In tempi di crisi e spending review, al Senato si discute anche di come utilizzare i termini «cuoio», «pelle» e «pelliccia» (più quelli da essi derivanti o loro sinonimi). Titolo breve del ddl n. 2642 (approvato il 14 novembre), che ha come relatore Cosimo Izzo (Pdl) e tra i cofirmatari Nicola Latorre (Pd): «Disposizioni in materia conciaria». Lo scopo? Duplice:«Da un lato preservare i consumatori da inganni sui prodotti conciari e di pellicceria; dall’altro, tutelare il settore produttivo di riferimento da azioni scorrette provenienti soprattutto da imprese di Paesi esteri, (…) che ponevano in essere veri e propri comportamenti anticoncorrenziali pregiudizievoli per l’industria nazionale».
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«Nel Pd non prevalga linea anti-Bersani. Il Pdl costruisca leadership collegiale» – da “Il Punto” del 16/11/2012
mercoledì, novembre 21st, 2012
Colloquio con Michele Prospero, docente di Scienza politica e filosofia del diritto alla “Sapienza” di Roma ed editorialista de “l’Unità”.
Professore, mesi fa lei si chiedeva se quelle del centrosinistra fossero primarie o «una sfilata». È riuscito a dare una risposta al suo interrogativo?
«A quel tempo c’erano alcuni fattori di disturbo, fra cui le “bordate” di Renzi ad esponenti del suo stesso partito e il fatto che Vendola appoggiasse i referendum dell’Idv, che rendevano instabile la tenuta degli equilibri fragili del centrosinistra. Queste primarie sono una competizione esplicita, con toni e metafore per certi versi sopra le righe. La preoccupazione era che la diversità di cultura politica fra i candidati fosse così pronunciata da farle diventare uno strumento inefficace, perché quando fra chi partecipa c’è eccessiva distanza il meccanismo entra in crisi».
A seconda di chi la spunterà il centrosinistra andrà in una direzione o in un’altra. Se vince Renzi il rischio è la disgregazione…
«Questo pericolo c’è, perché i sostenitori di Renzi sono quelli che più di altri hanno sposato l’agenda Monti e disdegnano una politica delle alleanze. Il sindaco di Firenze si muove in maniera oscillante: aveva addirittura aperto ad una possibile cessione delle “chiavi del potere” all’attuale premier in caso di successo. Adesso invece Renzi sta segnando un distacco dall’esperienza tecnica e pare scettico su ogni ipotesi di accordo. Il rischio è che prevalga una linea ostile a quella che ha tenuto finora Bersani – il quale ha garantito una centralità sistemica al Pd attraverso la proposta di un’intesa fra i progressisti aperta ai moderati – che è l’orizzonte entro cui giocare la partita. Se si scatenano conflitti che lacerano questo terreno le strade sono due: ricreare l’Unione oppure riesumare la vocazione maggioritaria».
Per quanto riguarda il cambio delle regole, c’è il sentore che Bersani abbia aperto le porte a Renzi ma poi lo abbia ingabbiato…
«A differenza della precedente tornata questa è una contesa accesa e ci sono preoccupazioni di tenuta. Le regole sono necessarie, e bisogna fare in modo che si avvicinino il più possibile a quelle delle elezioni, che siano cioè ritagliate sul corpo elettorale reale. Quelle decise per queste primarie sono in sintonia con i pronunciamenti della Corte suprema americana, la quale ha stabilito che un partito ha diritto a chiedere un elenco pubblico dei votanti e che la partecipazione senza appartenenza è illegittima. Fare primarie “aperte” in Italia vuol dire rendere i partiti entità scalabili rischiando di andare incontro ad un blocco unico, totalitario».
Nel Pdl, dove Alfano si è “ribellato” a Berlusconi, le primarie hanno senso oppure, in caso di fallimento, si rischia di andare alle elezioni senza un partito di area?
«Le primarie potrebbero essere un fiasco e ciò potrebbe comportare il collasso definitivo del Pdl. Però senza un grande partito di centrodestra la democrazia italiana non funziona. Detto ciò, Alfano ha fatto bene a sfidare il Cavaliere: un partito come il Pdl non può sopravvivere se non rompe in maniera esplicita con il capopadrone. Il problema è che una lotta simile andava impostata prima, come ha fatto Maroni con Bossi, perché non ci sono uscite negoziali dal partito personale. C’è da augurarsi che il segretario riesca nel suo obiettivo, è interesse nazionale quello di avere un partito di centrodestra di stampo europeo».
C’è oggi una figura che potrebbe ridare smalto al Pdl?
«All’interno del partito c’è già una rete di politici spendibili: penso ai tanti giovani (Fitto), agli amministratori che sono emersi in questi anni, oppure a Galan. Quella che va ricostruita è una leadership collegiale: le velleità personalistiche vanno messe da parte. E poi Alfano deve evitare di commettere un errore, cioè quello di accodarsi a Casini sulla legge elettorale. I loro interessi non coincidono. Il segretario deve contrattare un sistema di voto che consenta di mantenere l’ossatura bipolare».
C’è il rischio che tutto sia reso vano dal Monti-bis?
«Non credo ci sia la possibilità di uno scenario simile: Bersani dovrebbe farcela. Non regge un governo di larghe intese. Credo che in vista della riforma elettorale sia più efficace assegnare il premio al partito più grande che alla coalizione. Comunque, una soglia elevata come quella del 42,5 per cento per conseguire il premio riproporrebbe la centralità dei “cespugli”, delle piccole formazioni che cercano di aggregarsi in vista del voto».
