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Posts Tagged ‘Movimento 5 Stelle’

La massoneria ci riprova: dopo il silenzio di Grasso, lettera ai partiti per fare museo nel palazzo del Senato

mercoledì, gennaio 6th, 2016

Il Gran Maestro Bisi non ha avuto risposta al suo dossier per chiedere che sia riconcesso uno spazio al Grande Oriente d’Italia. Ora ci riprova con due missive indirizzate ai capigruppo

giustiniani-Una lettera. Anzi, due. Spedite direttamente al presidente del Senato, Pietro Grasso, e ai capigruppo delle forze politiche che siedono a Palazzo Madama. Dal Partito democratico a Forza Italia fino al Movimento 5 Stelle e ai ‘verdiniani’ di Ala. Insomma, stavolta il Grande Oriente d’Italia (Goi) è davvero determinato a riprendersi ciò che, a suo dire, gli spetta di diritto. Ovvero una porzione di Palazzo Giustiniani, la struttura che attualmente ospita l’appartamento di rappresentanza della seconda carica dello Stato e gli uffici dei senatori a vita un tempo di proprietà della più numerosa comunione massonica italiana, da utilizzare come sede del museo storico della massoneria. Circa centro metri quadrati all’interno dei quali esporre, nelle intenzioni del Goi, anche alcuni indumenti indossati dal massone italiano più famoso del mondo, Giuseppe Garibaldi. Una vicenda della quale ilfattoquotidiano.it si è recentemente occupato, anticipando i contenuti di un dossier che il Gran Maestro, Stefano Bisiha messo a punto e poi inviato al presidente del Senato. Accompagnato da una lunga lettera nella quale viene ripercorsa una questione che, fra grembiuli massonici, camicie nere e cavilli burocratici è iniziata oltre cento anni fa.

Missiva alla quale il presidente del Senato non ha però ancora fornito risposta, nonostante Bisi l’abbia spedita quasi due mesi fa, il 12 novembre 2015. Nelle due pagine e mezzo scritte di proprio pugno, il numero uno del Grande Oriente d’Italia ha ricordato a Grasso “il mancato adempimento da parte del Senato della Repubblica delle obbligazioni nascenti dall’atto transattivo intercorso il 14.11.1991 tra Intendenza di Finanza, Senato e Società Urbs”, appositamente costituita dal Goi nel 1911 per l’acquisto della struttura. Poi espropriata dal fascismo nel 1926. Accordo, quello firmato ai tempi in cui a presiedere l’Aula di Palazzo Madama c’era Giovanni Spadolini, che prevedeva “la concessione in uso da parte del Senato alla Urbs, e quindi al Grande Oriente d’Italia, di una porzione limitata dei locali stessi da adibire a museo storico della massoneria italiana. (…) Mi auguro che si possa aprire un canale di comunicazione per portare ad attuazione piena l’accordo transattivo del 1991 e fornire così finalmente una risposta adeguata alle altre finalità sottese che – conclude Bisi – attengono alla stessa memoria storica del nostro Paese”.

Ma non è tutto. Perché alla luce del silenzio di Grasso, il Gran Maestro del Goi ha preso nuovamente carta e penna e il 16 dicembre scorso ha scritto un’altra lettera. Indirizzandola, stavolta, a Luigi Zanda (Pd), Renato Schifani (Area popolare), Michele Giarrusso (M5S), Paolo Romani (FI), Lucio Barani (Ala), Mario Ferrara (Gal), Cinzia Bonfrisco (Conservatori e Riformisti), Gian Marco Centinaio (Lega Nord), Karl Zeller (Per le Autonomie) e Loredana De Petris (Gruppo Misto). Una missiva in questo caso più stringata, una pagina e mezzo circa, attraverso la quale Bisi chiede ai capigruppo dei partiti rappresentati a Palazzo Madama, “anche a nome di 23mila cittadini di questa Repubblica (cioè il totale degli iscritti al Goi, ndr), di contribuire alla soluzione di quanto sottoscritto per la realizzazione della piccola area museale della massoneria italiana”. Risposte? Per il momento nessuna. E chissà se arriveranno mai.

Twitter: @GiorgioVelardi

(Articolo scritto il 5 gennaio 2016 per ilfattoquotidiano.it)

Il 2016 di Renzi: dalle unioni civili al conflitto d’interessi alla revisione della Costituzione. Ecco le riforme incompiute

martedì, gennaio 5th, 2016

Si preannuncia un anno difficile per il premier. A partire dal mese di gennaio. Tanti i provvedimenti rimasti nel limbo. Per le difficoltà politiche incontrate dalla maggioranza. Nella lista delle cose da fare anche ius soli, omicidio stradale, codice degli appalti e legge elettorale per le città metropolitane

renzi-67511Avrebbe voluto inserirle nella eNews che ha inviato ai suoi sostenitori pochi giorni fa. Quella con cui ha tessuto le lodi del suo governo, che ha approvato “leggi attese da molto tempo”. Dall’Italicum alla ‘Buona scuola’ fino alla riforma dell’articolo 18. Eppure, almeno stavolta, il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, ha dovuto fare i conti con la realtà. Con la fine del 2015, infatti, mancano ancora all’appello numerose riforme. Alcune delle quali fondamentali per lo storytelling dell’ex sindaco ‘rottamatore’ di Firenze. Insomma, il 2016 si preannuncia un anno difficile per il premier e i suoi ministri. Da gennaio tornano in Aula altri delicati dossier. Dalle unioni civili all’omicidio stradale. Dallo ius soli al reato di tortura fino al codice degli appalti. Senza dimenticare la riforma costituzionale, quella della prescrizione e del terzo settore.

Unioni civili Saranno il primo banco di prova del governo alla riapertura del Parlamento. A fine gennaio, infatti, l’Aula del Senato voterà il disegno di legge sulle unioni civili. Un provvedimento su cui Matteo Renzi è stato più volte costretto a fare marcia indietro. Nonostante le promesse di mandarlo in porto già nel 2015. Colpa principalmente di Area popolare, il gruppo che unisce Nuovo centrodestra e Udc, da sempre contrario alla cosiddetta “stepchild adoption” (cioè l’adozione da parte di uno dei due componenti di una coppia del figlio del partner). La ministra per le Riforme costituzionali, Maria Elena Boschi, non ha escluso la possibilità di un’alleanza “con altri” – ovvero il Movimento 5 Stelle – se i centristi dovessero passare al muro contro muro. Uno scenario che metterebbe in serio rischio la tenuta dell’esecutivo. Anche perché il leader di Ncd e ministro dell’Interno, Angelino Alfano, si è detto “pronto a tutto” pur di bloccare le adozioni da parte delle coppie gay. Non solo. Perché ci sono da superare anche le resistenze del Vaticano, che ha parlato di “un governo che mette all’angolo la famiglia tradizionale”.

Riforma costituzionale Anno nuovo, vita nuova? Il vecchio adagio popolare farà eccezione nel 2016 per le riforme costituzionali. Nonostante le promesse del presidente del Consiglio, Matteo Renzi (“nel 2015 porteremo a termine l’iter parlamentare delle riforme costituzionali”) poco meno di dodici mesi fa. Manca all’appello la seconda doppia lettura. Poi, in autunno, la parola passerà agli italiani che dovranno pronunciarsi con il referendum – che il premier ha già trasformato in plebiscito personale – sulla nuova Costituzione. Tra le novità introdotte dal disegno di legge che porta la firma del ministro per le Riforme, Maria Elena Boschi, il superamento del bicameralismo perfetto; un nuovo sistema per l’elezione del presidente della Repubblica e dei 5 giudici costituzionali di nomina parlamentare, scelti separatamente da Camera e Senato; cento senatori eletti insieme ai consiglieri regionali e con l’immunità; aumento delle firme per i referendum abrogativi e per le leggi di iniziativa popolare; abolizione del Cnel.

