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L’Agenda sono io – da “Il Punto” dell’11/01/2013

mercoledì, gennaio 16th, 2013

Monti «sale in politica» e pensa al bis a Palazzo Chigi. Ma il suo programma è bocciato dagli economisti e, stando ai sondaggi, lo schieramento centrista da lui guidato non decolla. Crescono Pd e Pdl: per entrambi l’obiettivo è modificare le riforme, da loro stessi approvate, in caso di vittoria

++ MONTI, CON ABC NESSUNO PATTO PER NON CANDIDARMI ++«Gregorio Samsa, svegliandosi una mattina da sogni agitati, si trovò trasformato, nel suo letto, in un enorme insetto immondo». Comincia così La metamorfosi, il racconto più noto dello scrittore Franz Kafka, pubblicato all’inizio del ‘900. Se la trasformazione del protagonista dell’opera letteraria ha riguardato l’aspetto fisico, quella subita da Mario Monti è stata di tutt’altra natura. In meno di un anno il Professore è diventato un politico di professione. Dismesso il Loden d’ordinanza, Monti ha lanciato la propria candidatura, accompagnandola con un programma elettorale (l’“Agenda per un impegno comune”) e occupando gli spazi radiotelevisivi proprio come Silvio Berlusconi (Pdl) e Pier Luigi Bersani (Pd), suoi principali antagonisti nella corsa a Palazzo Chigi. La strada che ha davanti il presidente del Consiglio uscente è però molto meno in salita rispetto a quella degli avversari. Monti infatti non deve essere rieletto perché – come ha ricordato il presidente della Repubblica Napolitano a fine novembre – è senatore a vita, quindi già parlamentare. Particolare da tenere in estrema considerazione. La sua “Agenda” è stata criticata dal “Superministro” Corrado Passera (secondo cui sarebbe servito «più coraggio») e da buona parte degli economisti italiani. Da Boeri a Zingales, passando per Alesina e Giavazzi che, in un lungo editoriale pubblicato sul Corriere della Sera il 27 dicembre scorso, hanno parlato di un programma «troppo Statocentrico. (…) Con un debito al 126% del reddito nazionale e una pressione fiscale tra le più alte del mondo – hanno scritto i due economisti – non si può sfuggire al problema di ridimensionare i confini fra Stato e privati. Illudersi che sia sufficiente “riqualificare la spesa” con la spending review rischia di nascondere agli italiani la gravità della situazione».

VIRTUALE E REALE – Le parole con cui Alesina e Giavazzi hanno terminato la loro analisi fotografano una realtà in continuo peggioramento. Se è vero che in questo anno il governo tecnico ha provveduto a ridare credibilità internazionale all’Italia, portando il famigerato spread sotto quota 270 punti base, dall’altra la condizione generale in cui versa il Paese non lascia dormire sonni tranquilli. Il 2012 è stato di lacrime e sangue, e si è chiuso con una crescita della disoccupazione di quasi un punto e mezzo percentuale (per ciò che riguarda gli under 25 si è toccata quota 36,5%), una caduta del Pil del 2,4% rispetto al 2011, un debito pubblico che ha superato i duemila miliardi di euro, la riduzione dei consumi delle famiglie («risparmio, rinuncia e rinvio» sono le tre “r” di cui ha parlato il Censis nel Rapporto 2012), un tasso di inflazione medio annuo del 3% (contro il 2,8 registrato nel 2011) e un incremento delle richieste di cassa integrazione del 12,1% (1,1 miliardi di ore). Più varie ed eventuali. Perché alcune delle riforme varate dal governo Monti hanno provocato effetti collaterali degni di nota. Su tutte l’introduzione dell’Imu – l’imposta sulla casa che ha contribuito a frenare la ripresa dei consumi – e la vicenda degli “esodati”, i lavoratori rimasti senza lavoro né pensione dopo il riordino del sistema previdenziale. Insomma, sembra esserci una sproporzione fra Paese virtuale (quello di cui parlano i Professori) e reale. Eppure l’ex Commissario europeo, per nulla turbato dalle critiche che hanno accompagnato la fine della sua avventura a capo dell’esecutivo, ha deciso di «salire in politica». La sua “Agenda” sembra però essere tutto il contrario di tutto. Sfogliando fra le 25 pagine che la compongono si legge, per esempio, che uno dei principali impegni per la prossima legislatura è la riduzione del prelievo fiscale complessivo, con particolare riferimento alla riduzione delle tasse che gravano su lavoro e impresa. Di più: come si è letto nell’”Analisi di un anno di governo” prima che fosse rimossa dal sito governo.it a causa delle proteste bipartisan, «l’obiettivo è di ridurre di un punto e progressivamente la pressione fiscale, iniziando dalle aliquote più basse per dare respiro alle fasce più deboli». Parole che cozzano contro le stime dello stesso governo, secondo cui nel 2013 la pressione fiscale aumenterà ancora fino a toccare il 45,3% (intermini reali si tratta di circa 380 euro in più a famiglia). Ancora: la raffica di rincari che colpiranno gli italiani nel 2013 – dalla Tares, la nuova tassa sui rifiuti, alla Tobin tax, passando per la Ivie (Imposta sul valore degli immobili all’estero) e gli aumenti delle tariffe del gas (+1,7% dal 1° gennaio) – e l’entrata in vigore delle «regole d’oro» del Fiscal compact sembrano declassare le parole del Professore al rango di “semplici promesse elettorali”.