Twitter: @GiorgioVelardi
Questioni Primarie – da “Il Punto” del 16/11/2012
martedì, novembre 20th, 2012
Il 25 novembre tocca agli elettori del centrosinistra, poi sarà la volta di quelli del Popolo della Libertà. Le consultazioni per scegliere il candidato premier dei due schieramenti rischiano però di essere un grande “bluff”: l’impianto della nuova legge elettorale favorisce la riconferma del Professore a Palazzo Chigi e frena l’avanzata di Grillo
E pensare che qualcuno, fra cui un big del Pdl come Gaetano Quagliariello, avrebbe voluto che fossero «regolate per legge». Le primarie uniscono, dividono, fanno litigare i duellanti. Portano a paragoni roboanti fra l’Italia e gli Stati Uniti, due realtà lontane anni luce messe sullo stesso piano nell’avanspettacolo pre-elettorale di casa nostra. Rischiano, in particolare, di essere un grande bluff, a sinistra come (e peggio) a destra. Regole arzigogolate, candidati variopinti, programmi latitanti. Ma soprattutto l’ombra di Mario Monti che aleggia sulle teste dei vari Bersani, Renzi, Alfano, Santanchè… Il Professore, visto l’impianto della nuova legge elettorale che tanto fa irritare il Partito democratico e gongolare Casini, ha recentemente fatto sapere che se alle prossime elezioni «mancasse una maggioranza in grado di governare» lui sarebbe disposto a continuare. Numeri alla mano, la grande coalizione (Pd, Pdl e Udc) è l’unica formula che darebbe certezza di governabilità al Paese e che frenerebbe l’avanzata del Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo, che dopo la Sicilia punta al colpo grosso in Parlamento.
QUI LARGO DEL NAZARENO - «Riscrivi l’Italia». Così recita il manifesto che chiama gli elettori del centrosinistra alle urne in vista delle primarie che si svolgeranno il prossimo 25 novembre (con eventuale ballottaggio il 2 dicembre). Più che l’Italia, però, la sfida che mette di fronte Pier Luigi Bersani, Matteo Renzi, Nichi Vendola, Laura Puppato e Bruno Tabacci rischia di riscrivere la geografia del centrosinistra. A seconda di chi vincerà la competizione quest’area politica potrebbe rimanere com’è, virare più al centro e meno a sinistra e viceversa, addirittura esplodere. In quest’ultimo caso il “bombarolo” si chiamerebbe Matteo Renzi. La possibile vittoria del sindaco di Firenze preoccupa non poco la segreteria di Largo del Nazareno. «Non succede, ma se succede…», dicono alcuni fra i volti noti del partito (fra cui il giuslavorista Pietro Ichino, che sul suo sito Internet ha pure pubblicato i «nove motivi per votare Matteo Renzi alle primarie») che hanno deciso di appoggiare la candidatura del «rottamatore». Che qualche personale successo l’ha già ottenuto: i vari Veltroni, Treu, Parisi e Turco hanno fatto sapere che non si ricandideranno. D’Alema, esperto di tattica, ha invece preso tempo: «Se vince Bersani lascio la poltrona, ma se dovesse spuntarla Renzi sarà scontro politico». Il che vuol dire una guerra intestina fra le varie correnti in cui il partito naviga da tempo: sarebbe l’ennesimo suicidio del Pd, ma non ci stupiremmo. Con il ticket Bersani-Vendola si andrebbe sul sicuro. Il leader dei democratici e quello di Sel viaggiano sulla stessa lunghezza d’onda e a testimoniarlo c’è pure la “Carta d’intenti” che hanno sottoscritto (insieme al socialista Nencini) ad inizio ottobre. Un patto vincolante fondato su 10 parole chiave – fra cui Europa, democrazia, lavoro, uguaglianza – che punta ad andare «oltre Monti» e che è, per dirla con il governatore della Puglia, «alternativa ai pensieri conservatori di Casini». Per “Matteo”, che l’ha subito bollata come «generica», si tratta di uno dei tanti bocconi amari mandati giù in questi mesi. Oltre al caos delle regole – il primo cittadino toscano non ha digerito l’impossibilità di esprimersi per i 16-17enni, malgrado questi avessero votato nel 2009 – il “tiro mancino” che Bersani gli ha giocato rischia, in caso di vittoria, di portarlo all’isolazionismo. «Né con Casini né con Vendola», ha precisato Renzi in un’intervista ad Avvenire prima di compiere una parziale retromarcia, resa necessaria dall’aver capito che l’Italia non è l’America di Obama e che la strategia di Veltroni del 2008 («Corriamo soli») si è rivelata fallimentare. Ma della contesa fanno parte anche Laura Puppato e Bruno Tabacci. Meno esposti degli altri tre contendenti, per la corsa alla premiership ci sono anche loro. Entrambi rappresentano l’ala cattolica del centrosinistra, quella che per intenderci “sposerebbe” Casini e “divorzierebbe” da Vendola. Puppato, unica donna in corsa, pone al centro del suo programma la Green e la Blue economy, e al tempo stesso non chiude le porte ai matrimoni gay («Sono una cattolica adulta e dunque penso che lo Stato debba essere laico e garantire a tutti i diritti civili») e all’alleanza con l’Udc («Non vedrei affatto male un’intesa con i centristi, ma vorrei che da parte loro ci fosse chiarezza»). Infine c’è l’assessore milanese, ex Dc, poi Udc e ora Api, per cui è necessario «apportare delle modifiche alla “Carta d’intenti”» inserendo alcuni punti dell’ormai nota «agenda Monti». Uno degli ultimi sondaggi di Swg vede Bersani in vantaggio di ben 14 punti percentuali su Renzi (41% contro 27, con Vendola al 15), che potrebbe giocarsela ai “tempi supplementari“. Difficile, ma non impossibile, una rimonta al fotofinish.