Omicidio stradale Il via libera definitivo dovrebbe arrivare alla ripresa dei lavori parlamentari. O almeno così ha promesso la ministra Boschi alle associazioni delle vittime della strada che da anni aspettano un provvedimento. Dopo il via libera della Camera, il 10 dicembre scorso, anche il Senato ha licenziato la legge che ora tornerà a Montecitorio per la quarta e ultima lettura. Eppure Renzi avrebbe voluto vederla approvata in via definitiva entro la fine del 2015. Ma cosa prevede? L’introduzione dei due nuovi reati di omicidio stradale lesioni personali stradali. Rischia una pena da 5 a 12 anni, che sarà triplicata in caso di omicidio multiplo (senza però superare i 18 anni di reclusione), chi si mette alla guida ubriaco o sotto l’effetto di droghe. Mentre chi è sobrio ma procura lesioni permanenti rischia da 6 mesi a 2 anni. Accantonato il cosiddetto “ergastolo della patente”, cioè la revoca definitiva che il premier avrebbe voluto introdurre.

Prescrizione e terzo settore Erano diventate priorità per il governo dopo la deflagrazione dello scandalo “Mafia Capitale” che ha investito le Coop. Ma tanto la riforma della prescrizione quanto quella del terzo settore non hanno ancora visto la luce. Ferme in commissione a Palazzo Madama, difficilmente approderanno in Aula prima della prossima primavera. Anche per le polemiche che hanno accompagnato, in particolare, la legge sui nuovi termini di decorrenza per la perseguibilità di alcuni reati. A cominciare dalla prescrizione per la corruzione che il testo approvato alla Camera in prima lettura ha elevato a 21 anni, provocando la dichiarazione di guerra del Ncd, deciso a dare battaglia sul provvedimento al Senato. Polemiche che non hanno risparmiato neppure la riforma del terzo settore: tra i punti contestati la mancata istituzione di un’Authority di vigilanza e la possibilità per le imprese sociali di distribuire gli utili.

Codice degli appalti È un’altra incompiuta di questo 2015. Si tratta della riforma del codice degli appalti, ora in discussione al Senato per la terza (e ultima) lettura. A inizio dicembre la commissione Lavori pubblici di Palazzo Madama ha licenziato il testo proveniente da Montecitorio lasciandolo praticamente invariato, visto che tutti gli emendamenti sono stati ritirati o respinti. Proprio per questo il provvedimento, che fra le altre cose affida nuovi poteri all’autorità anticorruzione di Raffaele Cantone, sarebbe dovuto andare in Aula prima della pausa natalizia. “Uno slittamento a gennaio non sarebbe un bel segnale per una riforma che tutti consideriamo necessaria”, aveva ammonito il relatore, Stefano Esposito (Pd). È andata diversamente. Con buona pace di Esposito.

Ius soli È da sempre uno dei cavalli di battaglia del presidente del Consiglio. Ma anche il provvedimento sul cosiddetto ius soli sta andando avanti a passo di lumaca. A metà ottobre la Camera ha dato il primo via libera al disegno di legge che prevede, di fatto, due modi di acquisizione della cittadinanza: lo ius soli temperato e lo ius culturae. Nel primo caso, potranno chiedere la cittadinanza italiana i minori figli di genitori stranieri di cui almeno uno sia in possesso di un permesso di soggiorno europeo di lungo periodo. Nel secondo, invece, il minore nato in Italia (o arrivato sul territorio entro i 12 anni) che abbia concluso almeno un ciclo scolastico nel nostro Paese. “Siamo ancora in pista per i diritti civili”, ha assicurato Renzi nelle ultime eNews. Vedremo.

Conflitto d’interessi A maggio scorso la ministra Maria Elena Boschi promise che il governo avrebbe portato in Parlamento il conflitto di interessi (di cui lei stessa è stata accusata nella vicenda che riguarda Banca Etruria) “già nelle prossime settimane”. Peccato che ad oggi, passati sette mesi, nessuno abbia ancora visto il provvedimento. Né alla Camera né al Senato. L’11 dicembre la commissione Affari costituzionali di Montecitorio ha approvato il testo base della legge, primi firmatari Francesco Sanna (Pd) e Francesco Paolo Sisto (Forza Italia), che dovrebbe sostituire la contestata ‘Frattini’ (2004). Ma senza il voto delle opposizioni, Sel e M5S. Una proposta che cerca di fare dei passi in avanti nel risolvere l’annosa vicenda, pur non senza diverse criticità. Come la questione dei conflitti non patrimoniali. Se ne riparlerà nel 2016. Forse.

Città metropolitane Si tratta di un argomento passato sottotraccia. Ma secondo quanto previsto dalla legge Delrio, entro aprile prossimo il Parlamento avrà il compito di varare la legge elettorale con cui dovranno andare al voto le tre principali città metropolitaneRoma, Milano e Napoli. In realtà ci sono scarse possibilità che ciò accada. A novembre, proprio a ilfattoquotidiano.it, il sottosegretario agli Affari regionali, Gianclaudio Bressa, ha affermato che “serve più tempo” perché “ci sono aspetti che non possono essere risolti con un provvedimento da approvare in tempi così rapidi”. Tradotto: se ne riparlerà fra 6 anni e i cittadini non potranno eleggere direttamente gli organi previsti dalla Delrio.

Reato di tortura Quando il 9 aprile di quest’anno è stata approvata alla Camera, dopo l’ok del Senato arrivato a marzo 2014, in molti hanno pensato che si trattasse della “volta buona”. Invece, da quel giorno, della legge che dovrebbe istituire anche in Italia il reato di tortura (reso ancor più necessario dopo la condanna della Corte europea dei diritti umani di Strasburgo per i fatti del G8 di Genova) si sono perse le tracce. Che il 2016 possa segnare la svolta? Difficile, se non addirittura impossibile. “Dopo le promesse primaverili siamo tornati nuovamente nel buio”, denuncia a ilfattoquotidiano.it il presidente dell’associazione Antigone, Patrizio Gonnella. “Il ddl sulla tortura è scomparso definitivamente dai punti all’ordine del giorno della commissione Giustizia del Senato – aggiunge –. Ancora una volta hanno vinto le lobby contrarie alla legge che sono riuscite a convincere le forze politiche ad affossare l’introduzione di questo reato nel codice penale italiano”.