CRESCITA CERCASI – «Rigore, equità e crescita». Alla fine, dei tre pilastri iniziali del governo Monti, gli italiani hanno saggiato solo gli effetti del primo. L’equità e la crescita non sono pervenute, malgrado le speranze del premier che il 20 gennaio 2012 affermava entusiasta: «Ci sono delle stime dell’Ocse e di Bankitalia che dicono che se l’Italia arriva ad un grado di flessibilità come c’è negli altri Paesi nel campo dei servizi ci sarà un aumento della produttività del 10% nei prossimi anni e, grosso modo, del 10% del Pil». Tono più dimesso quello che ha accompagnato la conferenza stampa di fine anno, il 23 dicembre scorso. «La crescita? – ha domandato il premier – È naturale che adesso non ci sia. Questa è un’altra illusione veicolata a cittadini che si ritengono ancora cretini. Come si fa a pensare che, avendo dovuto fare interventi come quelli a cui ciascun ministro ha collaborato (fra cui quella, già citata, delle pensioni, che ha spostato in avanti l’asticella fino a 67 anni, ndr), la crescita non avrebbe sofferto?». Ma nell’”Agenda” c’è spazio anche per istruzione, formazione professionale e ricerca. «Bisogna rendere le Università e i centri di ricerca italiani più capaci di competere con successo per i fondi di ricerca europei», è scritto a pagina 11. Anche in questo caso le nobili intenzioni del premier si infrangono con quanto deciso nella legge di stabilità. Il ministro dell’Istruzione Francesco Profumo, che pochi giorni prima dell’approvazione definitiva del testo aveva paventato il rischio default per diversi atenei italiani nel caso in cui non si fossero trovati 400 milioni per incrementare il Fondo di finanziamento ordinario delle Università, si è visto mettere sul piatto solo 100 milioni. Un fallimento. E la sanità? «Bisogna sempre più potenziare l’assistenza domiciliare dei parzialmente sufficienti e dei non autosufficienti», dice ancora il premier nel suo programma. Ma sempre nella ex Finanziaria ci sono solo 115 milioni di euro per i 30mila malati di Sla non autosufficienti, contro i 200 richiesti. Mentre si è deciso di rifinanziare la Tav: oltre 2 miliardi di euro fra il 2015 e il 2029.

CAMPO DI BATTAGLIA – Per ora, comunque, i sondaggi restano freddi nei confronti dello schieramento centrista (Casini, Fini e Montezemolo) guidato dal Professore, che non supera la soglia del 15% se non addirittura il 12%, secondo quanto ha affermato Nicola Piepoli a Linkiesta.it («Non spacca, è depressivo», sono state le sue parole). Due delle ultime rilevazioni – Tecnè per Sky Tg24 e Mannheimer per il Corriere della Sera – vedono invece centrosinistra e centrodestra nelle prime due posizioni. La coalizione guidata da Bersani oscilla fra il 35,3 e il 40%, mentre il Pdl si attesta fra il 17 e il 19% (l’alleanza con la Lega Nord siglata lunedì, che prevede Maroni candidato unico in Lombardia, Alfano premier e Berlusconi ministro dell’Economia in caso di successo, permette di sfiorare il 28%). Per entrambi gli schieramenti è partita la corsa a chi modificherà con maggiore incisività le riforme del governo uscente, da loro stessi approvate. La grande promessa di Berlusconi è l’abolizione dell’Imu: il mancato gettito derivante dall’imposta sulla casa – ha affermato a più riprese il Cavaliere – sarà compensato con aumento del prelievo su giochi, alcolici e sigarette. Sul fronte opposto, invece, si punta tutto sulla riforma delle pensioni e su quella del mercato del lavoro, mandate amaramente giù da Bersani e co. Provvedimenti su cui Cesare Damiano, vincitore delle primarie a Torino, ha intenzione di rimettere mano. «Se torneremo al governo non butteremo le riforme Fornero nel cestino – ha affermato dalle colonne del Corriere della Sera –, ma le correggeremo perché contengono errori fondamentali. Monti dice che vogliamo conservare un mondo del lavoro cristallizzato e iperprotetto? Forse è lui che è arroccato. Non si può andare avanti solo guardando ai mercati finanziari trascurando la realtà del mondo del lavoro», ha concluso l’ex ministro del Welfare. E pensare che fino a un mese fa la “strana maggioranza” guardava la luna sotto lo stesso cielo.