QUI VIA DELL’UMILTÀ - In casa Pdl le primarie stanno diventando un affare di Stato. Berlusconi non le vuole – e stavolta non sono “retroscena” di «certa stampa» – ma si faranno. L’ufficio di presidenza dello scorso 8 novembre è stato uno spartiacque storico per il partito. Per la prima volta Alfano è andato contro il padre-padrone e ha imposto la sua linea. «Basta diktat del Cavaliere, è il momento che io assuma il controllo», avrà pensato nella sua testa “Angelino” prima di parlare chiaro e tondo ad alta voce: «Mi prendo la responsabilità delle primarie. O decidiamo oggi o saremo dei barzellettieri (o “barzellettati”, come da chiarimento postumo dell’entourage del segretario, ndr). Qual è l’alternativa? – ha domandato l’ex ministro della Giustizia – Inseguire qualche gelataio o qualche leader di Confindustria?» (ovvi i riferimenti al patron di Grom Guido Martinetti e al presidente della Ferrari Montezemolo). Quindi avanti tutta con un meccanismo con cui il Pdl non ha mai fatto i conti e che rischia di portarlo alla definitiva liquefazione. Su questo punto Berlusconi è stato chiaro: «Non si tratta di un procedimento salvifico, anzi usciranno allo scoperto le nostre faide interne, quelle che hanno schifato i nostri elettori. Ho commissionato dei sondaggi e non sono buoni». Ad oggi, secondo una rilevazione di Datamonitor anticipata domenica da il Giornale, solo il 5,4% dell’elettorato del Pdl voterebbe alle primarie. Una catastrofe, anche se è ovvio che il loro valore sia limitato dal momento che sullo sfondo ci sarà sempre lui, il Cavaliere, che – tanto per dirne una – nominerà i 5 garanti che dovranno vigilare sul regolare svolgimento della competizione. Insomma, in un modo o nell’altro chiunque vincerà dovrà chiamarlo in causa prima di prendere una decisione. Cambiare tutto per non cambiare nulla. Ma oltre ai problemi politici ci sono quelli di budget: il Pdl pare avere le casse vuote – sarebbero addirittura a rischio gli stipendi dei dipendenti –, dunque quelle che si svolgeranno saranno primarie low cost, con i votanti costretti a versare fra i 2 e i 3 euro. Per ora, comunque, le candidature sono sette: Angelino Alfano, Daniela Santanchè, Giancarlo Galan, Alessandro Cattaneo (il sindaco «formattatore» di Pavia), Guido Crosetto e il leader dei “Moderati italiani in rivoluzione” Gianpiero Samorì, possibile outsider “benedetto” da Berlusconi e amico di Marcello Dell’Utri e Denis Verdini. Per il Cavaliere potrebbe essere il “Papa straniero” che va cercando da mesi, o il «dinosauro» da estrarre dal cilindro.
IL FANTASMA DI MONTI - Poi c’è la terza via, quella del «è tutto inutile». Perché se è vero che i partiti sono in fermento per ripulire e democratizzare le liste, dall’altra quanto accade in Parlamento sul versante della legge elettorale potrebbe consegnare agli italiani il famigerato scenario del «Monti dopo Monti». Ad oggi, nessuna delle possibili coalizioni raggiungerebbe la soglia del 42,5% utile a prendere il premio per governare. Dunque solo la riproposizione della «strana maggioranza» che oggi sostiene il governo del Professore (e del presidente della Repubblica) consentirebbe di arginare l’avanzata della cosiddetta “antipolitica” di Beppe Grillo e del suo Movimento 5 Stelle. Il Pd non ci sta, ma al suo interno qualche franco tiratore non disdegnerebbe la prosecuzione dell’esperienza tecnica. Stessa cosa accade nel Popolo della Libertà. Poi c’è l’Udc, di cui il pensiero si conosce da tempo. Insomma, alla fine per gli italiani queste primarie rischiano di diventare la più grande presa in giro della Seconda Repubblica.
Twitter: @GiorgioVelardi
«Vinco le primarie? Azzero il Pdl» – da “Il Punto” del 9/11/2012
sabato, novembre 17th, 2012
«Se vinco le primarie azzero il Pdl. Vorrei fare un patto con gli italiani: portiamo le tasse al 30% ma paghiamole tutti». Questo il pensiero di Daniela Santanchè, candidata alla corsa per la guida del partito.
Nelle ultime settimane è diventata il bersaglio di alcuni colleghi di partito per alcune sue affermazioni. Quanti però la pensano come lei?
«Tantissimi. Poi avere il coraggio di dirlo pubblicamente è un’altra questione. In molti credono che ci sia bisogno di cambiare, facendo primarie con regole che consentano di avere come vincitore la partecipazione».
Il Pdl crolla in Sicilia e rischia di perdere i moderati. Potreste ritrovarvi in un vicolo cieco…
«Quanto successo in Sicilia è la rappresentazione plastica della “guerra fra bande”, che ci ha portati alla sconfitta. L’astensionismo mi preoccupa, però annoto che il mercato elettorale del centrodestra è rimasto intatto: sommando i voti di Musumeci e Micciché avremmo vinto. È il prodotto politico che è venuto meno. L’80% del nostro elettorato è contro il governo Monti, che noi continuiamo a sostenere. Il Pdl non è più nel cuore degli italiani, bisogna fare scelte diverse».
Ipotizziamo che lei vinca le primarie. Come rilancia il Pdl?
«Azzerando tutti, basta professionisti della politica. Io non voglio che in Parlamento ci sia qualcuno che non abbia mai lavorato un’ora in vita sua facendosi mantenere dagli italiani. Bisogna diminuire del 50% i costi della politica, ogni anno si spendono 20 miliardi di euro. Se è vero quello che dicono i magistrati, il caso Fiorito dimostra che ci sono troppi soldi a disposizione, quindi va abolito completamente il finanziamento pubblico. E poi farei un patto con gli italiani, di cui mi fido ancora molto. Vorrei guardarli negli occhi e dirgli che le tasse le portiamo al 30%, però bisogna che tutti le paghino. Questo è l’ultimo giro, altrimenti ci ritroviamo con un commissario europeo in casa che ci dice cosa fare».
Dall’altra parte del ring c’è Alfano…
«Essere segretario del Pdl e avere un presidente come Berlusconi è difficile. Lui però doveva rinnovare, senza portare avanti una linea politica che andasse a braccetto con Monti e senza presentarsi con il cappello in mano da Casini, con cui i rapporti andavano chiusi da tempo visto che dice che “si può parlare solo se Berlusconi va ai giardinetti”. Sono errori indotti non solo da lui, però andava fatto di più».