(Articolo scritto con Antonio Pitoni il 4 gennaio 2016 per ilfattoquotidiano.it)

Legge di Stabilità, assenze al voto finale: Lega batte tutti, seguita da Forza Italia, Fratelli d’Italia, Sinistra, Misto e M5S

mercoledì, dicembre 23rd, 2015

Renzi aveva detto: “I grillini non erano in Aula”. I deputati Cinque Stelle assenti erano 37 su 91 (il 40,6% del gruppo). Il grillino Fico: “Il premier mente sapendo di mentire”. Ma il record spetta al Carroccio. Il cui tasso di diserzione ha toccato il 75%. Nel Pd assenze al 6%. Molti i big che hanno mancato il voto. Da Bossi alla Santanché, dalla Meloni e La Russa a Fratoianni. E poi, Ruocco, Lombardi, Toninelli, Boschi, Bersani, Colaninno…

italicum-ok-6751La bordata è arrivata in diretta televisiva. Di domenica pomeriggio, durante la seguitissima trasmissione di Massimo Giletti. Ospite de L’Arena, su Rai Uno, Matteo Renzi ha preso di mira i grillini: “La legge di stabilità è stata approvata alle 2.58 di stanotte e i 5 Stelle non erano in Aula perché purtroppofanno un’opposizione che regge fino a che sono accese le telecamere – ha accusato il premier –. Forse è la famosa febbre del sabato sera, si sono ammalati tutto insieme”. È davvero così? A scorrere i tabulati delle presenze di Montecitorio non è che l’ex sindaco di Firenze abbia tutti i torti. Numeri alla mano, però, le defezioni non hanno riguardato solo i grillini. Basti pensare che dei 630 inquilini di Montecitorio solo 362 (il 57,5%) hanno partecipato alla votazione finale – quella delle 2.58 appunto – sulla manovra finanziaria. Il restante 42,5%, l’equivalente di 268 deputati, mancava invece all’appello. Tra loro anche quelli di Forza Italia, che è riuscita a fare peggio dei pentastellati. Se dei 91 parlamentari della pattuglia del M5S in 37 (il 40,6% dell’intero gruppo) hanno saltato l’ultima votazione notturna, sono stati 36 su 54 (il 66,6%) gli azzurri che hanno lasciato vuoti gli scranni del partito di Silvio Berlusconi.

TUTTI A CASA – Nella lista degli assenti alla votazione decisiva della Camera non mancano i volti noti del movimento fondato da Beppe Grillo Gianroberto Casaleggio, a cominciare dagli ex capigruppo Roberta Lombardi e Giorgio Sorial (il quale spiega però che era malato). Non c’erano neppure Danilo Toninelli, uno degli artefici della trattativa con il Partito democratico (Pd) che ha permesso di sbloccare lo stallo dell’elezione dei giudici della Corte Costituzionale, e Mattia Fantinati, asceso all’onore delle cronache per il suo assalto al meeting di Comunione e liberazione dell’estate scorsa. Vuote anche le sedie di Massimo Baroni, Andrea Cecconi e Carla Ruocco, unica componente del direttorio assente sabato notte. “Quando attacca il Movimento 5 Stelle, Renzi mente sapendo di mentire”, accusa il deputato Roberto Fico. “Nel corso della discussione sulla legge di Stabilità abbiamo dimostrato come si fa opposizione – aggiunge il presidente della commissione di Vigilanza Rai e membro del direttorio del M5S a ilfattoquotidiano.it –. Rivelando, peraltro, che ‘marchettificio’ è questo provvedimento, grazie al quale verranno finanziate le fondazioni degli amici degli amici: un atteggiamento inaccettabile da parte del governo”. Quanto a Forza Italia, oltre al solito Antonio Angelucci, recordman di assenze secondo la classifica di Openpolis, non c’erano neanche Deborah Bergamini, Micaela Biancofiore, Daniela Santanchè e la figliol prodiga Nunzia De Girolamo. Tra i big non pervenuti tra gli scranni di Montecitorio, anche gli ex ministri Antonio Martino e Gianfranco Rotondi, che si dichiara, però, “assente giustificato” perché, racconta, “c’era il congresso di Rivoluzione Cristiana (il partito di cui è fondatore e presidente, ndr) al quale non potevo non partecipare”. La compagnia dei desaparecidos si allarga a Gabriella GiammancoJole Santelli e all’ex presidente della commissione Affari costituzionali, Francesco Paolo Sisto, reduce dalla batosta della mancata elezione alla Consulta. Senza dimenticare le ex ministre Mara Carfagna e Maria Stella Gelmini, che hanno partecipato alle precedenti votazioni disertando, però, quella finale. I numeri, insomma, danno ragione a Renzi. Che oltre al M5S ha rimarcato, nel suo intervento televisivo, anche le defezioni di Forza Italia. Il suo Pd, peraltro, stavolta si è distinto per compattezza e presenza. Solo in 20 sui 301 del gruppo parlamentare della Camera, appena il 6,6%, sono mancati all’appello. Anche se scorrere i nomi degli assenti fa un certo effetto. Non hanno preso parte al voto delle 2.58 la ministra delle Riforme, Maria Elena Boschi (così come lo stesso presidente del Consiglio, Matteo Renzi, ma lui neanche è elencato nella lista degli aventi diritto in quanto non deputato), l’ex segretario del partito, Pier Luigi Bersani e l’attuale vice segretario, Lorenzo Guerini (che fa sapere di essersi sottoposto ad un “intervento chirurgico in mattinata e di essere rimasto in aula fino alle 19”). Notturna disertata anche dall’ex ministro dell’Istruzione, Maria Chiara Carrozza, dall’ex responsabile giustizia del partito, Danilo Leva, dal fedelissimo del premier e commissario alla spending review Yoram Gutgeld. Oltre ai deputati Micaela Campana (che però precisa che si trova in convalescenza post-operatoria da 10 giorni), Matteo Colannino e al guardasigilli Andrea Orlando, che però risultava in missione.

CERCASI LEGA – E gli altri gruppi? Pesanti le defezioni anche tra i deputati di Sinistra Italiana17 su 31, pari al 54,8%. Tra loro il candidato sindaco di Torino, Giorgio Airaudo, il vice presidente della commissione Antimafia Claudio Fava e Nicola Fratoianni. In Aula a ranghi ridottissimi anche la Lega Nord12 assenti su 16, il 75% dell’intera pattuglia parlamentare. A cominciare dal senatùr Umberto Bossi. Contagiati dalla febbre del sabato sera anche i deputati di Fratelli d’Italia: domenica notte ne mancavano all’appello 5 su 8, il 62,5% del totale. A cominciare dall’ex ministro e leader del partito Giorgia Meloni e Ignazio La RussaSette su 23, invece, le assenze fra gli scranni di Scelta Civica (il 30,4% del totale). Fra questi, Alberto Bombassei, presidente di Brembo, e gli ex 5 Stelle Ivan Catalano e Paola Pinna. Dieci deputati sui 31 totali sono stati gli assenti fra i banchi di Area Popolare (Ncd più Udc). Il 32,2%. Fra i quali il viceministro della Giustizia, Enrico CostaGiuseppe De Mita (nipote del più noto Ciriaco) e Sergio Pizzolante. Il gruppo Per l’Italia, che a Montecitorio fa capo a Lorenzo Dellai, ha fatto registrare il 30,7% di assenze: 4 deputati su 13. Hanno invece disertato la votazione delle 2.58, 33 deputati sui 62 totali del gruppo Misto (il 53,2%), del quale fanno parte numerose componenti. Dall’Alleanza liberalpopolare autonomie (Ala) diDenis Verdini (assenti Francesco Saverio Romano e Massimo Parisi) ai Conservatori e Riformisti di Raffaele Fitto (assente Daniele Capezzone). A proposito di febbre del sabato sera, Renzi ce l’aveva per caso anche con loro?

