “bordate” di Renzi ad esponenti del suo stesso partito e il fatto che Vendola appoggiasse i referendum dell’Idv, che rendevano instabile la tenuta degli equilibri fragili del centrosinistra. Queste primarie sono una competizione esplicita, con toni e metafore per certi versi sopra le righe. La preoccupazione era che la diversità di cultura politica fra i candidati fosse così pronunciata da farle diventare uno strumento inefficace, perché quando fra chi partecipa c’è eccessiva distanza il meccanismo entra in crisi».

A seconda di chi la spunterà il centrosinistra andrà in una direzione o in un’altra. Se vince Renzi il rischio è la disgregazione…

«Questo pericolo c’è, perché i sostenitori di Renzi sono quelli che più di altri hanno sposato l’agenda Monti e disdegnano una politica delle alleanze. Il sindaco di Firenze si muove in maniera oscillante: aveva addirittura aperto ad una possibile cessione delle “chiavi del potere” all’attuale premier in caso di successo. Adesso invece Renzi sta segnando un distacco dall’esperienza tecnica e pare scettico su ogni ipotesi di accordo. Il rischio è che prevalga una linea ostile a quella che ha tenuto finora Bersani – il quale ha garantito una centralità sistemica al Pd attraverso la proposta di un’intesa fra i progressisti aperta ai moderati – che è l’orizzonte entro cui giocare la partita. Se si scatenano conflitti che lacerano questo terreno le strade sono due: ricreare l’Unione oppure riesumare la vocazione maggioritaria».

Per quanto riguarda il cambio delle regole, c’è il sentore che Bersani abbia aperto le porte a Renzi ma poi lo abbia ingabbiato… 

«A differenza della precedente tornata questa è una contesa accesa e ci sono preoccupazioni di tenuta. Le regole sono necessarie, e bisogna fare in modo che si avvicinino il più possibile a quelle delle elezioni, che siano cioè ritagliate sul corpo elettorale reale. Quelle decise per queste primarie sono in sintonia con i pronunciamenti della Corte suprema americana, la quale ha stabilito che un partito ha diritto a chiedere un elenco pubblico dei votanti e che la partecipazione senza appartenenza è illegittima. Fare primarie “aperte” in Italia vuol dire rendere i partiti entità scalabili rischiando di andare incontro ad un blocco unico, totalitario».

Nel Pdl, dove Alfano si è “ribellato” a Berlusconi, le primarie hanno senso oppure, in caso di fallimento, si rischia di andare alle elezioni senza un partito di area? 

«Le primarie potrebbero essere un fiasco e ciò potrebbe comportare il collasso definitivo del Pdl. Però senza un grande partito di centrodestra la democrazia italiana non funziona. Detto ciò, Alfano ha fatto bene a sfidare il Cavaliere: un partito come il Pdl non può sopravvivere se non rompe in maniera esplicita con il capopadrone. Il problema è che una lotta simile andava impostata prima, come ha fatto Maroni con Bossi, perché non ci sono uscite negoziali dal partito personale. C’è da augurarsi che il segretario riesca nel suo obiettivo, è interesse nazionale quello di avere un partito di centrodestra di stampo europeo».

C’è oggi una figura che potrebbe ridare smalto al Pdl? 

«All’interno del partito c’è già una rete di politici spendibili: penso ai tanti giovani (Fitto), agli amministratori che sono emersi in questi anni, oppure a Galan. Quella che va ricostruita è una leadership collegiale: le velleità personalistiche vanno messe da parte. E poi Alfano deve evitare di commettere un errore, cioè quello di accodarsi a Casini sulla legge elettorale. I loro interessi non coincidono. Il segretario deve contrattare un sistema di voto che consenta di mantenere l’ossatura bipolare».

C’è il rischio che tutto sia reso vano dal Monti-bis?

«Non credo ci sia la possibilità di uno scenario simile: Bersani dovrebbe farcela. Non regge un governo di larghe intese. Credo che in vista della riforma elettorale sia più efficace assegnare il premio al partito più grande che alla coalizione. Comunque, una soglia elevata come quella del 42,5 per cento per conseguire il premio riproporrebbe la centralità dei “cespugli”, delle piccole formazioni che cercano di aggregarsi in vista del voto».

Twitter: @GiorgioVelardi 

Questioni Primarie – da “Il Punto” del 16/11/2012

martedì, novembre 20th, 2012

Il 25 novembre tocca agli elettori del centrosinistra, poi sarà la volta di quelli del Popolo della Libertà. Le consultazioni per scegliere il candidato premier dei due schieramenti rischiano però di essere un grande “bluff”: l’impianto della nuova legge elettorale favorisce la riconferma del Professore a Palazzo Chigi e frena l’avanzata di Grillo 

E pensare che qualcuno, fra cui un big del Pdl come Gaetano Quagliariello, avrebbe voluto che fossero «regolate per legge». Le primarie uniscono, dividono, fanno litigare i duellanti. Portano a paragoni roboanti fra l’Italia e gli Stati Uniti, due realtà lontane anni luce messe sullo stesso piano nell’avanspettacolo pre-elettorale di casa nostra. Rischiano, in particolare, di essere un grande bluff, a sinistra come (e peggio) a destra. Regole arzigogolate, candidati variopinti, programmi latitanti. Ma soprattutto l’ombra di Mario Monti che aleggia sulle teste dei vari Bersani, Renzi, Alfano, Santanchè… Il Professore, visto l’impianto della nuova legge elettorale che tanto fa irritare il Partito democratico e gongolare Casini, ha recentemente fatto sapere che se alle prossime elezioni «mancasse una maggioranza in grado di governare» lui sarebbe disposto a continuare. Numeri alla mano, la grande coalizione (Pd, Pdl e Udc) è l’unica formula che darebbe certezza di governabilità al Paese e che frenerebbe l’avanzata del Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo, che dopo la Sicilia punta al colpo grosso in Parlamento.

QUI LARGO DEL NAZARENO - «Riscrivi l’Italia». Così recita il manifesto che chiama gli elettori del centrosinistra alle urne in vista delle primarie che si svolgeranno il prossimo 25 novembre (con eventuale ballottaggio il 2 dicembre). Più che l’Italia, però, la sfida che mette di fronte Pier Luigi Bersani, Matteo Renzi, Nichi Vendola, Laura Puppato e Bruno Tabacci rischia di riscrivere la geografia del centrosinistra. A seconda di chi vincerà la competizione quest’area politica potrebbe rimanere com’è, virare più al centro e meno a sinistra e viceversa, addirittura esplodere. In quest’ultimo caso il “bombarolo” si chiamerebbe Matteo Renzi. La possibile vittoria del sindaco di Firenze preoccupa non poco la segreteria di Largo del Nazareno. «Non succede, ma se succede…», dicono alcuni fra i volti noti del partito (fra cui il giuslavorista Pietro Ichino, che sul suo sito Internet ha pure pubblicato i «nove motivi per votare Matteo Renzi alle primarie») che hanno deciso di appoggiare la candidatura del «rottamatore». Che qualche personale successo l’ha già ottenuto: i vari Veltroni, Treu, Parisi e Turco hanno fatto sapere che non si ricandideranno. D’Alema, esperto di tattica, ha invece preso tempo: «Se vince Bersani lascio la poltrona, ma se dovesse spuntarla Renzi sarà scontro politico». Il che vuol dire una guerra intestina fra le varie correnti in cui il partito naviga da tempo: sarebbe l’ennesimo suicidio del Pd, ma non ci stupiremmo. Con il ticket Bersani-Vendola si andrebbe sul sicuro. Il leader dei democratici e quello di Sel viaggiano sulla stessa lunghezza d’onda e a testimoniarlo c’è pure la “Carta d’intenti” che hanno sottoscritto (insieme al socialista Nencini) ad inizio ottobre. Un patto vincolante fondato su 10 parole chiave – fra cui Europa, democrazia, lavoro, uguaglianza – che punta ad andare «oltre Monti» e che è, per dirla con il governatore della Puglia, «alternativa ai pensieri conservatori di Casini». Per “Matteo”, che l’ha subito bollata come «generica», si tratta di uno dei tanti bocconi amari mandati giù in questi mesi. Oltre al caos delle regole – il primo cittadino toscano non ha digerito l’impossibilità di esprimersi per i 16-17enni, malgrado questi avessero votato nel 2009 – il “tiro mancino” che Bersani gli ha giocato rischia, in caso di vittoria, di portarlo all’isolazionismo. «Né con Casini né con Vendola», ha precisato Renzi in un’intervista ad Avvenire prima di compiere una parziale retromarcia, resa necessaria dall’aver capito che l’Italia non è l’America di Obama e che la strategia di Veltroni del 2008 («Corriamo soli») si è rivelata fallimentare. Ma della contesa fanno parte anche Laura Puppato e Bruno Tabacci. Meno esposti degli altri tre contendenti, per la corsa alla premiership ci sono anche loro. Entrambi rappresentano l’ala cattolica del centrosinistra, quella che per intenderci “sposerebbe” Casini e “divorzierebbe” da Vendola. Puppato, unica donna in corsa, pone al centro del suo programma la Green e la Blue economy, e al tempo stesso non chiude le porte ai matrimoni gay («Sono una cattolica adulta e dunque penso che lo Stato debba essere laico e garantire a tutti i diritti civili») e all’alleanza con l’Udc («Non vedrei affatto male un’intesa con i centristi, ma vorrei che da parte loro ci fosse chiarezza»). Infine c’è l’assessore milanese, ex Dc, poi Udc e ora Api, per cui è necessario «apportare delle modifiche alla “Carta d’intenti”» inserendo alcuni punti dell’ormai nota «agenda Monti». Uno degli ultimi sondaggi di Swg vede Bersani in vantaggio di ben 14 punti percentuali su Renzi (41% contro 27, con Vendola al 15), che potrebbe giocarsela ai “tempi supplementari“. Difficile, ma non impossibile, una rimonta al fotofinish.