Twitter: @GiorgioVelardi
La terribile settimana di Fini – da “Il Punto” del 16/11/2012
venerdì, novembre 16th, 2012
C’è stato un tempo in cui Gianfranco Fini era indicato da molti come il leader di una destra italiana di respiro internazionale. Una destra che aveva chiuso a chiave nel cassetto un passato poco glorioso per la storia del nostro Paese e che guardava al futuro con accenti meno marcati su temi quali l’immigrazione, le disuguaglianze, le pari opportunità. C’è stato, appunto. Perché la parabola discendente compiuta dall’attuale presidente della Camera rischia oggi di provocarne addirittura la fuoriuscita dal Parlamento. Stando agli ultimi sondaggi, Futuro e Libertà per l’Italia sarebbe ben lontano dalla soglia di sbarramento (4 per cento) stabilita dalla legge elettorale per accedere ai “palazzi”. Per Spincon (istituto di sondaggi online indipendente), infatti, solo l’1,8 per cento degli italiani voterebbero per il partito di Fini, mentre per Emg la percentuale salirebbe al 2,7 per cento (media: 2,3 per cento). Si tratta, comunque, del capitolo conclusivo di una storia dal finale amaro, sia per l’ex leader di Alleanza nazionale che per molti suoi compagni di viaggio. Una vicenda cominciata nel marzo del 2009, quando An fu sciolta per confluire nel Popolo della Libertà. Un partito in cui i rapporti di forza erano evidentemente squilibrati già in partenza. Questo perché Fini non aveva a che fare con un leader qualsiasi, ma con Silvio Berlusconi. L’uomo più potente del Paese. Colui che ad aprile del 2010, in occasione della Direzione nazionale del Pdl, lo cacciò pubblicamente da una creatura che era nata, cresciuta e modellata a sua immagine e somiglianza, in cui il dissenso non era (e in parte ancora non è) contemplato. «Un match senza precedenti, nel quale a prevalere è più la distanza personale che quella politica», scrisse il Giornale commentando l’accaduto. Da quell’incontro ravvicinato con il “peso massimo”, Fini uscì con le ossa rotte. Pensò che lo strappo gli avrebbe permesso di accaparrarsi le simpatie anche di chi fino a quel momento lo bollava ancora come «fascista», malgrado lui nel 2003, nel corso di un viaggio a Yad Vashem (Israele), definì il ventennio mussoliniano «il male assoluto». Così non andò. Per rimanere in vita Fli si è accodato a Udc e Api, dando vita ad un Terzo polo che si è sbriciolato ancora prima della conclusione dei lavori, e ha perso pezzi importanti quali Ronchi, Urso, Scalia, Rosso, Viespoli, Barbareschi… Nel frattempo di sottofondo, per Fini, c’erano gli echi della vicenda della casa di Montecarlo, che periodicamente regala aggiornamenti non certo esaltanti per moglie e cognato. Quel che è certo è che la settimana scorsa sarà ricordata a lungo dal presidente della Camera. Lunedì 5, ai funerali di Pino Rauti, storico segretario del Movimento sociale italiano che non accettò mai la “svolta di Fiuggi”, Fini viene pesantemente contestato dai camerati, che arrivano addirittura a sputargli addosso e ad accostarlo a Pietro Badoglio. «Un paio di tipi muscolosi hanno provato ad avvicinarsi, allora mi sono alzata e gli ho puntato contro l’ombrello», ha rivelato Assunta Almirante (moglie dello scomparso Giorgio, di cui il leader di Fli è stato a lungo il “delfino”), che lo ha difeso. Pochi giorni più tardi, poi, Fini tende la mano ad Alfano – «Con lui si potrà davvero aprire una pagina nuova per tutti i moderati italiani. E personalmente ne sarò lieto» – ma il segretario del Pdl lo gela: «La sua storia con l’elettorato di centrodestra è chiusa». Dice il vecchio adagio: «Chi è causa del suo mal pianga se stesso».
Twitter: @GiorgioVelardi
Il salto del Grillo – da “Il Punto” del 2/11/2012
lunedì, novembre 5th, 2012
Crocetta conquista Palazzo d’Orleans grazie ai voti dell’Udc, che rimescolano le carte in ottica nazionale. Ma a fare notizia è il boom del Movimento 5 Stelle. A picco il Pdl. Biancofiore: «La classe dirigente del partito si faccia da parte»
Alla fine ha avuto ragione Pietro Barcellona, comunista fino al midollo, maestro di diritto e personalità di spicco a Catania, di cui ha parlato domenica scorsa il Fatto Quotidiano: «Vincerà il partito degli astenuti». Così è stato, perché il 52,6 per cento dei siciliani ha preferito fare altro piuttosto che recarsi alle urne per decidere chi, dopo Lombardo, avrebbe dovuto sedere a Palazzo d’Orleans. Certo è che il partito del non-voto è andato a braccetto con uno che invece un simbolo e un candidato in carne e ossa ce l’aveva: il Movimento 5 Stelle. «Cancelleri (aspirante governatore degli “attivisti 5 stelle”, ndr) potrebbe arrivare al 15 per cento», andava dicendo Beppe Grillo negli ultimi giorni di campagna elettorale. Si è andati oltre, anche se non abbastanza per battere Rosario Crocetta (centrosinistra), nuovo presidente della Regione. Per capire l’exploit basta comunque rileggere quanto Grillo e i suoi raccolsero nel 2008: 1,7 per cento, dieci volte di meno. Dalla Sicilia al Parlamento il passo sembra essere breve, anche se «è difficile proiettare questo dato su base nazionale», dice a Il Punto il direttore di IPR Marketing Antonio Noto. «Grillo ha avuto il merito di condurre una grande campagna elettorale, spendendosi in prima persona soprattutto negli ultimi quindici giorni. Secondo i nostri calcoli, questo fattore ha portato ad un incremento del 7/8 per cento in termini di voti». Quello del comico genovese può essere dunque il primo partito in Italia? «Tutto può succedere – risponde il sondaggista –. In questo momento il M5S non lo è ancora, però con un ritmo simile ciò che è accaduto in Sicilia potrebbe avvenire anche alle elezioni nazionali». Poi il direttore di IPR Marketing mette in luce un aspetto importante: «Grillo è passato dal web alle piazze, non attrae più solo gli internauti ma anche coloro che fanno politica attiva nei luoghi tradizionali. Oggi il suo movimento oscilla fra il 16 