Twitter: @mercantenotizie

Attenti a quei due – da “Il Punto” del 14/09/2012

giovedì, settembre 20th, 2012

Una parte del mondo politico lavora per il Monti-bis, ma il tema dell’occupazione salda i rapporti fra il partito di Di Pietro e il sindacato dei metalmeccanici guidato da Landini all’insegna dei referendum. Il sondaggista Noto: «La Fiom può valere un balzo in avanti del 2/2,5%». A danno del Pd

L’autunno non è caldo, è bollente. Ci sono casi di crisi aziendali che non finiscono sui giornali». Ancora una volta, con un linguaggio diretto e spesso non in sintonia con quello dei suoi predecessori, è il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi a disegnare lo scenario che attende l’Italia nei prossimi mesi. Perché quello del lavoro è, e resterà a lungo, il tema «bollente» – per dirla come il numero uno degli industriali – del dibattito pubblico. È sufficiente leggere i dati, del resto; basta osservare quanto sta accadendo a tre storiche realtà della nostra penisola come Ilva, Alcoa e Carbosulcis per capire che qualcosa non va. Eppure le forze politiche che appoggiano il governo Monti sembrano guardare con disinteresse agli ultimi accadimenti. E al di là di qualche semplice annuncio-spot («Basta tasse», ripete quotidianamente il segretario del Pdl Angelino Alfano, mentre il Pd è preoccupato dall’avanzata del «rottamatore» Renzi e al centro è partita la campagna acquisti dell’Udc), il silenzio comincia a fare rumore. Proprio intorno alla questione dell’occupazione potrebbe saldarsi un nuovo asse, che sposterebbe i già fragili equilibri elettorali nel centrosinistra: quello fra l’Italia dei valori di Antonio Di Pietro e la Fiom, il sindacato dei lavoratori metalmeccanici guidato da Maurizio Landini.

REFERENDUM E ADDIO PD – Il punto d’incontro fra le due realtà non è solo l’ostinata opposizione al governo Monti e ai provvedimenti che quest’ultimo ha finora varato. Negli ultimi mesi i contatti fra Di Pietro e Landini si sono intensificati, e l’appoggio della Fiom ai due referendum sul lavoro che l’Idv ha presentato pochi giorni fa in Cassazione (hanno aderito anche Sel, i Verdi, il Prc e il Pdci. La raccolta delle firme inizierà a metà ottobre) non è che la punta dell’iceberg. Attraverso i due quesiti (a cui si aggiungono quelli sull’abolizione della diaria dei parlamentari e sull’abrogazione del finanziamento pubblico ai partiti), la formazione guidata dall’ex pm chiede il ripristino dell’articolo 18 (modificato con la riforma Fornero) e quello del valore universale dei diritti previsti dal contratto nazionale di lavoro (eliminato dal governo Berlusconi con l’articolo 8 del decreto legge n. 138 del 2011). Due dei capisaldi del più antico sindacato industriale italiano, che dall’insediamento dell’esecutivo guidato dall’ex Commissario europeo ha visto venire meno il dialogo con il Partito democratico. Il punto di non ritorno è stato la mancata partecipazione dei vertici del Pd alla manifestazione della Fiom tenutasi a Roma lo scorso 9 marzo. Quello sull’adesione (o meno) all’appuntamento di piazza fu un balletto che durò un mese, e che spaccò la compagine bersaniana. Alla ferrea posizione dell’ala veltroniana – con l’ex segretario che definì «incoerente» un’eventuale partecipazione dei democrat – si contrapposero i vari Fassina, Damiano e Orfini. Proprio il responsabile culturale del partito arrivò a dichiarare: «Appoggiamo un governo assieme a Sacconi e Gasparri, per le ragioni che conosciamo e condividiamo, e adesso, proprio chi non esita a sostenere la necessità di prolungare il più possibile questa esperienza, persino oltre il voto, trova imbarazzante la compagnia di qualche metalmeccanico Fiom…». Poi giunse la notizia che su quel palco sarebbero saliti i No-Tav e il partito si compattò per il «no» alla partecipazione, con dei distinguo. Perché ci fu chi come Vincenzo Vita parlò di «decisione tattica e politicistica » e chi, come Giuseppe Civati, definì la vicenda «un cortocircuito della politica, un pretesto scelto male». Fassina, Damiamo e Orfini rimasero a casa, e tornò il sereno. Da quel giorno il Pd sa di aver perso buona parte dei voti degli iscritti alla Fiom. E le conseguenze, in vista delle prossime elezioni, si faranno certamente sentire.