QUI VIA DELL’UMILTÀ - In casa Pdl le primarie stanno diventando un affare di Stato. Berlusconi non le vuole – e stavolta non sono “retroscena” di «certa stampa» – ma si faranno. L’ufficio di presidenza dello scorso 8 novembre è stato uno spartiacque storico per il partito. Per la prima volta Alfano è andato contro il padre-padrone e ha imposto la sua linea. «Basta diktat del Cavaliere, è il momento che io assuma il controllo», avrà pensato nella sua testa “Angelino” prima di parlare chiaro e tondo ad alta voce: «Mi prendo la responsabilità delle primarie. O decidiamo oggi o saremo dei barzellettieri (o “barzellettati”, come da chiarimento postumo dell’entourage del segretario, ndr). Qual è l’alternativa? – ha domandato l’ex ministro della Giustizia – Inseguire qualche gelataio o qualche leader di Confindustria?» (ovvi i riferimenti al patron di Grom Guido Martinetti e al presidente della Ferrari Montezemolo). Quindi avanti tutta con un meccanismo con cui il Pdl non ha mai fatto i conti e che rischia di portarlo alla definitiva liquefazione. Su questo punto Berlusconi è stato chiaro: «Non si tratta di un procedimento salvifico, anzi usciranno allo scoperto le nostre faide interne, quelle che hanno schifato i nostri elettori. Ho commissionato dei sondaggi e non sono buoni». Ad oggi, secondo una rilevazione di Datamonitor anticipata domenica da il Giornale, solo il 5,4% dell’elettorato del Pdl voterebbe alle primarie. Una catastrofe, anche se è ovvio che il loro valore sia limitato dal momento che sullo sfondo ci sarà sempre lui, il Cavaliere, che – tanto per dirne una – nominerà i 5 garanti che dovranno vigilare sul regolare svolgimento della competizione. Insomma, in un modo o nell’altro chiunque vincerà dovrà chiamarlo in causa prima di prendere una decisione. Cambiare tutto per non cambiare nulla. Ma oltre ai problemi politici ci sono quelli di budget: il Pdl pare avere le casse vuote – sarebbero addirittura a rischio gli stipendi dei dipendenti –, dunque  quelle che si svolgeranno saranno primarie low cost, con i votanti costretti a versare fra i 2 e i 3 euro. Per ora, comunque, le candidature sono sette: Angelino Alfano, Daniela Santanchè, Giancarlo Galan, Alessandro Cattaneo (il sindaco «formattatore» di Pavia), Guido Crosetto e il leader dei “Moderati italiani in rivoluzione” Gianpiero Samorì, possibile outsider “benedetto” da Berlusconi e amico di Marcello Dell’Utri e Denis Verdini. Per il Cavaliere potrebbe essere il “Papa straniero” che va cercando da mesi, o il «dinosauro» da estrarre dal cilindro.

IL FANTASMA DI MONTI - Poi c’è la terza via, quella del «è tutto inutile». Perché se è vero che i partiti sono in fermento per ripulire e democratizzare le liste, dall’altra quanto accade in Parlamento sul versante della legge elettorale potrebbe consegnare agli italiani il famigerato scenario del «Monti dopo Monti». Ad oggi, nessuna delle possibili coalizioni raggiungerebbe la soglia del 42,5% utile a prendere il premio per governare. Dunque solo la riproposizione della «strana maggioranza» che oggi sostiene il governo del Professore (e del presidente della Repubblica) consentirebbe di arginare l’avanzata della cosiddetta “antipolitica” di Beppe Grillo e del suo Movimento 5 Stelle. Il Pd non ci sta, ma al suo interno qualche franco tiratore non disdegnerebbe la prosecuzione dell’esperienza tecnica. Stessa cosa accade nel Popolo della Libertà. Poi c’è l’Udc, di cui il pensiero si conosce da tempo. Insomma, alla fine per gli italiani queste primarie rischiano di diventare la più grande presa in giro della Seconda Repubblica.

Twitter: @GiorgioVelardi

«Vinco le primarie? Azzero il Pdl» – da “Il Punto” del 9/11/2012

sabato, novembre 17th, 2012

«Se vinco le primarie azzero il Pdl. Vorrei fare un patto con gli italiani: portiamo le tasse al 30% ma paghiamole tutti». Questo il pensiero di Daniela Santanchè, candidata alla corsa per la guida del partito.

Nelle ultime settimane è diventata il bersaglio di alcuni colleghi di partito per alcune sue affermazioni. Quanti però la pensano come lei?

«Tantissimi. Poi avere il coraggio di dirlo pubblicamente è un’altra questione. In molti credono che ci sia bisogno di cambiare, facendo primarie con regole che consentano di avere come vincitore la partecipazione».

Il Pdl crolla in Sicilia e rischia di perdere i moderati. Potreste ritrovarvi in un vicolo cieco…

«Quanto successo in Sicilia è la rappresentazione plastica della “guerra fra bande”, che ci ha portati alla sconfitta. L’astensionismo mi preoccupa, però annoto che il mercato elettorale del centrodestra è rimasto intatto: sommando i voti di Musumeci e Micciché avremmo vinto. È il prodotto politico che è venuto meno. L’80% del nostro elettorato è contro il governo Monti, che noi continuiamo a sostenere. Il Pdl non è più nel cuore degli italiani, bisogna fare scelte diverse».

Ipotizziamo che lei vinca le primarie. Come rilancia il Pdl?

«Azzerando tutti, basta professionisti della politica. Io non voglio che in Parlamento ci sia qualcuno che non abbia mai lavorato un’ora in vita sua facendosi mantenere dagli italiani. Bisogna diminuire del 50% i costi della politica, ogni anno si spendono 20 miliardi di euro. Se è vero quello che dicono i magistrati, il caso Fiorito dimostra che ci sono troppi soldi a disposizione, quindi va abolito completamente il finanziamento pubblico. E poi farei un patto con gli italiani, di cui mi fido ancora molto. Vorrei guardarli negli occhi e dirgli che le tasse le portiamo al 30%, però bisogna che tutti le paghino. Questo è l’ultimo giro, altrimenti ci ritroviamo con un commissario europeo in casa che ci dice cosa fare».

Dall’altra parte del ring c’è Alfano… 

«Essere segretario del Pdl e avere un presidente come Berlusconi è difficile. Lui però doveva rinnovare, senza portare avanti una linea politica che andasse a braccetto con Monti e senza presentarsi con il cappello in mano da Casini, con cui i rapporti andavano chiusi da tempo visto che dice che “si può parlare solo se Berlusconi va ai giardinetti”. Sono errori indotti non solo da lui, però andava fatto di più».