e il 20 per cento». Sembra essere questo uno dei motivi che ha spinto una buona fetta dei siciliani a votare per il suo Movimento. Come ci racconta Rosario, 33 anni, che parla di «un modo di fare politica nuovo, per alcuni versi rivoluzionario. Una politica partecipata da cittadini per i cittadini, dove ognuno vale uno. La Sicilia, come altre Regioni, convive da anni con sperperi e clientelismo. Conoscendo di persona Cancelleri ho avuto modo di capire la genuinità della sua persona nonché la pacatezza e la coscienziosità nell’affrontare la corsa alla Regione. Il tutto senza che nessuno documentasse ciò che stava avvenendo nelle piazze siciliane. Mi ha dato fiducia vedere una persona come me piuttosto che un inarrivabile uomo in auto blu – continua Rosario –. La “casta” dei politicanti ha avuto la propria occasione, fallendola. Perché dare ancora fiducia a chi ci ha portato allo scatafascio? I seggi raccolti saranno determinanti nella vita e nelle decisioni prese dal nuovo governatore e dalla sua giunta. Credo servirà a darsi una “regolata”», conclude. L’altra faccia della medaglia è quella del Pdl, su cui sembrano essere definitivamente scorsi i titoli di coda. Pur sommando i voti raccolti dal partito e quelli presi dalla Lista Musumeci il crollo rispetto alle precedenti regionali è evidente e pesante. Lontano anni luce dal 33,5 per cento che il solo Popolo della Libertà raccolse quattro anni fa, quando Raffaele Lombardo doppiò la candidata del Pd Anna Finocchiaro. E, manco a dirlo, sul banco degli imputati è finito ancora una volta il segretario Angelino Alfano, che pure ha già formalizzato la propria candidatura alle primarie di dicembre. Daniela Santanchè vorrebbe la sua testa, mentre l’”amazzone” Michaela Biancofiore la pensa in maniera diversa. «Personalmente ho sempre messo in guardia Alfano dall’appoggiarsi sulla classe dirigente del Pdl. Questa sconfitta non può essere colpa sua, visto che è alla guida del partito da un anno – dice Biancofiore a Il Punto –. Certo è che lui poteva fare molto di più: aveva l’oro in mano e un partito genuflesso ai suoi piedi. Invece, forse per troppa educazione o per mancanza di coraggio, non ha avuto quella spinta innovatrice che ci voleva già all’epoca. Il decremento dei voti – prosegue ancora la deputata del Pdl – è iniziato il giorno dopo che siamo andati al governo: colpa di una dirigenza che si è imborghesita e che non riesce a cogliere la volontà dell’elettorato. In Sicilia tutto ciò è apparso chiaro: Musumeci più Miccichè insieme avrebbero raccolto oltre il 40 per cento dei voti. Una vittoria netta se non per i soliti personalismi che hanno portato all’allontanamento di Miccichè, prima sponsorizzato da Berlusconi e Alfano e poi fatto fuori da un giorno all’altro quando è intervenuto qualcuno, di cui non faccio nomi. Per preservare la propria poltrona c’è chi ci ha portati alla sconfitta. Le primarie? Ma le primarie di cosa? Dimettiamoci tutti e lasciamo che sia Berlusconi a decidere il da farsi». Poi ci sono i vincitori, che pure hanno le loro gatte da pelare. Perché Crocetta ha vinto grazie ai voti dell’Udc, che nell’economia del successo sono stati fondamentali. Un risultato che sconquassa i piani a livello nazionale? «L’Udc in Sicilia non è quello di Roma, così come il Pd siciliano è quello che si è alleato con Lombardo e nel quale non mi riconosco in modo così naturale. Questo risultato ci impone di ascoltare gli elettori: è un messaggio di malessere che deve portare ad una riforma radicale della politica» commenta Ivan Scalfarotto, dirigente del Partito democratico. «Al di là dei singoli casi, trovo che sia un risultato elettorale preoccupante per l’Italia – incalza Scalfarotto –. È il ritratto di un Paese difficile da governare, con i cittadini hanno voltato le spalle alla politica. Bisognerà fare in modo che la nuova legge elettorale non produca frammentazioni, altrimenti sarebbe un disastro. Pensare ad un sistema proporzionale con premio al primo partito non ha senso. Ci vuole invece un maggioritario con premio di coalizione». Cosa accadrà a livello nazionale resta dunque un’incognita. Nell’isola, dopo l’esclusione di Claudio Fava, Sel ha sostenuto Giovanna Marano (Fiom), che non ha raccolto i risultati sperati. E anche l’Idv non è andata granché. Nel day after i dubbi restano annidati sul tavolo di Pier Luigi Bersani. Grillo è pronto a saltare molto più vicino di quanto il segretario del Pd possa immaginare.
Twitter: @GiorgioVelardi
Se i rottamati diventano rottamatori – da “Il Punto” del 26/10/2012
martedì, ottobre 30th, 2012
Tanto spirò il vento della «rottamazione» che alla fine i rottamati si trasformarono in rottamatori. Succede anche questo nell’Italia che cammina (a rilento) verso la Terza Repubblica, o che forse torna (correndo) alla Prima. Fatto sta che a pochi mesi dalle elezioni, con una legge elettorale ancora in fase “embrionale” e senza uno straccio di programma di cui poter discutere, l’attenzione è catalizzata in toto su chi deve essere “pensionato” o “dimesso”. Nel Pd come nel Pdl. Fra i democrat il protagonista assoluto è Massimo D’Alema. Il premier del “ribaltone” (dopo la caduta del governo Prodi del 1998), poi parlamentare europeo, ministro degli Esteri, membro di svariate commissioni (fra cui quella della pesca), vicepresidente dell’Internazionale Socialista e numero uno del Copasir. Da quasi 25 anni in Parlamento. Aveva pensato di non ricandidarsi, D’Alema. «Ne avevamo perfino parlato io e Bersani, un paio di mesi fa – ha rivelato lui –. Gli avevo detto: ragioniamo, troviamo un modo per un mio impegno diverso… Valutiamo assieme l’ipotesi che io non mi ricandidi al Parlamento. Ma ora no. Così, per quanto mi riguarda, no. Poi, naturalmente, parlerà il partito». Frasi pronunciate prima del “passo indietro” – o “autorottamazione” – di un altro pezzo da novanta del Partito democratico: Walter Veltroni. Il