CANTIERE APERTO – All’interno del sindacato il dialogo è aperto. Perché, come per i partiti politici, anche fra le parti sociali ci sono le “correnti”. E non tutti concordano con l’avvicinamento della Fiom all’Italia dei valori. C’è chi vorrebbe rimanere ancorato al Pd e chi, come l’ala vicina al presidente del comitato centrale Giorgio Cremaschi e alla sua “Rete 28 Aprile”, chiede «una profonda trasformazione democratica del sindacato e la sua indipendenza politica». Lo stesso Cremaschi, di recente, ha fatto sapere che «non è compito della Fiom aggiungere dei personaggi alla foto di Vasto». Chiaro il messaggio e il destinatario. Ma il 4 settembre scorso, dalle colonne de il Manifesto, è stato Gianni Rinaldini (predecessore di Landini alla guida della Fiom e oggi coordinatore dell’area “la Cgil che vogliamo”) a chiedere formalmente a Di Pietro di presentare i due quesiti referendari insieme ad «un arco di forze molto vasto e rappresentativo di aree sindacali, politiche, intellettuali, giuslavoristi, soggetti editoriali che su queste questioni si sono battute e si battono. Un atto di generosità e di apertura dell’Idv – proseguiva Rinaldini – consentirebbe di condurre una battaglia politica con uno schieramento e un insieme di culture ed esperienze all’altezza dell’obiettivo che ci si pone: riportare la democrazia nei posti di lavoro. Tutti insieme possiamo farcela ». Ma un altro indizio che costituisce la prova del nascente avvicinamento lo si trova in Emilia Romagna, regione “rossa” per eccellenza. Qui il consigliere regionale dell’Idv Franco Grillini e il segretario regionale della Fiom Bruno Papignani non nascondono il loro «rapporto speciale», come lo ha definito il dipietrista. «L’Idv appoggia tutte le nostre proposte – ammette Papignani –, mentre il Pd ha un pregiudizio nei nostri confronti. Dentro al partito c’è un problema legato alla qualità delle persone». Forse il sindacalista non ha ancora digerito il mancato invito alla Festa democratica di Reggio Emilia, iniziata il 25 agosto e terminata cinque giorni fa. Il Pd ha invitato Cgil, Cisl e Uil, più svariati ministri dell’attuale governo (da Passera a Fornero, da Cancellieri a Patroni Griffi), ma non la Fiom. E neanche Di Pietro. «In questo momento non ci sono le condizioni», hanno precisato i responsabili dell’evento. Sintomo che il giocattolo si è rotto. E non basta la colla per rimetterne insieme i pezzi.

SONDAGGI ALLA MANO… Una recente simulazione di IPR Marketing, basata sui dati raccolti negli ultimi sondaggi effettuati e realizzata in base all’ipotesi di nuova legge elettorale circolata nelle ultime settimane (un sistema proporzionale con premio di maggioranza compreso fra il 10 e il 15% al primo partito, e una soglia di sbarramento del 5%), ha reso noto come senza la grande coalizione (Pd-Pdl-Udc) l’Italia rischierebbe lo stallo politico. Con una maggioranza alla Camera di 316 seggi – che salgono a 360 per assicurare la governabilità – il Pd che corre in lista con Psi e Api raccoglierebbe 232 seggi con un premio di maggioranza fissato al 10% e 254 con premio al 15%. Nessun livello di governabilità garantito neanche con l’asse Pd-Sel: fra 268 e 288 i seggi che i due partiti otterrebbero a seconda del premio. Stessa sorte anche per la “strana alleanza” fra Bersani e Casini e per quella che coinvolge democratici, centristri e vendoliani. Resta la “grande ammucchiata”, che assicurerebbe una maggioranza senza precedenti, compresa fra i 435 e i 445 deputati. Quale peso potrebbe avere dunque la formazione di un partito-Fiom che correrebbe insieme all’Idv? «Prima di tutto bisogna capire quale sarà la nuova legge elettorale, cosa che attualmente nessuno sa per certo – dice a Il Punto il direttore di IPR Marketing Antonio Noto – La Fiom è un sindacato minoritario ma importante, che ha un grande appeal per ciò che riguarda le tematiche che mette in campo. Inoltre, ha una visibilità a livello mediatico che può costituire un valore aggiunto in campagna elettorale. Con l’apporto del sindacato dei metalmeccanici, l’Italia dei valori potrebbe avere un vantaggio che oscilla fra il 2 e il 2,5%. Non è poco: oggi, secondo i nostri dati, Fli è al 2,5%, La Destra non arriva al 2% e il Psi è fermo all’1%. Va aggiunto poi che pur non avendo un numero di iscritti pari a quello della Cgil, il sindacato di Landini potrebbe ottenere un buon seguito, anche se la campagna elettorale non si baserà solo sul problema-lavoro». A conti fatti l’Idv farebbe un balzo in avanti significativo salendo all’8/8,5%, superando sia Sel (6%) che l’Udc (7%) e passando dagli attuali 34/36 deputati a 42/46 (da sottrarre a Pd e Sel insieme). «Un’alleanza dopo il voto fra Pd e Sel non garantirebbe la maggioranza alla Camera, secondo la bozza di legge elettorale circolata nelle ultime settimane – prosegue Noto –, quindi l’apporto dell’Idv assicurerebbe una maggiore stabilità. Al di là del gioco delle alleanze, c’è però da capire se i “poteri forti” legittimeranno un eventuale governo fortemente spostato a sinistra, oppure se si cercherà di mettere fuorigioco le ali estreme puntando su un accordo con le forze moderate. In questo caso l’Idv, pur con un risultato lusinghevole, verrebbe escluso. Neanche un’ipotesi estrema di alleanza, ovvero quella fra Movimento 5 Stelle, Idv e Fiom garantirebbe stabilità. Questa legge elettorale è pensata per arginare il rischio che un outsider possa vincere le elezioni e avere poi le mani libere. Certo – conclude il sondaggista – se non fosse abolito il “Porcellum” con Grillo al 30% alleato con l’Idv sarebbe tutta un’altra storia».