Twitter: @GiorgioVelardi

La terribile settimana di Fini – da “Il Punto” del 16/11/2012

venerdì, novembre 16th, 2012

C’è stato un tempo in cui Gianfranco Fini era indicato da molti come il leader di una destra italiana di respiro internazionale. Una destra che aveva chiuso a chiave nel cassetto un passato poco glorioso per la storia del nostro Paese e che guardava al futuro con accenti meno marcati su temi quali l’immigrazione, le disuguaglianze, le pari opportunità. C’è stato, appunto. Perché la parabola discendente compiuta dall’attuale presidente della Camera rischia oggi di provocarne addirittura la fuoriuscita dal Parlamento. Stando agli ultimi sondaggi, Futuro e Libertà per l’Italia sarebbe ben lontano dalla soglia di sbarramento (4 per cento) stabilita dalla legge elettorale per accedere ai “palazzi”. Per Spincon (istituto di sondaggi online indipendente), infatti, solo l’1,8 per cento degli italiani voterebbero per il partito di Fini, mentre per Emg la percentuale salirebbe al 2,7 per cento (media: 2,3 per cento). Si tratta, comunque, del capitolo conclusivo di una storia dal finale amaro, sia per l’ex leader di Alleanza nazionale che per molti suoi compagni di viaggio. Una vicenda cominciata nel marzo del 2009, quando An fu sciolta per confluire nel Popolo della Libertà. Un partito in cui i rapporti di forza erano evidentemente squilibrati già in partenza. Questo perché Fini non aveva a che fare con un leader qualsiasi, ma con Silvio Berlusconi. L’uomo più potente del Paese. Colui che ad aprile del 2010, in occasione della Direzione nazionale del Pdl, lo cacciò pubblicamente da una creatura che era nata, cresciuta e modellata a sua immagine e somiglianza, in cui il dissenso non era (e in parte ancora non è) contemplato. «Un match senza precedenti, nel quale a prevalere è più la distanza personale che quella politica», scrisse il Giornale commentando l’accaduto. Da quell’incontro ravvicinato con il “peso massimo”, Fini uscì con le ossa rotte. Pensò che lo strappo gli avrebbe permesso di accaparrarsi le simpatie anche di chi fino a quel momento lo bollava ancora come «fascista», malgrado lui nel 2003, nel corso di un viaggio a Yad Vashem (Israele), definì il ventennio mussoliniano «il male assoluto». Così non andò. Per rimanere in vita Fli si è accodato a Udc e Api, dando vita ad un Terzo polo che si è sbriciolato ancora prima della conclusione dei lavori, e ha perso pezzi importanti quali Ronchi, Urso, Scalia, Rosso, Viespoli, Barbareschi… Nel frattempo di sottofondo, per Fini, c’erano gli echi della vicenda della casa di Montecarlo, che periodicamente regala aggiornamenti non certo esaltanti per moglie e cognato. Quel che è certo è che la settimana scorsa sarà ricordata a lungo dal presidente della Camera. Lunedì 5, ai funerali di Pino Rauti, storico segretario del Movimento sociale italiano che non accettò mai la “svolta di Fiuggi”, Fini viene pesantemente contestato dai camerati, che arrivano addirittura a sputargli addosso e ad accostarlo a Pietro Badoglio. «Un paio di tipi muscolosi hanno provato ad avvicinarsi, allora mi sono alzata e gli ho puntato contro l’ombrello», ha rivelato Assunta Almirante (moglie dello scomparso Giorgio, di cui il leader di Fli è stato a lungo il “delfino”), che lo ha difeso. Pochi giorni più tardi, poi, Fini tende la mano ad Alfano – «Con lui si potrà davvero aprire una pagina nuova per tutti i moderati italiani. E personalmente ne sarò lieto» – ma il segretario del Pdl lo gela: «La sua storia con l’elettorato di centrodestra è chiusa». Dice il vecchio adagio: «Chi è causa del suo mal pianga se stesso».

Twitter: @GiorgioVelardi 

Il salto del Grillo – da “Il Punto” del 2/11/2012

lunedì, novembre 5th, 2012

Crocetta conquista Palazzo d’Orleans grazie ai voti dell’Udc, che rimescolano le carte in ottica nazionale. Ma a fare notizia è il boom del Movimento 5 Stelle. A picco il Pdl. Biancofiore: «La classe dirigente del partito si faccia da parte»

Alla fine ha avuto ragione Pietro Barcellona, comunista fino al midollo, maestro di diritto e personalità di spicco a Catania, di cui ha parlato domenica scorsa il Fatto Quotidiano: «Vincerà il partito degli astenuti». Così è stato, perché il 52,6 per cento dei siciliani ha preferito fare altro piuttosto che recarsi alle urne per decidere chi, dopo Lombardo, avrebbe dovuto sedere a Palazzo d’Orleans. Certo è che il partito del non-voto è andato a braccetto con uno che invece un simbolo e un candidato in carne e ossa ce l’aveva: il Movimento 5 Stelle. «Cancelleri (aspirante governatore degli “attivisti 5 stelle”, ndr) potrebbe arrivare al 15 per cento», andava dicendo Beppe Grillo negli ultimi giorni di campagna elettorale. Si è andati oltre, anche se non abbastanza per battere Rosario Crocetta (centrosinistra), nuovo presidente della Regione. Per capire l’exploit basta comunque rileggere quanto Grillo e i suoi raccolsero nel 2008: 1,7 per cento, dieci volte di meno. Dalla Sicilia al Parlamento il passo sembra essere breve, anche se «è difficile proiettare questo dato su base nazionale», dice a Il Punto il direttore di IPR Marketing Antonio Noto. «Grillo ha avuto il merito di condurre una grande campagna elettorale, spendendosi in prima persona soprattutto negli ultimi quindici giorni. Secondo i nostri calcoli, questo fattore ha portato ad un incremento del 7/8 per cento in termini di voti». Quello del comico genovese può essere dunque il primo partito in Italia? «Tutto può succedere – risponde il sondaggista –. In questo momento il M5S non lo è ancora, però con un ritmo simile ciò che è accaduto in Sicilia potrebbe avvenire anche alle elezioni nazionali». Poi il direttore di IPR Marketing mette in luce un aspetto importante: «Grillo è passato dal web alle piazze, non attrae più solo gli internauti ma anche coloro che fanno politica attiva nei luoghi tradizionali. Oggi il suo movimento oscilla fra il 16 e il 20 per cento». Sembra essere questo uno dei motivi che ha spinto una buona fetta dei siciliani a votare per il suo Movimento. Come ci racconta Rosario, 33 anni, che parla di «un modo di fare politica nuovo, per alcuni versi rivoluzionario. Una politica partecipata da cittadini per i cittadini, dove ognuno vale uno. La Sicilia, come altre Regioni, convive da anni con sperperi e clientelismo. Conoscendo di persona Cancelleri ho avuto modo di capire la genuinità della sua persona nonché la pacatezza e la coscienziosità nell’affrontare la corsa alla Regione. Il tutto senza che nessuno documentasse ciò che stava avvenendo nelle piazze siciliane. Mi ha dato fiducia vedere una persona come me piuttosto che un inarrivabile uomo in auto blu – continua Rosario –. La “casta” dei politicanti ha avuto la propria occasione, fallendola. Perché dare ancora fiducia a chi ci ha portato allo scatafascio? I seggi raccolti saranno determinanti nella vita e nelle decisioni prese dal nuovo governatore e dalla sua giunta. Credo servirà a darsi una “regolata”», conclude. L’altra faccia della medaglia è quella del Pdl, su cui sembrano essere definitivamente scorsi i titoli di coda. Pur sommando i voti raccolti dal partito e quelli presi dalla Lista Musumeci il crollo rispetto alle precedenti regionali è evidente e pesante. Lontano anni luce dal 33,5 per cento che il solo Popolo della Libertà raccolse quattro anni fa, quando Raffaele Lombardo doppiò la candidata del Pd Anna Finocchiaro. E, manco a dirlo, sul banco degli imputati è finito ancora una volta il segretario Angelino Alfano, che pure ha già formalizzato la propria candidatura alle primarie di dicembre. Daniela Santanchè vorrebbe la sua testa, mentre l’”amazzone” Michaela Biancofiore la pensa in maniera diversa. «Personalmente ho sempre messo in guardia Alfano dall’appoggiarsi sulla classe dirigente del Pdl. Questa sconfitta non può essere colpa sua, visto che è alla guida del partito da un anno – dice Biancofiore a Il Punto –. Certo è che lui poteva fare molto di più: aveva l’oro in mano e un partito genuflesso ai suoi piedi. Invece, forse per troppa educazione o per mancanza di coraggio, non ha avuto quella spinta innovatrice che ci voleva già all’epoca. Il decremento dei voti – prosegue ancora la deputata del Pdl – è iniziato il giorno dopo che siamo andati al governo: colpa di una dirigenza che si è imborghesita e che non riesce a cogliere la volontà dell’elettorato. In Sicilia tutto ciò è apparso chiaro: Musumeci più Miccichè insieme avrebbero raccolto oltre il 40 per cento dei voti. Una vittoria netta se non per i soliti personalismi che hanno portato all’allontanamento di Miccichè, prima sponsorizzato da Berlusconi e Alfano e poi fatto fuori da un giorno all’altro quando è intervenuto qualcuno, di cui non faccio nomi. Per preservare la propria poltrona c’è chi ci ha portati alla sconfitta. Le primarie? Ma le primarie di cosa? Dimettiamoci tutti e lasciamo che sia Berlusconi a decidere il da farsi». Poi ci sono i vincitori, che pure hanno le loro gatte da pelare. Perché Crocetta ha vinto grazie ai voti dell’Udc, che nell’economia del successo sono stati fondamentali. Un risultato che sconquassa i piani a livello nazionale? «L’Udc in Sicilia non è quello di Roma, così come il Pd siciliano è quello che si è alleato con Lombardo e nel quale non mi riconosco in modo così naturale. Questo risultato ci impone di ascoltare gli elettori: è un messaggio di malessere che deve portare ad una riforma radicale della politica» commenta Ivan Scalfarotto, dirigente del Partito democratico. «Al di là dei singoli casi, trovo che sia un risultato elettorale preoccupante per l’Italia – incalza Scalfarotto –. È il ritratto di un Paese difficile da governare, con i cittadini hanno voltato le spalle alla politica. Bisognerà fare in modo che la nuova legge elettorale non produca frammentazioni, altrimenti sarebbe un disastro. Pensare ad un sistema proporzionale con premio al primo partito non ha senso. Ci vuole invece un maggioritario con premio di coalizione». Cosa accadrà a livello nazionale resta dunque un’incognita. Nell’isola, dopo l’esclusione di Claudio Fava, Sel ha sostenuto Giovanna Marano (Fiom), che non ha raccolto i risultati sperati. E anche l’Idv non è andata granché. Nel day after i dubbi restano annidati sul tavolo di Pier Luigi Bersani. Grillo è pronto a saltare molto più vicino di quanto il segretario del Pd possa immaginare.