suo annuncio di non ricandidarsi ha provocato un effetto a cascata che finora ha portato con sé i vari Castagnetti, Turco, Treu, Parisi… Ma non D’Alema. O almeno non ufficialmente. Perché, ha detto il lider Maximo nel salotto televisivo di “Otto e mezzo” su La7, «se vince Bersani metterò a disposizione il mio posto in lista e non chiederò deroghe, ma se vince Renzi ci sarà uno scontro politico». Parole che portano a formulare tre domande. La prima: perché il Pd, in un momento di totale violazione delle regole da parte di una certa politica, crea scorciatoie per violarne una che fra l’altro è nel suo Statuto, e che prevede il limite dei tre mandati – cioè 15 anni in Parlamento – per i suoi deputati e senatori? La seconda, consequenziale: perché inserire quella norma nel regolamento del Pd, vista la presenza (già al tempo) di alcuni “fuoriquota”? Infine: cosa farà D’Alema in caso di vittoria (difficile, ma non certo impossibile) di Renzi? Darà veramente vita ad una nuova creatura di sinistra, dal sapore europeo e in combinata nordica con Vendola – come ipotizzato sette giorni fa da il Fatto Quotidiano – con il serio rischio di far esplodere il Partito democratico? Quesiti ai quali il presidente del Copasir dovrebbe rispondere facendo chiarezza. Sull’altra sponda del Tevere le acque sono sempre più agitate. “Colpa” di Daniela Santanchè. Quella che il 25 marzo del 2008 rivolgeva un appello alle donne italiane: «Non date il voto a Silvio Berlusconi, perché ci vede solo orizzontali e mai verticali». Al tempo, la ”pasionaria” azzurra militava ne La Destra di Storace. Poi è tornata all’ovile, è stata nominata sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e dopo la caduta dell’esecutivo guidato dal Cavaliere è diventata una delle maggiori oppositrici di Monti. Ma anche della nomenklatura del suo partito. Che, ha tuonato lei pochi giorni fa, dovrebbe dimettersi in blocco. Sarebbe difficile riepilogare tutte le reazioni dei suoi colleghi di partito. Basta quella del segretario Alfano, che ha definito il suo atteggiamento «sfascista» (e menomale che c’era la “s” davanti alla “f”…). Anche lei, da possibile rottamata – o “formattata”, per dirla con i giovani di centrodestra – vuole salvarsi rilanciando. Ma senza disporre di assi nella manica.
Twitter: @GiorgioVelardi
Il fallimento delle fusioni a freddo – da “Il Punto” del 5/10/2012
lunedì, ottobre 8th, 2012
C’erano una volta Pdl e Pd. I due partiti che alle ultime elezioni politiche (2008) raccolsero, sommandoli, il 71 per cento dei voti degli italiani. Soggetti nati per evitare l’ingresso in Parlamento di “partitini” e ali estreme (colpevoli di minare l’italica ossessione bipolare) e per dare l’idea di solidità, indivisibilità, uguaglianza di vedute. È accaduto l’esatto contrario. Non solo sotto il profilo numerico – dopo il caso-Lazio le due formazioni raccolgono insieme circa il 45,5 per cento dei consensi – ma soprattutto sotto quello programmatico. Alzi la mano chi ha capito quali siano, ad oggi, le proposte di Pdl e Pd in vista del ritorno alle urne (e faccia lo stesso anche chi ha compreso la linea di Casini, al di là del «Monti dopo Monti»). Da una parte, quella del Pdl, le stravaganti esternazioni di Berlusconi stanno gettando nel caos più completo un partito già ampiamente in confusione, rischiando di vanificare gli sforzi internazionali del presidente del Consiglio. Dall’altra c’è un Pd che con Bersani propone la patrimoniale, sconfessando una parte del lavoro dei tecnici (eppure la fiducia ai provvedimenti l’hanno votata anche loro), e con Renzi loda Marchionne. Insomma, il Popolo della Libertà e il Partito democratico sono un fallimento per la politica italiana. E la causa dell’accaduto non è nemmeno di difficile reperibilità: l’aver voluto mettere sotto lo stesso tetto, forzatamente, uomini e donne con un passato e con idee diverse. In alcuni casi addirittura agli antipodi. Prendiamo il dibattito in corso fra i democrat riguardo le alleanze e i matrimoni gay. In un angolo c’è la componente cattolica dello schieramento, quella formata principalmente da Giuseppe Fioroni e Rosy Bindi, che si oppone alla volontà di Nichi Vendola di sposare il suo compagno (dunque alle unioni fra persone dello stesso sesso) e che di fatto preferirebbe un accordo con i «moderati». Nell’altro ci sono i vari Ignazio Marino, Sandro Gozi e Paola Concia che la pensano all’opposto (ricordate quanto accaduto a luglio nel corso dell’Assemblea nazionale del partito?). Lo stesso discorso può essere allargato all’eventuale Monti-bis, visto che un gruppetto di deputati e senatori – che comprende Tonini, Morando, Ichino e Gentiloni – è favorevole ad un governo politico guidato da “Super-Mario”. Nel Pdl c’è invece l’eterna questione degli ex An: restano, se ne vanno, scindono, si accordano al ribasso, dicono «basta» ma poi assorbono come spugne le stilettate dei forzisti. La fusione fra il partito che nel 1994 segnò la “discesa in campo” di Berlusconi e la creatura di Gianfranco Fini è stata una iattura. L’inizio della fine, sia delle politiche “liberali” di Forza Italia – se mai si siano viste – che della costruzione di una destra di stampo europeo da parte degli eredi del Movimento sociale italiano. Quel che è successo dopo è cosa nota. Il presidente della Camera cacciato in plenaria insieme a tutta la sua “banda”, la formazione di Fli, le campagne di certa stampa vicina a Berlusconi e la vicenda della casa di Montecarlo, che ha vissuto l’ennesimo atto una settimana fa. In tutto ciò, ovviamente, le Camere sono rimaste impantanate, prima delle manovre lacrime e sangue varate in fretta e furia dai “professori” per evitare danni irreparabili. In uno scenario simile c’è, paradossalmente, il rischio di rivivere una stagione tale e quale. Ecco perché Beppe Grillo, alla fine di ogni intervento sul suo blog, scrive: «Ci vediamo in Parlamento, sarà un piacere».