Twitter: @GiorgioVelardi 

Concertazione, indietro tutta – da “Il Punto” del 14/09/2012

lunedì, settembre 17th, 2012

«Esercizi profondi di concertazione nel passato hanno generato i mali contro i quali oggi noi lottiamo, e a causa dei quali i nostri figli e nipoti oggi non trovano facilmente lavoro». Così parlò Mario Monti lo scorso 11 luglio dal palco dell’assemblea annuale dell’Abi, l’Associazione bancaria italiana. Era il giorno in cui Silvio Berlusconi confermava le indiscrezioni del Corriere della Sera e annunciava una nuova “discesa in campo”, ma anche quello in cui Vittorio Grilli veniva nominato ministro dell’Economia. Nulla però fece rumore quanto le frasi del premier. Arrivate, oltretutto, a pochi giorni di distanza dalla bocciatura – con seguente ridimensionamento “istituzionale” – del presidente di Confindustria Giorgio Squinzi, che aveva dato solo «sei meno meno» all’operato dell’esecutivo, definito la riforma del mercato del lavoro una «boiata», e si era detto «totalmente d’accordo» con il Camusso-pensiero. Il quale, come abbiamo imparato a conoscere in questi nove mesi, è agli antipodi con quello dello stesso Monti e del ministro del Welfare Elsa Fornero. Insomma, ostracizzare i provvedimenti messi nero su bianco dal governo e criticare a spada tratta tutti gli sforzi che i “Monti boys” stanno difficilmente facendo avrebbe portato ad una crescita dello spread. Quindi meglio ingoiare il rospo e via. Perché «ce lo chiede l’Europa», «siamo ad un passo dal baratro» e via discorrendo. Poi però, a soli tre mesi di distanza, è successo quello che forse nessuno si sarebbe mai immaginato. E cioè che il presidente del Consiglio, a poche ore dall’inizio del vertice fra il governo e le imprese che si è svolto la scorsa settimana, abbia annunciato come «molto della sorte dei lavoratori, degli imprenditori e del Paese è nelle mani delle parti sociali italiane, e non solo e non tanto in quelle del governo». Questo perché, aggiungeva Monti alla fine del “tavolo”, «bisogna abbattere lo spread della produttività. E bisogna fare in fretta: l’Europa ci guarda». Scendendo su un terreno molto più discorsivo e colloquiale, potremmo citare la tecnica del bastone e della carota: alternare alle cattive maniere (le critiche alla concertazione) quelle buone («serve uno sforzo congiunto»). Ma rischieremmo di mancare clamorosamente il bersaglio. Perché quella di nove giorni fa non è la sola “piroetta” dell’ex Commissario europeo. Prima il balletto sulle liberalizzazioni, poi il teatrino sui poteri forti – «In Italia non ne conosco, magari questo Paese ne avesse di più», disse a novembre. Poi a giugno denunciò: «Negli ultimi tempi il governo ha perso il sostegno di Confindustria e dei poteri forti» –, infine la marcia indietro sulla questione di cui si è parlato finora. Nel mezzo ci sono i numeri in crescendo di debito pubblico, disoccupazione e richieste di cassa integrazione (secondo l’Inps, ad agosto sono stati autorizzati alle imprese 67 milioni di ore di Cig, +18,7% rispetto allo stesso periodo del 2011); le questioni di Alcoa, Carbosulcis e di altre migliaia di piccole e media imprese in difficoltà; un Parlamento in letargo che rischia il “miracolo” al contrario di varare una legge elettorale peggio del “Porcellum”. E pensare che l’indimenticato Tommaso Padoa Schioppa, noto per la frase sui «bamboccioni», poche settimane dopo essere diventato ministro dell’Economia (2006) disse: «Concertazione e accordo sono parole del linguaggio musicale»…

Twitter: @GiorgioVelardi

Onorevole sanità – da “Il Punto” del 4/05/2012

lunedì, maggio 14th, 2012

I nostri parlamentari (più i loro familiari e i giudici della Corte Costituzionale) non saranno toccati dal taglio di 17 miliardi di euro che nel 2015 colpirà il Servizio sanitario nazionale. Motivo? La loro salute è gestita da un Fondo di solidarietà a cui sono iscritte, secondo i dati del 2010, oltre 5.000 persone. Il costo? Più di 10 milioni di euro  