Twitter: @GiorgioVelardi 

Scacco matto al Pirellone – da “Il Punto” del 26/10/2012

giovedì, novembre 1st, 2012

Viaggio fra i gazebo che hanno animato Milano lo scorso weekend. I militanti del Carroccio vogliono andare al voto ad aprile, auspicano che Roberto Maroni sia il nuovo governatore della Regione e dicono basta all’alleanza col Pdl: «Meglio perdere ma conservare l’onore»

«Speriamo ci sia il sole», si auguravano i leghisti duri e puri in vista della “gazebata” dello scorso fine settimana. E il sole c’era. Compreso quello “delle Alpi”, presente sulle bandiere che i militanti hanno posizionato con estrema cura negli oltre 1.600 punti di ritrovo che hanno “invaso” la Lombardia. La Regione che è stata, per quasi un ventennio, nelle mani di Roberto Formigoni. Ora che il cielo sopra la testa del “Celeste” è diventato nero, però, la Lega 2.0 si candida per la cabina di regia del Pirellone. Non sarà facile. Lo scontro in corso nelle ultime settimane fra il governatore uscente e i vertici del Carroccio si fa sempre più aspro: Formigoni non ci sta a passare la mano ad un leghista. Tanto che su Twitter, sabato, scriveva: «A Varese il Pdl ha offerto mele, un prodotto che dà forza, la Lega camomilla, un composto che dà sonnolenza». Commento all’ironica iniziativa di un gruppo di militanti leghisti che durante il comizio del presidente – contestato da una decina di attivisti della Fiamma tricolore – hanno girato portando fra le braccia un’enorme tazza di camomilla. Fra i gazebo, però, la base è sicura: «È il nostro momento, Maroni può essere il nuovo Formentini». Poi c’è chi si sfoga: «Basta andare a braccetto con il Pdl, meglio perdere ma conservare l’onore».

L’ORA DI “BOBO” - «Ai gazebo!», titolava la Padania (organo ufficiale del Carroccio) nel primo dei due giorni della “gazebata”. La Lega ha raccolto le firme per tre leggi di iniziativa popolare. La prima proposta: trattenere sulle Regioni del Nord il 75 per cento delle tasse. La seconda: indire un referendum per «un’Europa fondata sui popoli e le regioni, con l’adesione all’euro limitata a chi rispetta il pareggio di bilancio». La terza: introdurre l’ammissibilità di referendum abrogativi sulle leggi tributarie e di ratifica dei trattati internazionali. Ma l’aspetto più importante ha riguardato il futuro della Lombardia. «Quando volete votare e soprattutto chi pensate debba essere il nostro candidato?», si domandava a militanti e non. Le risposte (tante, 200mila solo nel primo giorno) sono state scontate: «ad aprile (e non a dicembre, come ripete Formigoni, ndr) e con “Bobo” Maroni a rappresentarci». Lo zoccolo duro del partito la pensa così. Come Pierluigi Crola, 55 anni, da 26 nella Lega, per cui è stato consigliere comunale (1990) e provinciale (dal 1991 al ’95). Lo incontriamo al gazebo di Piazza Loreto. È sicuro, Pierluigi, che «la seconda Lega» debba essere «la continuazione della prima, perché gli obiettivi sono gli stessi di sempre, fra cui l’indipendenza». E che «con il Pdl io non ci voglio più andare. Ma è un’opinione personale. Lo scriva, mi raccomando» (non sarà comunque il solo a pensarla così). Insieme a lui c’è Ferdinando. Si definisce «un leghista meridionale, perché vengo da Molinara, in provincia di Benevento. E proprio per questo dico: noi non vediamo il Sud come una zavorra così, per caso, ma perché diciamo da tempo che in certe zone bisogna cambiare mentalità. Basta “padrini”, bisogna rimboccarsi le maniche. E attenti – tuona – che la fame non è ancora arrivata nei piatti degli italiani». Roberto (66) si trova invece a Piazzale Oberdan. Si domanda (dopo aver sentenziato che «Formigoni ha superato i limiti»): «Possibile che il “Celeste” non si sia mai accorto di ciò che accadeva? Che governatore è?». Per lui il segretario del Carroccio può prendere i voti anche da chi non ha mai votato la Lega. Persino «quelli dei moderati – azzarda –. Se lo ricorda lei Formentini? Ecco, Maroni può ripetere quell’esperienza lì». Era il 1993 quando si aprì una parentesi che durò l’arco di una legislatura. Marco Formentini, ex socialista, vinse le elezioni e divenne il primo (e finora unico) sindaco di Milano leghista. Un’esperienza positiva a metà, visto che solo sei anni dopo l’ex primo cittadino lasciò la Lega, di cui non condivideva più buona parte dei valori. Con Maroni, leghista della prima ora che ha “ripulito” il partito a colpi di ramazza, sarebbe certamente un’altra storia.

«CORRIAMO DA SOLI» - Venerdì 19 ottobre, vigilia della “gazebata”, la Procura della Repubblica di Monza ha notificato un avviso di garanzia per corruzione (nell’ambito di un’inchiesta per tangenti) a Sandro Sisler, coordinatore provinciale del Pdl a Milano. Gli inquirenti indagano da luglio su un sistema di tangenti nel Comune di Carate Brianza, di cui Sisler è stato assessore all’urbanistica. È l’ennesima brutta storia che colpisce la Lombardia. E che arriva a soli dieci giorni di distanza dall’arresto dell’assessore alla Casa della Regione Domenico Zambetti (Pdl), accusato di essere stato eletto con i voti della ‘ndrangheta – cui avrebbe versato 200mila euro in cambio di 4000 preferenze – e 15esimo indagato del consiglio regionale lombardo. Formigoni compreso. «Questa è gente che ha prodotto risultati scarsi, per non dire nulli. Diciamo basta all’alleanza col Pdl: meglio perdere ma conservare l’onore che vincere con questi qua», dice Gianni, che da Piazza Wagner rivendica di essere stato «uno di quelli che la Lega l’ha fondata». Anche lui ce l’ha con Monti, come buona parte dei militanti leghisti. «Questo governo ha solo aumentato le tasse ma non ha affrontato i problemi reali del Paese. L’Imu è stata una sassata – continua –, quest’anno le tredicesime se ne andranno per pagare le imposte. Di questo passo l’economia non ripartirà mai. La gente pensa che la soluzione sia Grillo. Che potrebbe vincere sì, ma per disperazione: leggere il suo blog fa paura». Volente o meno, Gianni mette sul piatto uno dei temi caldi al centro della discussione: l’alleanza con il Popolo della Libertà. O di quel che ne rimane. Perché se Maroni dichiara che questa «va salvata», buona parte del suo popolo la pensa all’opposto. Maria Agnese, 56 anni, disoccupata, è chiara: «Io ho sempre votato Lega. Ho smesso da quando abbiamo iniziato ad andare a braccetto con Berlusconi. Al segretario dico: stacchiamoci, andiamo da soli, altrimenti riperdiamo un’altra volta. Le posso assicurare – conclude – che il mio è un pensiero radicato». «Con il Pdl in Lombardia si è governato bene, ma prima di tornare al voto ci sono delle questioni da risolvere, prime fra tutte l’approvazione del bilancio e la riforma della legge elettorale», afferma dal gazebo di Via Washington l’assessore provinciale Stefano Bolognini, che non teme un nuovo effetto-Pisapia: «Il rischio è basso, ma vincere è tutt’altro che scontato».