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Patto anti-scissione – da “Il Punto” del 28/09/2012
giovedì, ottobre 4th, 2012
Il piano per evitare che il partito imploda a causa del passo indietro degli ex An. Che starebbero trattando con il Cavaliere seggi “sicuri” alla Camera alle prossime elezioni. Gli ex ministri sono in fibrillazione: hanno paura di non essere ricandidati
«Berlusconi è diventato come un taxi: tutti vogliono salire a bordo della sua auto. E il giorno dopo le elezioni, ottenuto ciò che volevano, i suoi “passeggeri” scenderanno in blocco. Anche perché, come lei capirà, questa è l’ultima occasione in cui il Cavaliere potrà far eleggere qualcuno». Comincia così il colloquio de Il Punto con un ex esponente del Pdl che svela le grandi manovre interne al partito. Rivelazioni che arrivano nel giorno in cui la situazione nel Lazio precipita quasi fino a schiantarsi, con Berlusconi chiamato alla personale “discesa in campo” – in attesa che dica ufficialmente se sarà o meno della contesa per le politiche del 2013 – per evitare l’effetto domino ad un mese dalle elezioni in Sicilia e con le comunali di Roma alle porte (senza dimenticare la Lombardia, dove tra Roberto Formigoni e la Lega Nord è in atto una tregua armata).
ACCORDI E COMPROMESSI - «Ovviamente – aggiunge il nostro interlocutore – fra quelli che usufruiranno del passaggio di Berlusconi ci sono anche gli ex An». Pomo della discordia da mesi, nelle segrete stanze di via dell’Umiltà. Sempre prossimi alla scissione, spesso contrari alle linee guida del partito, i discendenti del Movimento Sociale non hanno mai nascosto il loro malumore, complici anche le dichiarazioni al vetriolo di qualche ex forzista della prima ora come Nunzia De Girolamo («Meglio Renzi di La Russa e Gasparri», ha fatto sapere la deputata campana) e Giancarlo Galan, e le lotte intestine fra le correnti. Ma se il Pdl sembra già sull’orlo del baratro, l’ennesima diaspora – dopo aver già perso 80 fra deputati e senatori dall’inizio della legislatura, come vi avevamo raccontato la scorsa settimana – segnerebbe la morte definitiva del partito. Fra l’altro alla fine di ottobre si voterà in Sicilia. Una Regione strategica nei piani di Berlusconi, dove il Popolo della Libertà ha deciso di appoggiare il candidato de La Destra Nello Musumeci. Quindi meglio evitare cataclismi e scendere a compromessi. Quali, per esempio? «Pare che gli ex An abbiano già chiesto al Cavaliere circa 20 seggi alla Camera in vista delle prossime elezioni. Prima i numeri erano più alti – si parlava di 50 posti –, poi però il rischio di una scissione postuma ha portato ad un ridimensionamento». Dunque le polveri sembrano poter prendere fuoco, malgrado i tentativi dell’ex premier di tenere serrate le fila e dare la parvenza di solidità e compattezza.
PAURA FRA GLI EX MINISTRI - Il Pdl oscilla, nei sondaggi, fra il 17 e il 21%. Alle elezioni del 2008 raccolse il 37,38% (conquistando 276 seggi alla Camera e 146 al Senato), alle Europee di un anno dopo il 35,3, staccando di quasi 10 punti il Pd. Oggi le statistiche dicono altro. Fotografano una realtà fatta di scandali, dimissioni, cambi di casacca e fallimenti, vedi quello del segretario Angelino Alfano (che non ha saputo risollevare le sorti del partito malgrado la personale investitura di Berlusconi). Il rischio è quello, per utilizzare un’espressione in voga da qualche mese a questa parte, di andare incontro ad una spending review elettorale senza precedenti, perdendo più di un terzo dei seggi. E a temere maggiormente ci sono i pesci grossi. Non è un caso, dunque, che solo poche settimane fa in un’intervista a Il Mattino Fabrizio Cicchitto abbia dichiarato che «un terzo dei parlamentari va scelto dai partiti con i listini bloccati. Di questo strumento si è fatto un pessimo uso – spiegava il capogruppo alla Camera dalle colonne del quotidiano campano –, ma senza di essi una serie di parlamentari di alto livello non sarebbero entrati o non entrerebbero più in Parlamento. Serve equilibrio, non demagogia». A questo proposito, la nostra fonte afferma: «Ci sono ex ministri che temono non solo per la loro rielezione, ma addirittura per la ricandidatura. È emblematico il caso della Lombardia, anche se in tutto il Nord ci sarà un crollo». Piccola digressione, necessaria per spiegare chi rischia davvero fra Milano e dintorni. Nella circoscrizione 1, ad esempio, sono inseriti Ignazio La Russa, Maurizio Lupi, Paolo Romani e Gianfranco Rotondi; nella 2 l’ex ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini; nella 3 un ex An di lusso come Massimo Corsaro. Ma la Regione governata da Formigoni non è l’unica fonte di preoccupazione per i “senatori” del Pdl. «In Veneto (circoscrizione 2, ndr) è stato eletto Renato Brunetta. Con l’aria che tira sembra però che ora voglia candidarsi in Campania, in virtù di una casa che possiede a Ravello (comune in provincia di Salerno, ndr)». Un luogo che l’ex ministro della Funzione pubblica ha nel cuore: è quello dove, nel luglio 2011, ha sposato Titti Giovannoni. E dove ormai è di casa: chiedere per credere all’Hotel Bonadies, che Brunetta ha definito «la mia seconda famiglia». Più in generale, «sono in molti quelli che cercano di spostarsi. Il Lazio era un bacino solido, ma dopo quanto accaduto recentemente è venuto meno. Insomma, si stanno muovendo le tombe di famiglia pur di conservare il posto», conclude ironicamente l’interlocutore.