Un «refuso». Così il ministro del Welfare Elsa Fornero ha definito quello che sembrava essere l’ennesimo schiaffo – o «paccata», nel senso più spregiativo del termine – per gli italiani: l’estensione del ticket per gli esami specialistici ai disoccupati. «Un provvedimento che comporterebbe un aggravio per il bilancio familiare fino a centinaia di euro mensili», ha dichiarato immediatamente Walter Ricciardi, direttore dell’Osservatorio nazionale per la salute nelle Regioni italiane. Fornero ha fatto dietrofront, facendo sapere che il ticket resterà gratis, e che il «refuso» sarà cancellato con un emendamento al ddl lavoro. Potremmo discutere sulla professionalità dei tecnici, ma andiamo oltre. Perché una delle espressioni d’ordinanza del governo Monti è spending review. In italiano «revisione della spesa». Cosa verrà tagliato in concreto non è ancora dato sapere, anche se il ministro Passera ha sentenziato che «lo spazio per ridurre costi inutili c’è». E fra questi, perché no, ci sono anche le spese sanitarie per i nostri parlamentari. I quali non hanno nulla a che fare con il Servizio sanitario nazionale (che rischia di veder ridotte le proprie risorse di 17 miliardi di euro nel 2015), visto che provvedono alla loro salute attraverso un’assistenza integrativa (Asi) gestita da un Fondo di solidarietà alimentato con detrazioni mensili dalla busta paga ed estensibile anche ai familiari. Che, nel solo 2010, è costato quasi 10 milioni e 200mila euro. Ma se il fondo è autofinanziato qual è il problema? Che la quota versata ogni trenta giorni è “scalata” dallo stipendio, pagato con i soldi degli italiani.

L’ESERCITO DEI 5.000 – I dati a disposizione, che fanno riferimento all’anno 2010 – quando i deputati radicali, incontrando non poche resistenze e arrivando a minacciare lo sciopero della fame, chiesero spiegazioni a riguardo e poi pubblicarono i risultati su Internet –, parlano di oltre 5mila persone iscritte: 630 deputati in carica e 1.109 loro familiari; 1.329 titolari di assegno vitalizio e 1.388 loro familiari; 484 titolari di assegno vitalizio di reversibilità e 25 loro familiari; 2 giudici emeriti della Corte Costituzionale e 2 familiari dei giudici della Consulta titolari di reversibilità. Ogni mese i deputati versano 526,66 euro a testa, che vanno ad alimentare il Fondo di solidarietà, approvato dall’Ufficio di Presidenza della Camera il 12 aprile 1994 (come si legge nella prima pagina del regolamento) e amministrato dal Collegio dei Deputati Questori. Prova provata di quanto detto finora, all’articolo 13 del documento è specificato che «il Fondo di solidarietà assume i compiti relativi all’assistenza sanitaria integrativa ai deputati e ai loro familiari». Nel “Regolamento di assistenza sanitaria integrativa dei deputati” sono invece reperibili le altre informazioni utili a capire il funzionamento della “macchina”. I deputati in carica sono iscritti d’ufficio al sistema di assistenza sanitaria integrativa – uno di loro ci dice che ne avrebbe «fatto a meno», ma che è «obbligatorio» –, mentre possono essere inclusi anche i deputati cessati dal mandato titolari o in attesa di assegno vitalizio, i familiari beneficiari e non di una quota dell’assegno vitalizio, e infine giudici, giudici emeriti e familiari dei giudici della Corte Costituzionale (in quest’ultimo caso beneficiari del trattamento di reversibilità). All’articolo 2 (Altri soggetti iscritti) è scritto che i deputati e i giudici possono estendere l’iscrizione al sistema di assistenza sanitaria a coniugi, figli e soggetti ad essi equiparati (non coniugati e fino al 26esimo anno di età), figli inabili su lavoro in modo permanente ed assoluto, coniugi separati o divorziati che percepiscono però un assegno di mantenimento e conviventi more-uxorio (riconosciute dunque le famiglie di fatto, ma per ora solo se i conviventi non sono dello stesso sesso, come dimostra la vicenda dell’Onorevole Anna Paola Concia, che ha avviato un contenzioso per estenderla alla sua compagna). I costi sono irrisori, visto che alcuni dei parlamentari che hanno deciso di estendere l’Asi ci hanno parlato di cifre che oscillano fra i 50/70 euro in più a persona. Tante uscite ma poche entrate, dunque. E ci si meraviglia se poi i conti sono in rosso.