“IL MATTEO” (SALVINI)  - Sarà anche bassa, ma la possibilità che si ripeta quanto accaduto alle Amministrative dello scorso anno (quando Giuliano Pisapia conquistò Milano a spese di Letizia Moratti) c’è. «A noi si è ingrossato il fegato a furia di dire a Berlusconi che la Moratti proprio non la volevamo, e abbiamo perso. Ma dopo un anno di amministrazione Pisapia la gente si sta ricredendo», rivela Roberto. «Qualsiasi altra persona avessero candidato al posto della Moratti – gli fa eco Gianni – Pisapia non avrebbe mai vinto». E chissà che quella «qualsiasi altra persona» non sarebbe potuta essere Matteo Salvini. “Il Matteo”, come lo chiama Bruno Baldi, uno che nel 2003 è finito nella lista dei 170 «grandi» della Padania, e che da queste parti è un’istituzione. Il segretario nazionale della Lega Lombarda arriva alle 16.00 al gazebo di Largo Cairoli. Si arma di megafono e chiama a raccolta i passanti: «Noi siamo per Maroni, ma potete anche votare Formigoni. Non sono le primarie del Pd, qui si vota gratis!». Gli si avvicina un signore sulla 50ina: «Io sono siciliano, ma voto per te perché sei bravo». Un altro gli da un consiglio: «Quando vai in televisione non ti far mai mettere i piedi in testa da nessuno, te capì?». Lui vota per Maroni, rifornisce di volantini alcuni militanti e il neo capogruppo in consiglio comunale Alessandro Morelli («Tieni Ale, datti da fare», gli dice scherzando), poi prende di nuovo il megafono e ricomincia. Salvini è il volto di una Lega che è riuscita a rinnovarsi dopo gli scandali, quella che ha “salutato” Bossi, per tutti ormai «un padre putativo». Una politica che sta pagando, almeno al Nord. Tanto che un recente sondaggio commissionato dal Carroccio alla Swg di Roberto Weber vede, in Lombardia, Lega e centrosinistra insieme al 22 per cento, con il Pdl sprofondato a 13. Ma a far sorridere Maroni è la percentuale di lombardi che lo vorrebbero presidente di Regione: 30 per cento. Dietro di lui ci sono l’ex sindaco di Milano Gabriele Albertini (11 per cento), prima scelta di Formigoni – anche se «non ho ricevuto alcuna richiesta dal Pdl, il partito non si è ancora pronunciato sulla mia candidatura in Lombardia», dice il diretto interessato –, Salvini (8) e Formigoni (3). A sinistra c’è invece grande incertezza. Umberto Ambrosoli, figlio di Giorgio, l’avvocato assassinato nel luglio del 1979 per volontà di Michele Sindona, ha rinunciato alla candidatura. Fortemente spalleggiato da Pisapia, Ambrosoli ha però spiegato che «servire la collettività, vivere la responsabilità politica, è la più nobile delle ambizioni. Ringrazio quanti mi ritengono all’altezza, ma ho troppo poco tempo a disposizione per costruire un progetto e un programma per la Lombardia». A circolare, almeno ufficiosamente, ci sono fra gli altri i nomi di Bruno Tabacci (Api) e Giuseppe “Pippo” Civati (Pd). Ma è uno scenario ancora tutto in divenire. Ad oggi, però, Maroni sembra il candidato più accreditato per la vittoria finale. Anche se, tra il dire e il fare, c’è di mezzo la volontà di Formigoni.

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Se i rottamati diventano rottamatori – da “Il Punto” del 26/10/2012

martedì, ottobre 30th, 2012

Tanto spirò il vento della «rottamazione» che alla fine i rottamati si trasformarono in rottamatori. Succede anche questo nell’Italia che cammina (a rilento) verso la Terza Repubblica, o che forse torna (correndo) alla Prima. Fatto sta che a pochi mesi dalle elezioni, con una legge elettorale ancora in fase “embrionale” e senza uno straccio di programma di cui poter discutere, l’attenzione è catalizzata in toto su chi deve essere “pensionato” o “dimesso”. Nel Pd come nel Pdl. Fra i democrat il protagonista assoluto è Massimo D’Alema. Il premier del “ribaltone” (dopo la caduta del governo Prodi del 1998), poi parlamentare europeo, ministro degli Esteri, membro di svariate commissioni (fra cui quella della pesca), vicepresidente dell’Internazionale Socialista e numero uno del Copasir. Da quasi 25 anni in Parlamento. Aveva pensato di non ricandidarsi, D’Alema. «Ne avevamo perfino parlato io e Bersani, un paio di mesi fa – ha rivelato lui –. Gli avevo detto: ragioniamo, troviamo un modo per un mio impegno diverso… Valutiamo assieme l’ipotesi che io non mi ricandidi al Parlamento. Ma ora no. Così, per quanto mi riguarda, no. Poi, naturalmente, parlerà il partito». Frasi pronunciate prima del “passo indietro” – o “autorottamazione” – di un altro pezzo da novanta del Partito democratico: Walter Veltroni. Il suo annuncio di non ricandidarsi ha provocato un effetto a cascata che finora ha portato con sé i vari Castagnetti, Turco, Treu, Parisi… Ma non D’Alema. O almeno non ufficialmente. Perché, ha detto il lider Maximo nel salotto televisivo di “Otto e mezzo” su La7, «se vince Bersani metterò a disposizione il mio posto in lista e non chiederò deroghe, ma se vince Renzi ci sarà uno scontro politico». Parole che portano a formulare tre domande. La prima: perché il Pd, in un momento di totale violazione delle regole da parte di una certa politica, crea scorciatoie per violarne una che fra l’altro è nel suo Statuto, e che prevede il limite dei tre mandati – cioè 15 anni in Parlamento – per i suoi deputati e senatori? La seconda, consequenziale: perché inserire quella norma nel regolamento del Pd, vista la presenza (già al tempo) di alcuni “fuoriquota”? Infine: cosa farà D’Alema in caso di vittoria (difficile, ma non certo impossibile) di Renzi? Darà veramente vita ad una nuova creatura di sinistra, dal sapore europeo e in combinata nordica con Vendola – come ipotizzato sette giorni fa da il Fatto Quotidiano – con il serio rischio di far esplodere il Partito democratico? Quesiti ai quali il presidente del Copasir dovrebbe rispondere facendo chiarezza. Sull’altra sponda del Tevere le acque sono sempre più agitate. “Colpa” di Daniela Santanchè. Quella che il 25 marzo del 2008 rivolgeva un appello alle donne italiane: «Non date il voto a Silvio Berlusconi, perché ci vede solo orizzontali e mai verticali». Al tempo, la ”pasionaria” azzurra militava ne La Destra di Storace. Poi è tornata all’ovile, è stata nominata sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e dopo la caduta dell’esecutivo guidato dal Cavaliere è diventata una delle maggiori oppositrici di Monti. Ma anche della nomenklatura del suo partito. Che, ha tuonato lei pochi giorni fa, dovrebbe dimettersi in blocco. Sarebbe difficile riepilogare tutte le reazioni dei suoi colleghi di partito. Basta quella del segretario Alfano, che ha definito il suo atteggiamento «sfascista» (e menomale che c’era la “s” davanti alla “f”…). Anche lei, da possibile rottamata – o “formattata”, per dirla con i giovani di centrodestra – vuole salvarsi rilanciando. Ma senza disporre di assi nella manica.

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Il fallimento delle fusioni a freddo – da “Il Punto” del 5/10/2012