CARO “PORCELLUM”… - Dal palco di Atreju Angelino Alfano ha rassicurato tutti: la legge elettorale si farà entro la prima decade di ottobre. Anzi, ha incalzato il segretario, «chiediamo a coloro i quali in modo indiretto stanno difendendo il “Porcellum” di farlo pubblicamente». Peccato che, a ben guardare, sia proprio il Pdl a trarre i maggiori vantaggi dal mantenimento dell’attuale sistema di voto. I tempi per l’approvazione stringono, e il fatto che dopo mesi di trattative e di richiami del Capo dello Stato la situazione sia uguale a prima fa pensare che i cavilli – vedi il nodo che riguarda la reintroduzione o meno delle preferenze – siano in realtà dei semplici escamotage per annacquare il tutto. Ne è sicuro anche Pino Pisicchio, capogruppo alla Camera dell’Api, che il 20 settembre scorso ha scritto su Europa (organo ufficiale del Pd) che «i recenti resoconti descrivono un preoccupante impasse al Senato, dov’è partito il confronto». Questo perché – argomentava Pisicchio – «abbandonato lo schema originario che reggeva sull’intesa tra i partiti che sostengono il governo Monti, si profila l’ipotesi concreta di un blitz del Pdl e della Lega, forte dei numeri favorevoli al Senato, con la possibile adesione dell’Udc, se l’impianto includesse il voto di preferenza. Impostazione che, per la storica avversione del Partito democratico alle preferenze, rappresenta un considerevole gesto di rottura del patto tra i partiti della “strana maggioranza”». Il rischio concreto è «la produzione del nulla, con l’inesorabile ritorno del “Porcellum”, poiché il voto alla Camera non solo propone una diversa platea elettorale quanto a numerosità della maggioranza del Senato, ma anche la votazione segreta della legge elettorale». Esattamente quello che sembra volere il Pdl. Cambiare tutto per non cambiare niente. In pieno stile gattopardesco.
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Fra «minestre riscaldate» e il ritorno a “qualcosa di destra” – da “Il Punto” del 27/07/2012
martedì, luglio 31st, 2012
E pur si muove! Non la Terra, come nel significato originale dell’espressione coniata nel ‘700 dallo scrittore Giuseppe Baretti, ma la destra italiana. Che, nei giorni in cui Silvio Berlusconi annuncia ufficialmente il suo ritorno in campo, è in fermento. «Ridare vita ad Alleanza nazionale», opponendola alla nuova (?) Forza Italia dell’ex premier, è il progetto che circola nelle (non tanto) segrete stanze. Perché è stato Altero Matteoli, storico colonnello aennino, ad uscire allo scoperto. «Un po’ di tempo fa ci siamo trovati a cena Ignazio La Russa, Maurizio Gasparri, Gianni Alemanno e il sottoscritto. In quella circostanza mi è stata prospettata l’idea di rifare Alleanza nazionale. Ho detto loro di non contare su di me», ha rivelato in un’intervista al quotidiano “Libero”. Ma che la componente di destra del Pdl fosse in agitazione lo si era capito da tempo. Proprio su questo giornale, a febbraio, avevamo ipotizzato una «Benedetta scissione», ovvero una separazione consensuale fra le due componenti del partito con il benestare di Berlusconi. Il quale ha poi però lasciato dormire l’idea, prima di rispolverarla in un momento – quello attuale – in cui il restyling passa soprattutto attraverso il ripulisti di dissidenti e malpancisti. Pensare ad una nuova Forza Italia ne è il segnale manifesto. Ma allora viene da chiedesi se non sia stato azzardato dare vita, solo quattro anni fa, al Pdl. Perché di tensioni ce n’erano già allora. Tanto che Gianfranco Fini, a dicembre del 2007 e solo un mese dopo il famoso annuncio del Predellino, andava dicendo che il Cavaliere era «alle comiche finali. Almeno per me, non esiste alcuna possibilità che Alleanza nazionale si sciolga e confluisca nel nuovo partito di Berlusconi, del quale non si capiscono valori, programmi, classe dirigente. Non ci interessa la prospettiva di entrare in un indistinto partito delle libertà». È andata diversamente, come sappiamo. Per il Pdl (che si è poi formato, con all’interno An, e ha vinto le elezioni del 2008), ma soprattutto per il presidente della Camera, epurato in plenaria e costretto a dare vita ad un nuovo soggetto politico (Fli) poi confluito nel Terzo polo. Le voci critiche, allora, non mancarono. Ma fra parole dette e non dette ci fu chi, come Roberto Menia, manifestò apertamente il suo dissenso, parlando di uno scioglimento (quello di An) avvenuto troppo in fretta. «Non credo ci volesse Einstein per vedere e capire ciò che stava accadendo» racconta Menia a “Il Punto”. «Io guardavo ciò che succedeva a destra – la mia storia politica è cominciata nel Movimento sociale ed è poi proseguita in An –, dove c’era un’identità abbastanza chiara, e mi accorgevo come il bipolarismo stesse degenerando, diventando un bipartitismo imposto. Un centrodestra italiano “diffuso” ci poteva stare, ma in quel modo diventava una omologazione di massa senza principi, fatta senza discussione, per calcolo ragionieristico e aziendalistico. E “sotto padrone”. I “colonnelli” del mio partito vedevano in questa frettolosa adesione una sorta di assicurazione sulla vita – prosegue il Capogruppo di Fli in Commissione Esteri –, immaginando di poter vivere sonni tranquilli e dorati». E Fini? «Si stava andando verso le elezioni, bisognava decidere se esserci o non esserci. Lui scelse la prima via, che sembrava anche pagare. Alle urne si andò con una lista comune, non con un partito unico: quello si è formato un anno dopo. Ed è ciò che io rimprovero: non c’era alcun bisogno di farlo. Si poteva optare per una federazione, garante delle diverse identità. Ora mi viene da sorridere», aggiunge Menia. Il motivo? «I miei ex colleghi di An, che sono ancora nel Pdl, denunciano adesso quello che noi dicevamo quando abbiamo “strappato”. Mi sembra che siano un po’ in ritardo». Un eventuale ritorno ad An? «Non credo alle minestre riscaldate. Tornare indietro è impossibile e sbagliato. Piuttosto, visto che la politica è sempre in evoluzione, credo che un domani si ricreerà “qualcosa a destra”. Ma bisognerà evitare di fare la ridicola sommatoria dei vari individui che hanno vissuto una fase in cui tutto si è disgregato. Se ci sono giovani che vogliono rimettere insieme una destra pluralista ed europea ben venga. Si eviti però di rincollare i cocci di un vaso che si è rotto». E mentre Fini, fanno sapere ambienti a lui vicini, non è d’accordo sul fare un tuffo nel passato, l’idea per il nuovo corso che coinvolgerebbe anche La Destra di Francesco Storace sarebbe quella di candidare una donna alla presidenza del Consiglio. Una vera novità per la politica italiana. Forse l’unica.
Twitter: @GiorgioVelardi