(Articolo scritto con Antonio Pitoni il 22 dicembre 2015 per ilfattoquotidiano.it)

Conflitto d’interessi, tra vantaggi patrimoniali, astensioni e blind trust: cosa c’è nella bozza della Camera

venerdì, dicembre 11th, 2015

Il Comitato ristretto in commissione Affari costituzionali ha approvato un testo base firmato da Sanna (Pd) e Sisto (Forza Italia). Senza il voto di Sel e Movimento 5 Stelle. Ed è subito polemica. Vediamo i punti critici del provvedimento. Anche con l’apporto del costituzionalista Pertici. Il presidente Mazziotti: “Testo migliorabile, l’importante era iniziarne l’esame”

camera675Non è ancora nemmeno iniziato l’esame in commissione che già divampano le polemiche. Da una parte gli autori del provvedimento, Francesco Sanna (Pd) e Francesco Paolo Sisto (Forza Italia). Dall’altra Sel e Movimento 5 Stelle. Stiamo parlando della “nuova” bozza della legge sul conflitto di interessi, il cui testo base è stato approvato ieri dal Comitato ristretto in commissione Affari costituzionali alla Camera e dal quale, rispetto alla prima versione, è scomparso il comma 2 all’articolo 4 che riguardava i conflitti non patrimoniali. Circostanza che ha scatenato le proteste delle forze di opposizione, che non hanno partecipato al voto. Anche perché scontente di altri aspetti importanti della normativa. “Il Comitato ristretto, che Sel e M5S avrebbero voluto sciogliere, è riuscito, anche se tra molti distinguo, a produrre un testo condiviso che sarà emendato e migliorato come è giusto che sia – commenta il presidente della commissione Affari costituzionali Andrea Mazziotti (Scelta civica) –. A questo punto la cosa più importante era sbloccare il testo e consentirne l’esame”. Ma cosa prevede davvero questa bozza? Cosa cambia rispetto alla legge Frattini, varata nel 2004 dal secondo governo Berlusconi e in seguito bocciata dal Consiglio d’Europa?

DICHIARAZIONI OBBLIGATORIE – La proposta di Sanna e Sisto cerca di fare dei passi in avanti nel risolvere l’annosa questione. Pur non senza diverse criticità. La futura legge si applicherà ai titolari di cariche di governo nazionali, dal presidente del Consiglio ai ministri, vice, sottosegretari e commissari straordinari nominati dall’esecutivo. Ma anche ai titolari di cariche di governo regionali (a cominciare dai presidenti), ai parlamentari e ai consiglieri regionali. A vigilare sull’attuazione della legge sarà l’Antitrust. Ma non è tutto. Per i due proponenti di Pd e Forza Italia, stavolta “sussiste conflitto di interessi in tutti i casi in cui il titolare di una carica di governo” sia, allo stesso tempo, “titolare di un interesse economico privato tale da condizionare l’esercizio delle funzioni pubbliche ad esso attribuite o da alterare le regole di mercato relative alla libera concorrenza”. Per questo, entro venti giorni dalla nomina, i titolari di cariche di governo nazionali devono obbligatoriamente presentare una serie di dichiarazioni: da quella delle cariche di cui sono eventualmente titolari a quella dei redditi. Compresa anche quella riguardante “la possibile esistenza di un’interferenza tra un interesse pubblico e un interesse pubblico o privato tale da influenzare – dice il testo – l’esercizio obiettivo, indipendente o imparziale di funzioni pubbliche, anche in assenza di uno specifico vantaggio economicamente rilevante”. Dichiarazioni che “sono rese anche dal coniuge non legalmente separato e dai parenti e affini entro il secondo grado del titolare della carica di governo nazionale o comunque dalla persona con lui stabilmente convivente non a scopo di lavoro domestico”. E che andranno presentate anche al termine del mandato, pena una sanzione amministrativa che varia da 5 mila a 35 mila euro.

OCCHIO AL BLIND TRUST – Ma, come detto, non mancano gli aspetti più controversi, che saranno oggetto di un’accesa discussione parlamentare. Come quello sul cosiddetto blind trust, cioè l’affidamento dei beni che compongono il patrimonio di un soggetto al fine di evitare proprio situazioni di conflitto di interessi patrimoniale. Vale a dire tutti i casi nei quali il titolare della carica di governo nazionale possiede, anche per interposta persona o tramite società fiduciariepartecipazioni nei settori della difesa, dell’energia, eccetera. Oppure quando queste siano tali da condizionare l’esercizio delle sue funzioni pubbliche alterando le regole di mercato. Quando rilevi una forma di conflitto di interesse patrimoniale, l’Antitrust potrà affidare le attività ad una gestione fiduciaria. Il gestore sarà scelto “tra banche, società di gestione del risparmio e società di intermediazione mobiliare”, è scritto nel testo, e sarà “tenuto ad amministrare i beni e le attività patrimoniali conferiti con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle sue specifiche competenze, apprestando altresì a tal fine, salvo diverso accordo tra le parti, idonee garanzie assicurative”. Secondo Andrea Pertici, professore di diritto costituzionale all’Università di Pisa, che ha letto il testo, quello del conflitto di natura patrimoniale è “il problema principale” della proposta di Sanna e Sisto. Il motivo? “Il ricorso alla gestione fiduciaria non esclude la conoscibilità dei propri interessi da parte del titolare – risponde –. La caratteristica principale del blind trust, utilizzato negli Stati Uniti in queste situazioni, è invece quella per cui i beni vengono trasformati dalla persona alla quale sono affidati e reinvestiti senza che il titolare ne venga a conoscenza, proprio per evitare che nell’esercizio delle sue funzioni pubbliche possa favorire i propri interessi privati, agendo in conflitti di interessi”. In questo caso, invece, “il possessore saprà dove sono i suoi averi, quindi nella propria attività pubblica e al momento di prendere decisioni rischierà di essere influenzato da questo aspetto specifico”. Con un unico distinguo. “Il testo dice che ‘qualora non vi siano altre misure possibili per evitare il conflitto di interessi, l’Autorità può disporre che il titolare della carica di governo proceda alla vendita dei beni e delle attività patrimoniali rilevanti’. Ma si tratta di un caso indicato come eccezionale e che rimane molto indefinito – conclude il docente –. Probabilmente la sua applicazione sarà assai controversa e, anche per questo, limitatissima”.

ASTENERSI PER FAVORE – Ma sorge spontanea un’altra domanda: cosa accadrebbe nel caso in cui uno dei titolari di cariche pubbliche dovesse trovarsi a prendere decisioni tali da provocare un indebito vantaggio a sé o a persone a lui strettamente vicine? Leggendo il testo verrebbe da rispondere: niente. O quasi. “L’Autorità (…), se rileva che il titolare di una carica di governo nazionale, nell’esercizio delle funzioni pubbliche ad esso attribuite, può prendere decisioni, adottare atti o partecipare a deliberazioni che, pur destinati alla generalità o a intere categorie di soggetti, sono tali da produrre, nel patrimonio dello stesso o di uno dei soggetti di cui al comma 5 dell’articolo 5 (cioè il coniuge non legalmente separato più i parenti e affini entro il secondo grado, ndr), un vantaggio economicamente rilevante e differenziato, ancorché non esclusivo, rispetto a quello della generalità dei destinatari del provvedimento – è scritto nel testo –informa il medesimo soggetto della rilevata ricorrenza, nei suoi confronti, dell’obbligo di astensione”. E anche in caso di violazione di tale obbligo non sembra succedere granché. Perché se “il titolare di una carica di governo nazionale prende una decisione, adotta un atto, partecipa a una deliberazione o omette di adottare un atto dovuto, conseguendo per sé o per uno dei soggetti di cui al comma 5 dell’articolo 5 un vantaggio economicamente rilevante e differenziato rispetto a quello conseguito dalla generalità dei destinatari, ovvero un vantaggio economicamente rilevante e incidente su una categoria ristretta di destinatari della quale il medesimo fa parte, salvo che il fatto costituisca reato, l’Autorità applica una sanzione amministrativa pecuniaria non inferiore al doppio e non superiore al quadruplo del vantaggio patrimoniale effettivamente conseguito dai soggetti interessati”.