lunedì, ottobre 8th, 2012

C’erano una volta Pdl e Pd. I due partiti che alle ultime elezioni politiche (2008) raccolsero, sommandoli, il 71 per cento dei voti degli italiani. Soggetti nati per evitare l’ingresso in Parlamento di “partitini” e ali estreme (colpevoli di minare l’italica ossessione bipolare) e per dare l’idea di solidità, indivisibilità, uguaglianza di vedute. È accaduto l’esatto contrario. Non solo sotto il profilo numerico – dopo il caso-Lazio le due formazioni raccolgono insieme circa il 45,5 per cento dei consensi – ma soprattutto sotto quello programmatico. Alzi la mano chi ha capito quali siano, ad oggi, le proposte di Pdl e Pd in vista del ritorno alle urne (e faccia lo stesso anche chi ha compreso la linea di Casini, al di là del «Monti dopo Monti»). Da una parte, quella del Pdl, le stravaganti esternazioni di Berlusconi stanno gettando nel caos più completo un partito già ampiamente in confusione, rischiando di vanificare gli sforzi internazionali del presidente del Consiglio. Dall’altra c’è un Pd che con Bersani propone la patrimoniale, sconfessando una parte del lavoro dei tecnici (eppure la fiducia ai provvedimenti l’hanno votata anche loro), e con Renzi loda Marchionne. Insomma, il Popolo della Libertà e il Partito democratico sono un fallimento per la politica italiana. E la causa dell’accaduto non è nemmeno di difficile reperibilità: l’aver voluto mettere sotto lo stesso tetto, forzatamente, uomini e donne con un passato e con idee diverse. In alcuni casi addirittura agli antipodi. Prendiamo il dibattito in corso fra i democrat riguardo le alleanze e i matrimoni gay. In un angolo c’è la componente cattolica dello schieramento, quella formata principalmente da Giuseppe Fioroni e Rosy Bindi, che si oppone alla volontà di Nichi Vendola di sposare il suo compagno (dunque alle unioni fra persone dello stesso sesso) e che di fatto preferirebbe un accordo con i «moderati». Nell’altro ci sono i vari Ignazio Marino, Sandro Gozi e Paola Concia che la pensano all’opposto (ricordate quanto accaduto a luglio nel corso dell’Assemblea nazionale del partito?). Lo stesso discorso può essere allargato all’eventuale Monti-bis, visto che un gruppetto di deputati e senatori – che comprende Tonini, Morando, Ichino e Gentiloni – è favorevole ad un governo politico guidato da “Super-Mario”. Nel Pdl c’è invece l’eterna questione degli ex An: restano, se ne vanno, scindono, si accordano al ribasso, dicono «basta» ma poi assorbono come spugne le stilettate dei forzisti. La fusione fra il partito che nel 1994 segnò la “discesa in campo” di Berlusconi e la creatura di Gianfranco Fini è stata una iattura. L’inizio della fine, sia delle politiche “liberali” di Forza Italia – se mai si siano viste – che della costruzione di una destra di stampo europeo da parte degli eredi del Movimento sociale italiano. Quel che è successo dopo è cosa nota. Il presidente della Camera cacciato in plenaria insieme a tutta la sua “banda”, la formazione di Fli, le campagne di certa stampa vicina a Berlusconi e la vicenda della casa di Montecarlo, che ha vissuto l’ennesimo atto una settimana fa. In tutto ciò, ovviamente, le Camere sono rimaste impantanate, prima delle manovre lacrime e sangue varate in fretta e furia dai “professori” per evitare danni irreparabili. In uno scenario simile c’è, paradossalmente, il rischio di rivivere una stagione tale e quale. Ecco perché Beppe Grillo, alla fine di ogni intervento sul suo blog, scrive: «Ci vediamo in Parlamento, sarà un piacere».

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Patto anti-scissione – da “Il Punto” del 28/09/2012

giovedì, ottobre 4th, 2012

Il piano per evitare che il partito imploda a causa del passo indietro degli ex An. Che starebbero trattando con il Cavaliere seggi “sicuri” alla Camera alle prossime elezioni. Gli ex ministri sono in fibrillazione: hanno paura di non essere ricandidati

«Berlusconi è diventato come un taxi: tutti vogliono salire a bordo della sua auto. E il giorno dopo le elezioni, ottenuto ciò che volevano, i suoi “passeggeri” scenderanno in blocco. Anche perché, come lei capirà, questa è l’ultima occasione in cui il Cavaliere potrà far eleggere qualcuno». Comincia così il colloquio de Il Punto con un ex esponente del Pdl che svela le grandi manovre interne al partito. Rivelazioni che arrivano nel giorno in cui la situazione nel Lazio precipita quasi fino a schiantarsi, con Berlusconi chiamato alla personale “discesa in campo” – in attesa che dica ufficialmente se sarà o meno della contesa per le politiche del 2013 – per evitare l’effetto domino ad un mese dalle elezioni in Sicilia e con le comunali di Roma alle porte (senza dimenticare la Lombardia, dove tra Roberto Formigoni e la Lega Nord è in atto una tregua armata).

ACCORDI E COMPROMESSI - «Ovviamente – aggiunge il nostro interlocutore – fra quelli che usufruiranno del passaggio di Berlusconi ci sono anche gli ex An». Pomo della discordia da mesi, nelle segrete stanze di via dell’Umiltà. Sempre prossimi alla scissione, spesso contrari alle linee guida del partito, i discendenti del Movimento Sociale non hanno mai nascosto il loro malumore, complici anche le dichiarazioni al vetriolo di qualche ex forzista della prima ora come Nunzia De Girolamo («Meglio Renzi di La Russa e Gasparri», ha fatto sapere la deputata campana) e Giancarlo Galan, e le lotte intestine fra le correnti. Ma se il Pdl sembra già sull’orlo del baratro, l’ennesima diaspora – dopo aver già perso 80 fra deputati e senatori dall’inizio della legislatura, come vi avevamo raccontato la scorsa settimana – segnerebbe la morte definitiva del partito. Fra l’altro alla fine di ottobre si voterà in Sicilia. Una Regione strategica nei piani di Berlusconi, dove il Popolo della Libertà ha deciso di appoggiare il candidato de La Destra Nello Musumeci. Quindi meglio evitare cataclismi e scendere a compromessi. Quali, per esempio? «Pare che gli ex An abbiano già chiesto al Cavaliere circa 20 seggi alla Camera in vista delle prossime elezioni. Prima i numeri erano più alti – si parlava di 50 posti –, poi però il rischio di una scissione postuma ha portato ad un ridimensionamento». Dunque le polveri sembrano poter prendere fuoco, malgrado i tentativi dell’ex premier di tenere serrate le fila e dare la parvenza di solidità e compattezza.

PAURA FRA GLI EX MINISTRI - Il Pdl oscilla, nei sondaggi, fra il 17 e il 21%. Alle elezioni del 2008 raccolse il 37,38% (conquistando 276 seggi alla Camera e 146 al Senato), alle Europee di un anno dopo il 35,3, staccando di quasi 10 punti il Pd. Oggi le statistiche dicono altro. Fotografano una realtà fatta di scandali, dimissioni, cambi di casacca e fallimenti, vedi quello del segretario Angelino Alfano (che non ha saputo risollevare le sorti del partito malgrado la personale investitura di Berlusconi). Il rischio è quello, per utilizzare un’espressione in voga da qualche mese a questa parte, di andare incontro ad una spending review elettorale senza precedenti, perdendo più di un terzo dei seggi. E a temere maggiormente ci sono i pesci grossi. Non è un caso, dunque, che solo poche settimane fa in un’intervista a Il Mattino Fabrizio Cicchitto abbia dichiarato che «un terzo dei parlamentari va scelto dai partiti con i listini bloccati. Di questo strumento si è fatto un pessimo uso – spiegava il capogruppo alla Camera dalle colonne del quotidiano campano –, ma senza di essi una serie di parlamentari di alto livello non sarebbero entrati o non entrerebbero più in Parlamento. Serve equilibrio, non demagogia». A questo proposito, la nostra fonte afferma: «Ci sono ex ministri che temono non solo per la loro rielezione, ma addirittura per la ricandidatura. È emblematico il caso della Lombardia, anche se in tutto il Nord ci sarà un crollo». Piccola digressione, necessaria per spiegare chi rischia davvero fra Milano e dintorni. Nella circoscrizione 1, ad esempio, sono inseriti Ignazio La Russa, Maurizio Lupi, Paolo Romani e Gianfranco Rotondi; nella 2 l’ex ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini; nella 3 un ex An di lusso come Massimo Corsaro. Ma la Regione governata da Formigoni non è l’unica fonte di preoccupazione per i “senatori” del Pdl. «In Veneto (circoscrizione 2, ndr) è stato eletto Renato Brunetta. Con l’aria che tira sembra però che ora voglia candidarsi in Campania, in virtù di una casa che possiede a Ravello (comune in provincia di Salerno, ndr)». Un luogo che l’ex ministro della Funzione pubblica ha nel cuore: è quello dove, nel luglio 2011, ha sposato Titti Giovannoni. E dove ormai è di casa: chiedere per credere all’Hotel Bonadies, che Brunetta ha definito «la mia seconda famiglia». Più in generale, «sono in molti quelli che cercano di spostarsi. Il Lazio era un bacino solido, ma dopo quanto accaduto recentemente è venuto meno. Insomma, si stanno muovendo le tombe di famiglia pur di conservare il posto», conclude ironicamente l’interlocutore.