PRESTAZIONI E COSTI – Ma quali sono le prestazioni che vengono erogate dall’Asi? Si va dagli accertamenti diagnostici alle terapie psichiatriche, psicoterapeutiche e psicologiche, passando attraverso il parto, l’assistenza infermieristica per intervento chirurgico, la fisioterapia e le cure termali. Perché del resto, come disse tempo fa il “prode” Onorevole Domenico “Mimmo” Scilipoti, «i trattamenti termali hanno benefici sull’apparato respiratorio, sulla circolazione sanguigna e sulle malattie dermatologiche. In più incrementano il turismo e i posti di lavoro». E quanto costa, tutto ciò, alle nostre tasche? Nel 2010 la cifra ha toccato quota 10 milioni e 117mila euro (nel 2008 furono quasi 13 milioni, nel 2009 circa 11). Parliamo, a conti fatti, di 28mila euro al giorno, 810mila euro al mese. Si passa dal rimborso di 2 milioni e 743mila euro dei deputati in carica ai 5 milioni e 347mila di quelli titolari di assegno vitalizio. Mentre per i giudici della Corte Costituzionale si scende ad appena – verrebbe da dire – 8mila euro. Quali sono i settori di spesa più gettonati? Al primo posto ci sono ricoveri ed interventi (3.173.526 euro), a cui fanno immediatamente seguito le cure odontoiatriche (3.092.755, il 30 per cento dell’intero budget). Molto più staccate le altre voci, anche se saltano all’occhio i 974mila euro circa per le cure fisioterapiche, i 257mila per la psicoterapia, i 204.171 per le cure termali e, addirittura, i 488.164 euro per gli occhiali. Infine ci sono i 37.412 euro per le protesi ortopediche, i 28.138 euro per le vene varicose («sclerosante») e i 153.190 per i ticket sanitari. Perché, se malauguratamente un deputato dovesse trovarsi in un qualsiasi ospedale di periferia e fosse costretto a pagare di tasca propria, può chiedere un successivo rimborso alla Camera. Ovviamente, per alcune voci di spesa, ci sono dei massimali. Ad esempio per le cure odontoiatriche il plafond è di 23.240,56 euro a famiglia per 5 anni. «Ci si possono impiantare i denti d’oro», dice un altro dei deputati beneficiari del trattamento. Per le cure termali l’importo limite annuo è di 1.240 euro, mentre le visite generiche e quelle omeopatiche vengono gestite singolarmente (non più di 150 euro cadauna la prima, massimo 55 euro la seconda). Dulcis in fundo, ecco i plafond annui di 3.100 euro per la psicoterapia e di 3.500 euro per le protesi acustiche bilaterali. E la chirurgia estetica? Nel “Tariffario per l’assistenza sanitaria integrativa dei deputati” c’è anche quella (pag. 8), ma sono rimborsate al 90 per cento solo medicazioni di ustioni Nas, chemiochirurgia della cute e infiltrazione di cheloide. Protesi al seno e nasini alla francese non sono (per ora) contemplati.

PAGA “PANTALONE” – Avete presente quanto accaduto negli ultimi mesi alla sanità pubblica? Pazienti “parcheggiati” e addirittura legati alle barelle, ambulanze che non ci sono – e allora ci si affida a quelle private, con i tragicomici risultati che vi abbiamo raccontato nel numero 10 de Il Punto –, medici ed infermieri costretti a doppi e tripli turni perché si è in carenza di personale. Ebbene, a margine di tutto ciò, nella Capitale la Asl Roma A (quella a cui appartengono anche il Policlinico Umberto I e il Fatebenefratelli) ha stipulato una convenzione con la Camera dei deputati in data 27 aprile 2009. La quale mette a disposizione «medici dirigenti dipendenti operanti presso i propri Servizi di Anestesia e Rianimazione, nonché infermieri professionali dipendenti operanti nell’Area dell’emergenza, e cinque unità di personale infermieristico che svolgono l’orario di servizio di 36 ore settimanali interamente presso i presidi di palazzo Montecitorio e palazzo Marini». La convenzione, al via qualche mese più tardi (1° novembre), è stata rinnovata pochi giorni fa. Nel 2009 il costo era di 220mila euro, lievitato addirittura a 960mila nel 2010. «La Asl Roma A assicura – senza ulteriore onere per la Camera – la sostituzione temporanea con altro personale degli infermieri, qualora si verificasse l’impossibilità, per assenza di alcuni di essi comunque motivata, di assicurare la copertura dei turni di servizio presso i presidi», si prosegue. Oltre le 36 ore settimanali lo “straordinario” è a carico della Camera. Pure. Poi ci sono altre convenzioni, che messe insieme superano i 500mila euro. La prima, di 31mila euro, è con Ambulanze Città di Roma Srl («Servizio di Ambulanza»); la seconda, di 435mila euro, con il Policlinico Gemelli per «Assistenza medica d’urgenza»; infine ce ne sono altre tre con studi privati, il cui valore va oltre i 130mila euro. Tanto per non farsi mancare nulla. Insomma alla fine, in un modo o nell’altro, paga Pantalone. Con buona pace della nostra anima.

Twitter: @GiorgioVelardi

Su che pianeta vivono i tecnici?

martedì, febbraio 7th, 2012

È una domanda che, in questi ultimi giorni, si staranno ponendo in molti: ma su che pianeta vivono i “tecnici”? Sul “pianeta tecnico” – chissà, magari potrebbe essere l’ambientazione naturale di un futuro film di fantascienza – o sulla Terra? A sentire le loro parole c’è da rimanere basiti. E menomale che, messo alla berlina Berlusconi (ma occhio al suo ritorno), ci eravamo illusi che anche la retorica politica degli ultimi vent’anni sarebbe andata a farsi benedire. Con la banda-Monti è un proliferare di dichiarazioni all’arsenico, che hanno come fil rouge il tema del lavoro.