Twitter: @GiorgioVelardi

(Articolo scritto l’11 dicembre 2015 per ilfattoquotidiano.it)

Fondo contro l’incidentalità notturna, silenzio del governo sui soldi a disposizione e su come vengono spesi

martedì, dicembre 8th, 2015

La denuncia della senatrice Maria Mussini. Che con un’interrogazione ha chiesto ai ministri Padoan, Delrio e Giannini di rendere note le cifre. Da utilizzare, secondo una legge del 2007, per sovvenzionare le attività di educazione stradale nelle scuole. Ma non solo. La vicepresidente del gruppo Misto a Palazzo Madama attacca: “Fatto inaccettabile, mancano anche le relazioni sulla gestione delle risorse da presentare obbligatoriamente al Parlamento”

incidenti-notturni675Si chiama “Fondo contro l’incidentalità notturna”. È stato istituito nel 2007, ai tempi del secondo governo di Romano Prodi, presso la presidenza del Consiglio dei ministri. Allo scopo di finanziare campagne di sensibilizzazione e di formazione degli utenti della strada, ricerca e sperimentazione nel settore di contrasto della guida in stato di ebbrezza o dopo aver assunto sostanze stupefacenti. Ma anche per sovvenzionare corsi volti all’educazione stradale degli studenti nelle scuole. Un intento lodevole. Almeno sulla carta. Perché il problema, a più di otto anni dalla sua creazione, è che non si sa quanti soldi ci sono a disposizione nel fondo per le suddette attività. Milioni di euro che avrebbero dovuto alimentarlo, sommandosi così agli 1,5 milioni stanziati da Palazzo Chigi nel triennio 2007-2009, giungendo in buona parte dalle multe comminate ai cittadini in violazione di alcuni articoli del codice della strada. Soldi pubblici, insomma. Di cui però nessuno sembra sapere nulla. Compresi il governo di Matteo Renzi, il quale, chiamato a rispondere sulla questione, non ha ancora fornito alcuna risposta, e il Dipartimento politiche antidroga della presidenza del Consiglio (delegato alla gestione del fondo), interpellato sull’argomento da ilfattoquotidiano.it.

SENZA RISPOSTA – A sollevare il caso è stata la vicepresidente del Gruppo Misto di Palazzo Madama, Maria Mussini. “Sono mesi che chiedo senza sosta chiarezza sul fondo – spiega la senatrice ex Movimento 5 Stelle –. Ad aprile, peraltro, il governo ha accolto un mio ordine del giorno assumendosi l’impegno di un’azione mirata a incrementarlo finalizzandolo anche alla ricerca”. Poi però, come spesso capita, il tutto è caduta nel dimenticatoio. “A quel punto ho indirizzato ai ministri Pier Carlo Padoan (Economia), Graziano Delrio (Trasporti) e Stefania Giannini (Istruzione) un’interrogazione, con la quale ho chiesto espressamente loro di quantificare le risorse a disposizione nel fondo e, soprattutto, di spiegare come vengono spese”. Inoltre, “vorrei anche sapere quando saranno presentate alle Camere le relazioni sulla gestione di questi soldi, come prevede la legge”. Infatti, ricorda Mussini, “per decreto il capo della Polizia sarebbe obbligato a trasmettere trimestralmente al Viminale un resoconto dell’entità del Fondo”, mentre “tre ministeri, Interno, Trasporti e Istruzione (Miur), sarebbero chiamati a riferire annualmente sull’impiego di quei soldi”. Invece, rivela, “l’unica relazione disponibile è quella del Miur del 2011”.

DECISIONE INAMMISSIBILE – Ma non è tutto. Nonostante il silenzio dell’esecutivo (nessuno degli interpellati ha risposto all’interrogazione), la parlamentare ex 5 Stelle è tornata alla carica sull’argomento grazie al disegno di legge sull’omicidio stradale, che dopo essere stato approvato a Montecitorio è ora in discussione a Palazzo Madama. Presentando emendamenti aggiuntivi riguardanti proprio il fondo contro l’incidentalità notturna. Risultato? Le proposte di modifica al testo firmate da Mussini sono state ammesse e votate in commissione Giustizia al Senato, della quale lei è componente, salvo poi essere dichiarate inammissibili per l’Aula. Un banale errore? Difficile dare una risposta certa. Anche perché proprio la vicepresidente del Gruppo Misto di Palazzo Madama non ha risparmiato critiche al provvedimento licenziato il 28 ottobre scorso dall’altro ramo del Parlamento. “Nel testo votato dalla Camera – attacca Mussini – sono state inserite aggravanti che non hanno nulla di penale, come per esempio lo stato assicurativo del mezzo”. Mentre, conclude, “non viene affatto curato il fronte della prevenzione che per me rimane l’unico strumento davvero efficace per ridurre le morti”.

Twitter: @GiorgioVelardi

(Articolo scritto il 7 dicembre 2015 per ilfattoquotidiano.it)

Contributi ai gruppi parlamentari: da Camera e Senato 106 milioni di euro incassati in due anni

giovedì, dicembre 3rd, 2015

Sono le cifre contenute nell’ultimo dossier Openpolis. Che ha analizzato i bilanci di tutte le forze presenti in Parlamento. Partito democratico primatista con 38 milioni. Seguito da Movimento 5 Stelle con 13. Ecco come sono stati spesi i soldi

camera_675Centosei milioni 700 mila euro di contributi stanziati ai gruppi parlamentari nei primi due anni di legislatura. Con il Partito democratico (Pd) a fare la parte del leone incassando, fra Camera e Senato, 38,5 milioni. E il Movimento 5 Stelle (M5S) ad occupare il secondo gradino del podio con 13,4 milioni. Sono questi i numeri resi noti dall’ultimo dossier di Openpolis dal titolo “Paga pantalone”. Uno studio che ha come oggetto proprio il contributo che le varie forze che siedono in Parlamento ricevono per le loro attività istituzionali e il loro funzionamento. “Una cifra in crescita – scrive l’osservatorio nel report – che ha raggiunto i 50 milioni di euro all’anno”. Da non confondere, però, con il finanziamento pubblico ai partiti. Il quale, secondo quanto previsto dalla legge varata due anni fa dal governo di Enrico Letta, sarà definitivamente abolito dal 2017.