CARO “PORCELLUM”… - Dal palco di Atreju Angelino Alfano ha rassicurato tutti: la legge elettorale si farà entro la prima decade di ottobre. Anzi, ha incalzato il segretario, «chiediamo a coloro i quali in modo indiretto stanno difendendo il “Porcellum” di farlo pubblicamente». Peccato che, a ben guardare, sia proprio il Pdl a trarre i maggiori vantaggi dal mantenimento dell’attuale sistema di voto. I tempi per l’approvazione stringono, e il fatto che dopo mesi di trattative e di richiami del Capo dello Stato la situazione sia uguale a prima fa pensare che i cavilli – vedi il nodo che riguarda la reintroduzione o meno delle preferenze – siano in realtà dei semplici escamotage per annacquare il tutto. Ne è sicuro anche Pino Pisicchio, capogruppo alla Camera dell’Api, che il 20 settembre scorso ha scritto su Europa (organo ufficiale del Pd) che «i recenti resoconti descrivono un preoccupante impasse al Senato, dov’è partito il confronto». Questo perché – argomentava Pisicchio – «abbandonato lo schema originario che reggeva sull’intesa tra i partiti che sostengono il governo Monti, si profila l’ipotesi concreta di un blitz del Pdl e della Lega, forte dei numeri favorevoli al Senato, con la possibile adesione dell’Udc, se l’impianto includesse il voto di preferenza. Impostazione che, per la storica avversione del Partito democratico alle preferenze, rappresenta un considerevole gesto di rottura del patto tra i partiti della “strana maggioranza”». Il rischio concreto è «la produzione del nulla, con l’inesorabile ritorno del “Porcellum”, poiché il voto alla Camera non solo propone una diversa platea elettorale quanto a numerosità della maggioranza del Senato, ma anche la votazione segreta della legge elettorale». Esattamente quello che sembra volere il Pdl. Cambiare tutto per non cambiare niente. In pieno stile gattopardesco.

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Pasticcio alla siciliana – da “Il Punto” del 7/9/2012

martedì, settembre 11th, 2012

Dopo le dimissioni di Lombardo, l’isola tornerà alle urne per scegliere il loro nuovo presidente. Il vincitore dovrà fare i conti con una situazione ai limiti della sostenibilità

Lo chiamano «laboratorio». E automatica scatta la domanda: cosa si sta sperimentando? Il nuovo corso per una Regione in ginocchio, oppure lo scacchiere delle prossime alleanze a livello nazionale? Quel che è certo è che la Sicilia ha bisogno di ripartire. Velocemente. Di chiudere le ultime due parentesi e di aprirne un’altra, che destini al dimenticatoio le legislature di Totò Cuffaro (condannato a 7 anni per favoreggiamento aggravato alla mafia) e Raffaele Lombardo, che ha rassegnato le dimissioni il 31 luglio scorso e su cui pende l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. In vista delle elezioni che si svolgeranno il 28 ottobre prossimo, però, la confusione è tanta. La lista dei candidati per la poltrona di Palazzo d’Orleans è in continua scrematura, ma sono soprattutto le strategie dei vari partiti – spesso contrapposte a quelle in piedi a livello nazionale – a destare sorprese. Chi la spunterà fra Gianfranco Micciché, Nello Musumeci, Rosario Crocetta e Claudio Fava?

TUTTI CONTRO TUTTI - Una nota espressione popolare dice che «chi ci capisce è bravo». Frase perfetta per la situazione siciliana. Dove, negli ultimi mesi, è successo di tutto. Candidature proposte e poi ritirate, prima della decisione di scendere nuovamente in campo (è il caso di Micciché, appoggiato pure da Fli), convergenze sul nome dell’esponente di un partito con cui a Roma non c’è dialogo da tempo immemore (così il Pdl sceglie Musumeci de la Destra), e ticket in vista di un prossimo patto di legislatura su una figura che non rispetta del tutto i valori di uno dei due schieramenti (l’omosessuale Crocetta del Pd voluto da uomini dell’Udc). Poi c’è chi balla da solo: Claudio Fava di Sel, che potrebbe però raccogliere il sostegno dell’Idv. Insomma, di carne al fuoco ce n’è parecchia. Ma la «primavera» di cui necessita la Sicilia sembra più araba che italica. Perché la nomina di due nuovi assessori da parte di Lombardo mezz’ora prima di lasciare l’incarico (fatta salva l’ordinaria amministrazione) è solo la punta dell’iceberg di una gestione a dir poco “allegra” della Regione. Tanto che alla metà di luglio per la Sicilia era stato paventato il rischio default – con il premier Monti e il presidente Napolitano che erano dovuti intervenire in prima persona per monitorare la situazione –, poi bollato come «temporanea mancanza di liquidità». Cambia la forma, non la sostanza. E il futuro non appare roseo. Perché dal «laboratorio» potrebbe uscire una soluzione densa che rischierebbe di ingolfare ancora di più le condutture. E a rimetterci, manco a dirlo, sarebbero ancora una volta i siciliani.

PATTO, DOPPIO PATTO E… - Già, perché la Sicilia sembra essere il simbolo della confusione che impera a livello nazionale. Pd e Udc fanno le prove generali per una possibile, futura alleanza in vista del 2013. Ma la costruzione dell’asse fra «progressisti» e «moderati» procede a rilento. La testimonianza arriva direttamente dalle parole del segretario del Pd Bersani, che nei giorni scorsi ha fatto sapere che «tra Casini e Vendola, io mi tengo Nichi». Dall’altra parte della barricata non l’hanno presa benissimo. «Non siamo sorpresi, è legittimo che Bersani voglia organizzare il campo della sinistra – ha commentato a caldo il presidente dei centristi Buttiglione –. Noi abbiamo sempre detto che di quel campo non facciamo parte. Se Bersani avrà i voti per governare con Vendola governi faccia pure. Altrimenti si aprirà un’altra partita, quella della grande coalizione». Nell’Udc ci pensano, al “tutti dentro”. Tanto che lo stesso Buttiglione, intervistato da Avvenire il 29 agosto, l’ha addirittura descritta come «la nostra prima ipotesi». Le cose in Sicilia hanno però preso, nel corso di questi mesi, un’altra piega. In un primo momento l’alleanza fra i due partiti sembrava dovesse portare all’investitura di Giampiero D’Alia. Poi è stato lo stesso capogruppo dell’Udc al Senato a farsi da parte, proponendo l’ex sindaco antimafia di Gela Rosario Crocetta (Pd), che sogna di avere in squadra il pm di Palermo Antonio Ingroia, gode dell’appoggio di Ivan Lo Bello (leader della Confindustria siciliana, uno dei più forti oppositori di Lombardo) ma non di quello tout court del suo partito, visto che l’ex viceministro D’Antoni avrebbe preferito Pippo Baudo, Raffaele Bonanni (Cisl) o Gianni Riotta. E neanche Rita Borsellino, sorella del magistrato ucciso dalla mafia nel 1992, si è espressa in termini entusiastici: «L’accordo con gli eredi del cuffarismo segna una rottura profonda nel centrosinistra, e testimonia l’affanno di un Pd siciliano senza idee». Nel centrodestra le cose non girano tanto meglio. Qui ha pesato come un macigno il voltafaccia dell’artefice del  61 a 0 del 2011, Gianfranco Micciché, uno nato in Forza Italia (negli Anni ’90 è stato coordinatore regionale in Sicilia), poi scissionista e infine fondatore di Grande Sud. Ebbene l’ex ministro e sottosegretario ha prima deciso di proporre la sua candidatura, poi di ritirarla decidendo di appoggiare il candidato del Pdl e de la Destra Nello Musumeci, e infine di stringere un patto con l’ex “nemico” Lombardo (nel 2010 la spaccatura del Pdl Sicilia in Fli e in un gruppo di ex forzisti che hanno poi dato vita a Forza del Sud costrinse il governatore al quarto rimpasto di governo), con Fli e con il Movimento popolare siciliano, rimettendoci nuovamente la faccia. Un «alto tradimento» che Berlusconi non ha ancora digerito, e che – dicono fonti a lui vicine – lo ha mandato su tutte le furie. Micciché, in un colloquio telefonico con il Cavaliere, ci ha scherzato su: «Presidente, non si preoccupi. Sarò io a vincere, non la sinistra». E Musumeci? Storace ne sta sostenendo la candidatura a spada tratta. Su Twitter il segretario ha più volte ribadito che vincerà il suo uomo, ex presidente della Provincia di Catania ed ex Parlamentare europeo, uno che ha vissuto sotto scorta per sette anni a causa di reiterate minacce mafiose. A dargli appoggio anche Gasparri, La Russa e quel Gianni Alemanno su cui Storace ha spesso sparato a zero negli ultimi mesi. Ma si sa: vincere fa gola a tutti, e allora scurdammoce ‘o passat. Attenzione però a Claudio Fava. Giornalista catanese, 55 anni, è il coordinatore nazionale del partito di Vendola. Ha scelto di correre perché «l’Udc è legata alle esperienze di Cuffaro e Lombardo, che ha distrutto la Sicilia con le clientele. Crocetta predica la rivoluzione ma pratica il silenzio sul passato». Un sondaggio Ipsos ha rivelato come al momento Fava sia in vantaggio su Crocetta, anche se su tutti – secondo un’altro rilevazione, quella di Datamonitor – in testa ci sarebbe Musumeci (28 per cento), con il Pdl primo partito (20 per cento). Si tratterebbe, comunque, di un altro suicidio per il centrosinistra. L’ennesimo.