Ha cominciato Michel “il secchione” Martone dando degli «sfigati» a quegli studenti che a 28 anni non si sono ancora laureati. Come se lui, diventato professore poco più che trentenne, non sapesse in che condizioni versano alcuni atenei italiani e che molti dei giovani laureandi lavorano per pagarsi gli studi. I dati di AlmaLaurea, il consorzio interuniversitario nato nel 1994 su iniziativa dell’Osservatorio Statistico dell’Università di Bologna e gestito con il sostegno del Miur, lo hanno sbugiardato: con la riforma del “3+2” l’età media di laurea si è abbassata e di molto, tanto da toccare i 23,9 anni nel caso della triennale e i 25,1 in quello della specialistica. Insomma, siamo ben al di sotto della tanto demonizzata “soglia-28”. Fa specie che a parlare sia, in questo caso, un personaggio alle cui spalle si erge la figura di un padre dal passato importante, come ha ricordato anche Marco Travaglio nell’ultima puntata di Servizio Pubblico (vedi il video qui: http://www.youtube.com/watch?v=rM5gwntnADA)

Poi è stata la volta di “Super Mario” Monti – per qualcuno è ormai “nonno Mario” –, che comodamente seduto sulla poltrona della trasmissione televisiva Matrix ha esclamato, con tono tronfio: «Il posto fisso? Che monotonia!». Come se lui, da europeista convinto qual è, non conoscesse la situazione in cui l’Italia si trova attualmente – rispetto al resto di quei paesi europei con cui si confronta quotidianamente – sotto il profilo dell’occupazione. Ci siamo ritrovati ad avere, da vent’anni a questa parte, quasi 50 tipi di contratti: a tempo determinato, a progetto, di somministrazione (e qui si sprecherebbero le battute), di inserimento, gli stage. Si potrebbe continuare, ma preferisco non annoiarvi. E, guarda un po’ il caso, l’ultimo rapporto Unioncamere-Excelsior ha messo in luce come nei prossimi tre mesi non saranno rinnovati la bellezza di 106mila contratti a termine. Perché forse, quello che Monti non sa, è che il problema non è riuscire a cambiarlo il lavoro, ma a trovarlo (prima di tutto). Ma cosa fa secondo voi il figlio del premier? Ha 39 anni, ed oltre ad essersi laureato alla Bocconi (guarda tu che caso, lì il padre era rettore!) ha già avuto ruoli di spicco in Goldman Sachs (altra coincidenza!), Bain & Company, Morgan Stanley e Citigroup. Insomma, un secchione anche lui. Sono i giovani comuni – e «sfigati» – ad essere delle mezze calzette.

Al terzo posto c’è lei, la ministra che si arrabbia se prima del cognome metti il «la». Perché lei vuole essere chiamata Fornero, Elsa Fornero o il ministro Fornero. Eccheccavolo, anche voi giornalisti che non badate alla lingua e che avete preso la laurea al Cepu! Usate il cervello, diamine! Comunque pure Fornero non ha voluto esentarsi dal dare il suo modesto parere sull’argomento, malgrado qualcuno le abbia consigliato di parlare meno. «Bisogna spalmare le tutele su tutti, non promettere il posto fisso che non si può dare. Questo vuol dire fare promesse facili, dare illusioni», ha detto intervenendo all’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università degli Studi di Torino. Ma che lavoro fa Silvia, figlia del ministro Fornero e del marito, il giornalista/professore Mario Deaglio? Insegna medicina (a soli 30 anni, altra baby-prodigio) nella stessa Università dei genitori. Pure qui una coincidenza, non vi scandalizzate voi menti perfide che non siete altro! E secondo voi «la» Silvia di lavoro ne ha solo uno? E no! Ne ha 2. È infatti responsabile di Human Genetics Foundation che, guarda caso, è una fondazione che si occupa di genetica, genomica e proteomica umana creata dalla Compagnia di San Paolo di cui la Fornero era vicepresidente dal 2008 al 2010. Ma, come amava dire Corrado, «non finisce qui». Perché la HuGeF ha ottenuto – grazie ai contributi di vari enti, fra i quali la Regione Piemonte – quasi un milioni e mezzo di euro per finanziare la ricerca. In un paese dove notoriamente fondi di questo tipo sono agli ultimi posti nei pensieri dei burocrati, e dove i nostri cervelli sono costretti ad espatriare per avere un briciolo di considerazione.

Infine, dulcis in fundo, lei, la Cancellieri. Che non è Rosanna, la giornalista passata anche per gli studi del Tg3, ma la riproposizione al maschile del compianto Tommaso Padoa-Schioppa, ex ministro dell’Economia del governo Prodi. «Gli italiani sono fermi al posto fisso nella stessa città di mamma e papà», il suo commento a Tgcom24. Una versione edulcorata dei «bamboccioni», con l’aggiunta che i ragazzi hanno un po’ le chiappe pesanti e ad andare in un’altra città, se non addirittura all’estero, non ci pensano minimamente. Sarà, ma come ha scritto un mio amico su Facebook, «forse i giovani cercano posto vicino a mamma e papà perché, dati i costi dei nido, il ruolo dei nonni è fondamentale quando si mette al mondo una creatura? Visti i congedi per maternità per donne (ridicoli) e uomini (assenti), una volta fatti, i pupi dove li lasciamo? Alla Cancellieri e alla Fornero???». Ciliegina sulla torta: che lavoro fa il figlio della ministra? È direttore generale di Fondiaria-Sai. Un bel posto fisso da 500mila euro l’anno. Mezzo milione di euro. Eh sì, ma non lavora mica nella stessa città di mammà. Però gli rimborsano qualsiasi tipo di viaggio, anche su Marte. Chissà se la va a trovare, almeno per il pranzo della domenica.