PD PIGLIATUTTO – Per sopravvivere nei prossimi tre anni, comunque, i partiti potranno fare affidamento proprio sui contributi di Camera e Senato, calcolati sulla base della loro composizione. Ovvero: più è grande il gruppo e più soldi riceverà. Insomma, Matteo Renzi può dormire sonni tranquilli, visto che “il crescente numero di parlamentari iscritti al Pd” in entrambi i rami del Parlamento “non farà che aumentare il contributo che riceve il gruppo, un incremento tendenziale ad oggi pari a 1,3 milioni di euro all’anno”, scrive Openpolis. Ma in che modo i dem spendono i soldi che arrivano loro? Le uscite maggiori si registrano alla voce stipendi: 5,6 milioni di euro alla Camera nel 2013, cresciuti a 7,5 milioni nel 2014 (il 70,3% del bilancio), e 1,9 milioni al Senato, che hanno superato i 3 milioni lo scorso anno (67,4%). Aumentati anche i costi per le consulenze, passate da 205 mila a 329 mila euro dal 2013 al 2014 solo a Montecitorio. E che dire della comunicazione? Se a Palazzo Madama (dove il Pd conta 112 senatori) sono stati spesi ‘solo’ duemila euro in più, alla Camera la cifra è esplosa passando da 257 mila a 1,9 milioni di euro. Non è un caso, dunque, che i 4,3 milioni di euro di avanzo del 2013 siano crollati a 486 mila euro nel 2014. Mentre al Senato la cifra si è dimezzata di circa il 50%: da 2 a 1,1 milioni.

RISCHI A 5 STELLE – La medaglia d’argento, come detto, va al M5S. In questo caso, però, l’emorragia subita in termini di espulsioni e uscite volontarie (35 parlamentari hanno finora lasciato il Movimento) rischia di portare ad una “perdita tendenziale all’anno” che, calcola Openpolis“sarebbe pari a 2 milioni di euro”. Come per il Pd, anche il movimento di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio spende una fetta cospicua dei suoi bilanci parlamentari per le spese del personale, passate da 867 mila a 2 milioni di euro a Montecitorio (la cifra comunque più bassa rispetto a tutti gli altri gruppi) e da 1 a 1,5 milioni al Senato. Lo stesso discorso vale per le consulenze: i 189 mila euro del 2013 sono diventati 479 mila nei dodici mesi successivi alla Camera, mentre al Senato i 58 mila sono cresciuti attestandosi a 143 mila. Uscite sostanziose che, nonostante tutto, hanno permesso ai grillini di chiudere entrambi gli anni di legislatura con un avanzo di gestione: 961 mila euro nel 2014 alla Camera (erano 1,75 milioni l’anno precedente) e 305 mila 800 euro a Palazzo Madama (quasi 1,1 milioni nel 2013).

SILVIO IN ROSSO – Chi non se la passa per niente bene, invece, è Forza Italia (FI). Il partito di Silvio Berlusconi, che alle elezioni del 2013 si era presentato sotto l’egida del Popolo della Libertà (Pdl), è fra quelli che ha subito le perdite maggiori da inizio legislatura, causate in particolar modo dalla scissione del Nuovo centrodestra (Ncd). Ciò ha comportato “una tendenziale contrazione del contributo ricevuto pari a 5 milioni di euro”, scrive l’osservatorio. Quello che balza all’occhio, leggendo i bilanci di FI, sono i costi dei dipendenti rapportati al numero di deputati e senatori (95 in totale) di cui dispone oggi il partito. “Fra tutti – fa notare Openpolis – il gruppo di Forza Italia alla Camera risulta essere quello che maggiormente sente il peso del personale: incide infatti per l’85% delle entrate” (a Palazzo Madama la percentuale scende al 67%). Ma se proprio a Montecitorio alcune voci di spesa sono diminuite, per esempio le consulenze, andate incontro a 5 mila euro di tagli (da 327 mila a 322 mila euro), è al Senato che i costi sono lievitati. Le consulenze stesse sono passate da 32 mila a 249 mila euro; le collaborazioni da 36 mila a 389 mila euro; le somme impegnate per gli studi da appena 100 euro a 147 mila 900 euro. Non c’è quindi da stupirsi del fatto che, mentre a Montecitorio l’avanzo di FI sia di 298 mila euro nel 2014, a Palazzo Madama il rosso si attesti a 319 mila 192 euro. Ammortizzato solo grazie agli oltre 2 milioni di euro di avanzo del 2013. Insomma, tempi non facili per il Cavaliere.

OCCHIO AI BILANCI – E gli altri gruppi, come se la passano? Nei primi due anni di legislatura, la Lega Nord ha potuto usufruire di 4,6 milioni di euro di contributi: una percentuale molto alta è stata spesa in comunicazione (oltre l’11% a Montecitorio e il 12% a Palazzo Madama). Certo è, però, che bisogna stare attenti ai conti: infatti nel 2014 il Carroccio ha fatto registrare un disavanzo di 125 mila euro alla Camera e di 312 mila euro al Senato, anche in questo caso ammortizzati grazie agli avanzi degli anni precedenti. Lo stesso discorso vale per Sinistra Ecologia Libertà (Sel). Il partito di Nichi Vendola, il cui gruppo è presente solo a Montecitorio, ha ricevuto quasi 3 milioni di euro in due anni. Si tratta di “uno dei gruppi che ha potuto sopportare una chiusura di 2014 in negativo – rileva Openpolis – grazie all’avanzo di bilancio ereditato nel 2013” (182 mila 300 euro). Poi c’è Scelta Civica, che alla Camera conta 23 deputati (al Senato è completamente sparita) e che, come nei casi già citati, deve stare attenta al portafogli. Primo perché le uscite dal gruppo (22) hanno portato una perdita tendenziale di 1,1 milioni di euro l’anno; secondo perché nel 2014 la differenza fra entrate e uscite ha fatto registrare un rosso di 166 mila 900 euro. E Area popolare, fusione fra Ncd e Udc? È il gruppo che ha guadagnato maggiormente dai cambi di casacca: 3 milioni 980 mila euro (+67%).

Twitter: @GiorgioVelardi

(Articolo scritto il 3 dicembre 2015 per ilfattoquotidiano.it)

Comunicazione parlamentare, Grasso e Boldrini alle prese con la grana degli uffici stampa: nomi e criteri in alto mare

mercoledì, dicembre 2nd, 2015

Ci sono da rinnovare i contratti dei giornalisti di Palazzo Madama. Ma soprattutto stanno per lasciare i responsabili delle due strutture. Bisogna scegliere il metodo di selezione dei sostituti. Con un bando pubblico o per nomina diretta? Mannino (M5S) all’attacco: “Sciogliere il comitato per la Comunicazione di Montecitorio”

grasso-boldrini675Vertici degli uffici da cambiare. Giornalisti da confermare o licenziare. Criteri di selezione in alto mare. Con i presidenti di Camera e Senato, Laura Boldrini e Pietro Grasso, alle prese con la patata bollente. E il presidente di un organismo parlamentare delicato come il comitato per la comunicazione della Camera sull’orlo delle dimissioni. E tutto perché si deve cambiare. Non solo a Montecitorio, ma anche a Palazzo Madama. Con l’anno nuovo, gli uffici stampa di entrambi i rami del Parlamento potrebbero andare infatti incontro a cambiamenti radicali. Nel primo caso perché l’attuale numero uno, Anna Masera, scaduto il contratto biennale che la lega alla Camera tornerà a La Stampa. Ma sul metodo di selezione del suo sostituto è in corso uno scontro politico. Al Senato, invece, perché Iolanda Cardarelli, che dal 2009 guida l’ufficio stampa e Internet, andrà in pensione. In questo caso a sceglierne il successore sarà l’ufficio di presidenza, come previsto dal regolamento. Ma non si ancora se saranno confermati i tre addetti stampa di cui dispone attualmente Palazzo Madama. Il tutto fra le proteste degli esponenti del Movimento 5 Stelle (M5S). Scontenti dei metodi di scelta delle due nuove figure.