SPRECHI E MALAFFARE - Una cosa però è certa: chiunque vincerà le elezioni del prossimo ottobre dovrà scontrarsi con una situazione ai limiti della sostenibilità. Fra sprechi, uffici con un numero abnorme di personale e altri che invece sono in chiaro deficit, nominare la Sicilia significa evocare lo spettro del fallimento, sfiorato solo pochi mesi fa e bollato da Lombardo come «battage mediatico vergognoso». Non stupisce dunque il fatto che in tempi di banda larga, certificati online e spending review, la Regione abbia deciso nel maggio scorso di assumere ben trenta commessi di piano – comunemente conosciuti come “camminatori” – con il compito di portare le pratiche da un ufficio all’altro. Ma i nodi da sciogliere sono innumerevoli. Basta sciorinare un dato, quello sullo spropositato numero di dipendenti regionali: 17.995 per una Regione che conta poco più di cinque milioni di abitanti, contro i circa 3mila della Lombardia, che ne ha praticamente il doppio (9.992mila). C’è un dirigente ogni sei impiegati, e la cifra destinata alle pensioni dei consiglieri regionali è pari a 20,5 milioni di euro. Ovvio che tutto ciò abbia arrugginito gli ingranaggi. Emblematico è, ad esempio, il caso della «Commissione per la qualità della legislazione» (già il nome è tutto un programma): composta da nove deputati e costituita nel 2008, è costata finora la bellezza di 250mila euro di indennità. L’aspetto interessante è però un altro: dall’inizio del 2012, essa si è riunita solamente tre volte (22 febbraio, 13 marzo e 29 maggio), per un lasso di tempo che non supera le due ore totali. L’altra faccia della medaglia (quella sfregiata, però) è l’Ufficio sismico regionale. Che conta un unico dipendente affiancato da qualche lavoratore precario. La lista degli sprechi è ancora lunga. E tocca, inevitabilmente, anche la sanità. Per questa voce la Sicilia spende, ogni anno, circa 9 miliardi e mezzo di euro, lievitati di 520 milioni nel 2011. A destare scalpore è il numero di dipendenti del 118 (i cui costi sono aumentati lo scorso anno di 111 milioni di euro, tanto da provocare la reazione stizzita della Corte dei Conti), che sono 3.337 per “soli” 256 mezzi. Insomma, è come se voi vi sentiste male, chiamaste un’ambulanza, e venissero a curarvi in tredici. E perché non citare, in questo calderone bollente, le auto blu. Il governo Monti decide che devono essere tagliate? Evidentemente in Sicilia la notizia non è arrivata, visto che con 3.158 vetture è la quinta Regione nella graduatoria stilata dal Formez (il centro servizi, assistenza, studi e formazione per l’ammodernamento delle Pubbliche amministrazioni). Nel 2011 la spesa dell’Assemblea per acquisto e noleggio auto è stata pari a 250mila euro, a cui vanno però aggiunti i 100mila per le spese di gestione e i 124mila per quelle del personale (per il 2013, complice una misura contenuta in un provvedimento che prevede tagli alla spesa pubblica, l’amministrazione non potrà utilizzare più di 50 auto blu). Prosegue, poi, il problema collegato allo smaltimento dei rifiuti. Nel luglio del 2010 il governo Berlusconi aveva dichiarato lo «stato di emergenza», nominando lo stesso Lombardo come Commissario straordinario fino al 31 dicembre 2012. Ma le cose non sembrano essere migliorate, visto che oltre ai debiti contratti dalla Regione con le aziende sono a rischio anche 13mila posti di lavoro. Insomma c’è bisogno di idee concrete e anche (probabilmente) della bacchetta magica. Qualcuno però ha già preso l’accetta in mano per tagliare il superfluo. Con accadimenti paradossali. Ad agosto, in piena canicola complici i vari Caronte e Lucifero e alla luce di un debito monstre con l’Enel, l’assessorato all’Istruzione e alla Formazione professionale ha deciso di spengere gli impianti di condizionamento. «Bisogna risparmiare». Bastava pensarci prima.

Twitter: @GiorgioVelardi

Fra «minestre riscaldate» e il ritorno a “qualcosa di destra” – da “Il Punto” del 27/07/2012

martedì, luglio 31st, 2012

E pur si muove! Non la Terra, come nel significato originale dell’espressione coniata nel ‘700 dallo scrittore Giuseppe Baretti, ma la destra italiana. Che, nei giorni in cui Silvio Berlusconi annuncia ufficialmente il suo ritorno in campo, è in fermento. «Ridare vita ad Alleanza nazionale», opponendola alla nuova (?) Forza Italia dell’ex premier, è il progetto che circola nelle (non tanto) segrete stanze. Perché è stato Altero Matteoli, storico colonnello aennino, ad uscire allo scoperto. «Un po’ di tempo fa ci siamo trovati a cena Ignazio La Russa, Maurizio Gasparri, Gianni Alemanno e il sottoscritto. In quella circostanza mi è stata prospettata l’idea di rifare Alleanza nazionale. Ho detto loro di non contare su di me», ha rivelato in un’intervista al quotidiano “Libero”. Ma che la componente di destra del Pdl fosse in agitazione lo si era capito da tempo. Proprio su questo giornale, a febbraio, avevamo ipotizzato una «Benedetta scissione», ovvero una separazione consensuale fra le due componenti del partito con il benestare di Berlusconi. Il quale ha poi però lasciato dormire l’idea, prima di rispolverarla in un momento – quello attuale – in cui il restyling passa soprattutto attraverso il ripulisti di dissidenti e malpancisti. Pensare ad una nuova Forza Italia ne è il segnale manifesto. Ma allora viene da chiedesi se non sia stato azzardato dare vita, solo quattro anni fa, al Pdl. Perché di tensioni ce n’erano già allora. Tanto che Gianfranco Fini, a dicembre del 2007 e solo un mese dopo il famoso annuncio del Predellino, andava dicendo che il Cavaliere era «alle comiche finali. Almeno per me, non esiste alcuna possibilità che Alleanza nazionale si sciolga e confluisca nel nuovo partito di Berlusconi, del quale non si capiscono valori, programmi, classe dirigente. Non ci interessa la prospettiva di entrare in un indistinto partito delle libertà». È andata diversamente, come sappiamo. Per il Pdl (che si è poi formato, con all’interno An, e ha vinto le elezioni del 2008), ma soprattutto per il presidente della Camera, epurato in plenaria e costretto a dare vita ad un nuovo soggetto politico (Fli) poi confluito nel Terzo polo. Le voci critiche, allora, non mancarono. Ma fra parole dette e non dette ci fu chi, come Roberto Menia, manifestò apertamente il suo dissenso, parlando di uno scioglimento (quello di An) avvenuto troppo in fretta. «Non credo ci volesse Einstein per vedere e capire ciò che stava accadendo» racconta Menia a “Il Punto”. «Io guardavo ciò che succedeva a destra – la mia storia politica è cominciata nel Movimento sociale ed è poi proseguita in An –, dove c’era un’identità abbastanza chiara, e mi accorgevo come il bipolarismo stesse degenerando, diventando un bipartitismo imposto. Un centrodestra italiano “diffuso” ci poteva stare, ma in quel modo diventava una omologazione di massa senza principi, fatta senza discussione, per calcolo ragionieristico e aziendalistico. E “sotto padrone”. I “colonnelli” del mio partito vedevano in questa frettolosa adesione una sorta di assicurazione sulla vita – prosegue il Capogruppo di Fli in Commissione Esteri –, immaginando di poter vivere sonni tranquilli e dorati». E Fini? «Si stava andando verso le elezioni, bisognava decidere se esserci o non esserci. Lui scelse la prima via, che sembrava anche pagare. Alle urne si andò con una lista comune, non con un partito unico: quello si è formato un anno dopo. Ed è ciò che io rimprovero: non c’era alcun bisogno di farlo. Si poteva optare per una federazione, garante delle diverse identità. Ora mi viene da sorridere», aggiunge Menia. Il motivo? «I miei ex colleghi di An, che sono ancora nel Pdl, denunciano adesso quello che noi dicevamo quando abbiamo “strappato”. Mi sembra che siano un po’ in ritardo». Un eventuale ritorno ad An? «Non credo alle minestre riscaldate. Tornare indietro è impossibile e sbagliato. Piuttosto, visto che la politica è sempre in evoluzione, credo che un domani si ricreerà “qualcosa a destra”. Ma bisognerà evitare di fare la ridicola sommatoria dei vari individui che hanno vissuto una fase in cui tutto si è disgregato. Se ci sono giovani che vogliono rimettere insieme una destra pluralista ed europea ben venga. Si eviti però di rincollare i cocci di un vaso che si è rotto». E mentre Fini, fanno sapere ambienti a lui vicini, non è d’accordo sul fare un tuffo nel passato, l’idea per il nuovo corso che coinvolgerebbe anche La Destra di Francesco Storace sarebbe quella di candidare una donna alla presidenza del Consiglio. Una vera novità per la politica italiana. Forse l’unica.

Twitter: @GiorgioVelardi