FUORI CONCORSO – Il prossimo 31 dicembre la Masera, che dal 1° gennaio 2014 gestisce sia l’ufficio stampa sia la comunicazione di Montecitorio, tornerà a lavorare per il quotidiano torinese. Per il quale, prima di richiedere l’aspettativa visto il nuovo incarico istituzionale, ricopriva il ruolo di caporedattore e social media editor. Ovvio, quindi, che dovrà essere scelto un successore. Ma in che modo avverrà questa nomina, che deve comunque passare attraverso la votazione dell’ufficio di presidenza? Attraverso un bando, come successo la volta scorsa vagliando decine di curricula, oppure no? I maligni dicono che la presidente dell’Assemblea, Laura Boldrini, vorrebbe ‘commissariare’ questo ufficio, affidando il coordinamento dello stesso ad uno degli addetti stampa della Camera. Il tutto per costruire ancora meglio la propria immagine in vista delle prossime elezioni. I nomi sul tavolo sono quattro: Fabio Rosati, Gennaro Pesante, Ida Bressa e l’ex inviato parlamentare di Radio Radicale Roberto Iezzi, dato come favorito vista anche la lunga esperienza maturata fra Montecitorio e Palazzo Madama. Contattato sull’argomento, però, il portavoce della Boldrini, Roberto Natale, smentisce l’ipotesi del ‘commissariamento’. “Da parte della presidente non c’è alcuna intenzione di muoversi lungo questa direzione portando l’ufficio stampa sotto la sua segreteria personale – spiega ailfattoquotidiano.it –. Rimarrà chiarissima la distinzione fra la comunicazione della presidente e quella della Camera”. Anche perché, tiene a precisare Natale, “ricordo che è stata proprio Boldrini a innovare la prassi per la quale, fino a questa legislatura, era solo il presidente a scegliere il capo ufficio stampa. Tutto ciò coinvolgendo il comitato per la comunicazione”.

GIACHETTI IN BILICO – Ma i ritardi nella scelta del metodo di selezione del nuovo capo ufficio stampa della Camera non piacciono per niente al M5S. “A meno che non si faccia una corsa contro il tempo, non ci sono margini per indire un nuovo bando per nominare il successore della Masera”, dice la deputata Claudia Mannino, segretaria d’Aula nonché componente del comitato per la comunicazione di Montecitorio guidato dal vicepresidente dell’Assemblea, Roberto Giachetti (Pd). “Mi stupisce il fatto che si voglia tornare indietro – aggiunge –, anche perché il lavoro fatto in questi due anni è stato innovativo e, con la campagna referendaria per la riforma costituzionale alle porte, mi sembra assurdo manipolare questo ruolo affidandolo esclusivamente alla presidenza. Domani (mercoledì 2 dicembre, ndr) è in programma un nuovo ufficio di presidenza nel quale l’argomento in questione non è nemmeno all’ordine del giorno”. Per questo “risulta inutile continuare a mantenere attivo questo comitato, che già si riunisce raramente – conclude la deputata grillina –. In via informarle, ho già chiesto a Giachetti di abolirlo: stiamo valutando di inviare una richiesta ufficiale”. Non è però da escludere, secondo quanto spiegano fonti parlamentari a ilfattoquotidiano.it, che lo stesso Giachetti possa anticipare tutti dimettendosi dall’incarico.

SELEZIONE PUBBLICA – Al Senato la questione è apparentemente più semplice, anche se non mancano i mal di pancia. L’unica certezza al momento è che, come detto, l’attuale capo ufficio stampa e Internet, Iolanda Cardarelli, andrà in pensione dopo sei anni alla guida dell’importante organo parlamentare. A nominare il suo successore sarà direttamente l’ufficio di presidenza di Palazzo Madama. Il motivo? A differenza di Montecitorio, il capo ufficio stampa del Senato è un funzionario interno al quale sono affidate ulteriori competenze (come quella riguardante la gestione della libreria) e non per forza un giornalista. Diverso è il caso dei tre addetti stampa interni allo stesso ufficio. I quali in scadenza di contratto – che viene rinnovato ogni tre anni – saranno scelti direttamente dal presidente dell’Assemblea, Pietro Grasso, secondo quanto previsto da una recente delibera dell’ufficio di presidenza di Palazzo Madama. Al momento non esistono certezze sulla conferma degli attuali componenti: Marco Tagliavini, assunto tramite selezione pubblica nel 2001, Laura Trovellesi ed Eli Benedetti (entrambi a Palazzo Madama dal 2006). Un modus operandi che, come per Montecitorio, scontenta il M5S. Dice Laura Bottici, questore dei grillini al Senato: “Speravo in un cambio di rotta, in una selezione di professionalità fatta attraverso un bando pubblico. So che è difficile cambiare abitudini – conclude –, ma mi auguravo una scelta di professionisti indipendenti e non nominati”.

Twitter: @GiorgioVelardi

(Articolo scritto il 1° dicembre 2015 per ilfattoquotidiano.it)

Trasformisti – Storia dei cambi di casacca in Parlamento fra Prima e Seconda Repubblica

giovedì, giugno 25th, 2015

PARLAMENTONel suo ultimo libro, I dilettanti, Pino Pisicchio, ex sottosegretario dei governi Ciampi e Amato, oggi presidente del Gruppo Misto alla Camera, li definisce «i transumanti». Ma c’è anche chi, spregiativamente, li chiama «voltagabbana» o «trasformisti». Etichette a parte, quello dei parlamentari che decidono di cambiare casacca è un fenomeno che, nell’arco delle diciassette legislature, ha registrato notevoli tassi di crescita. Quella attualmente in corso, addirittura, ha già fatto segnare il record di deputati e senatori passati da uno schieramento all’altro: 210, 103 a Montecitorio e 107 a Palazzo Madama. Numeri monstre, se si considera che mancano ancora tre anni alla conclusione naturale del quinquennio e che, fra il 2008 e il 2013 – periodo segnato dalla “staffetta” a Palazzo Chigi tra Silvio Berlusconi e Mario Monti –, gli inquilini del Parlamento che si sono spostati dal gruppo di appartenenza iniziale sono stati 179 (121 alla Camera e 58 al Senato).

C’era una volta la fedeltà. Si tratta di un modus operandi quasi del tutto sconosciuto nella Prima Repubblica, il periodo storico compreso, in Italia, fra il 1948 il 1994. Dice Pisicchio: «Il controllo esercitato dagli elettori con il voto di preferenza e la forte tenuta dei partiti riuscivano a scoraggiare i cambi di casacca. O a renderli inutili: le articolazioni interne dei partiti, le correnti, l’impianto democratico che ne reggeva la dialettica sulla base del principio proporzionalistico, e, infine, le forti barriere ideologiche che demarcavano le appartenenze, rappresentavano elementi di contenimento e di dissuasione più che sufficienti. Semplicemente – conclude – non facevano sorgere il bisogno di mobilità parlamentare». Non è dunque un caso se, nel corso delle prime undici legislature, alla Camera il numero dei deputati appartenenti al Gruppo Misto (nel quale vengono inseriti coloro che non sono iscritti a nessun’altra componente) abbia oscillato fra le 8 e le 24 unità.

E poi arriva Tangentopoli. Se nelle ultime due legislature della Prima Repubblica la percentuale di «transumanti» era quindi compresa fra il 4% e il 6%, con l’avvento della Seconda il trend è notevolmente cambiato. Perciò “Tangentopoli” (1992) non ha solo spazzato via un’intera classe politica, ma ha segnato un passaggio fondamentale sul fronte della democrazia interna ai partiti. Con la «discesa in campo» di Silvio Berlusconi e la vittoria di Forza Italia alle elezioni del ’94, in Italia nasce un nuovo fenomeno: il partito personale. Scrive Mauro Calise nel libro Il partito personale: «La differenza principale consiste nel fatto che l’apparato collegiale, di tipo organizzativo e ideologico, con il quale operavano i partiti della Prima Repubblica è stato, in gran parte, smantellato e sostituito con un apparato personale. I partiti stanno diventando macchine personali al servizio di questo o quel leader politico. È un fenomeno trasversale, che riguarda destra e sinistra».

Via alla transumanza. Perciò a cominciare dalla XII Legislatura, che pure ha avuto durata breve, appena due anni, per via della caduta del governo guidato proprio da Berlusconi (poi sostituito da un esecutivo tecnico con a capo Lamberto Dini), il fenomeno dei cambi di casacca è diventato una prassi consolidata. Fra il 1994 e il ’96 il 19,24% dei parlamentari sono passati da un gruppo all’altro. Percentuali in crescita se prendiamo in esame la Legislatura successiva (1996-2001). In questo caso, il 21,16% di deputati e senatori ha deciso di “traslocare”. Solo alla Camera, in quegli anni, il Misto ha registrato una considerevole impennata nel numero dei propri aderenti: 94, il 15% dell’intera rappresentanza. Certo, in molti ricordano quanto scritto nella nostra Costituzione all’art. 67, secondo il quale «ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato». Eppure ciò non è sufficiente a spiegare la complessità del fenomeno.

Cambi e ricambi. Basti pensare, ricordando le parole di Calise, a quanto è accaduto nella XVI Legislatura. Dove la “guerra” interna al centrodestra, che pure alle elezioni del 2008 aveva ottenuto ottimi risultati – solo alla Camera, grazie al “Porcellum”, la coalizione con a capo Berlusconi poteva contare su 336 deputati contro i 246 del centrosinistra –, ha portato alla scissione del Popolo della Libertà (Pdl) e alla formazione di Futuro e Libertà per l’Italia (Fli). Un partito guidato dal numero uno di Montecitorio ed ex leader di Alleanza Nazionale, Gianfranco Fini, nato dopo il durissimo scontro andato in scena il 22 aprile 2010 alla direzione nazionale del Pdl. «O fai l’uomo politico o il presidente della Camera», disse Berlusconi a Fini. «Sennò che fai, mi cacci?», rispose lui. La rottura, insanabile, ha visto l’uscita dal Pdl di 70 deputati e 27 senatori. Stretto fra un congiuntura economica sfavorevole e il pressing delle opposizioni, a novembre 2011 Berlusconi ha rassegnato le dimissioni.

Espulsioni e mal di pancia. Come detto, comunque, è la legislatura attualmente in corso ad aver fatto registrare il record assoluto dei cambi di casacca: oltre 10 al mese. Anche stavolta i motivi sono disparati. C’è stata, ad esempio, l’ennesima scissione nel centrodestra: l’implosione del Pdl ha visto il ritorno in vita di Forza Italia, con Berlusconi ancora alla guida, e la nascita del Nuovo centrodestra capitanato da Angelino Alfano. Senza dimenticare la recente creazione, al Senato, del gruppo Conservatori e Riformisti che fa riferimento a Raffaele Fitto. Che dire, poi, dell’arrivo sulla scena del Movimento 5 Stelle? Fra espulsioni e abbandoni, la formazione di Beppe Grillo ha già perso 35 parlamentari. Alcuni dei quali transitati in altri gruppi a parte il Misto. Dopo l’avvento di Matteo Renzi, invece, il Pd si pone come «partito pigliatutto» accogliendo 24 nuovi deputati e senatori. Perdendo, però, uno dei leader della minoranza: Giuseppe Civati. E non è detto che sia finita qui.

Twitter: @GiorgioVelardi

Per Imposimato il decreto Imu-Bankitalia è «incostituzionale». Ecco perché

martedì, febbraio 4th, 2014

ImposimatoFerdinando Imposimato, che non è né un ex fascista né un seguace del M5s, ha spiegato in una nota che «la legge di conversione del decreto legge Imu-Bankitalia appare incostituzionale».

E perché mai? «Anzitutto – scrive il magistrato – vi è stata violazione del diritto della opposizione del M5s di svolgere le proprie ragioni opponendosi al provvedimento, secondo le regole della Costituzione e il regolamento della Camera. La cd tagliola è incostituzionale, perché elimina il diritto della opposizione di motivare il suo voto contrario. La opposizione è parte essenziale della democrazia, i cui diritti vanno rispettati. Diversamente siamo in una situazione di regime cioè di dittatura della maggioranza».

Quindi? «La legge di conversione approvata il 29 gennaio è incostituzionale. Inoltre la parte del decreto legge Imu-Bankitalia che riguarda la cd ricapitalizzazione di Bankitalia per 7.5 miliardi di euro – spiega il presidente onorario della Cassazione – si tradurrà nel finanziamento illecito, attraverso Bankitalia, di istituti di credito in crisi, cioè in una donazione di enormi somme di denaro alle banche azioniste che controllano Bankitalia. Che sono Intesa San Paolo (42%), Unicredit (22,11%), Mps (4,60%), Inps (5,00%), Carige (4,03%) e altre banche. Questa parte del dl, che riguarda Bankitalia, sembra del tutto estranea al dl sull’Imu, che è imposta sulla prima casa, per la quale poteva essere giustificata la situazione straordinaria di necessità e urgenza ex art 77 sec comma della Costituz. Situazione che non si giustifica con la “ricapitalizzazione” di Bankitalia. La verità è che l’Italia con 1,7 trilioni di euro di debito versa in uno stato di disperazione».

Imposimato sottolinea ancora: «I soldi le banche li hanno ottenuti attraverso il decreto Imu-Bankitalia a spese dei cittadini su cui graverà il costo finale di questa operazione. Si tratta di un decreto truffa che vuole cose diverse da quelle che dice: apparentemente ricapitalizzare Bankitalia, che dovrebbe essere patrimonio degli italiani, invece vuole finanziare le banche in crisi, ex banche pubbliche divenute private, che controllano Bankitalia, di cui sono proprietarie. Questo è il problema».

In conclusione: che fare? «La prima cosa è che il Presidente della Repubblica ai sensi dell’art 74 della Costituzione, prima di promulgare la legge di conversione, chieda con messaggio motivato alle Camere, una nuova deliberazione (art 74 Costituzione), e come ha già rilevato in relazione al decreto milleproroghe, chieda lo stralcio dei due provvedimenti. Ma questo è il primo passo da compiere, a mio modesto avviso. Poi in sede di applicazione del decreto Imu, si potrà eccepire davanti al giudice la incostituzionalità della legge di conversione. Purtroppo i cittadini non possono adire direttamente la Corte Costituzionale».

Informazione a margine: questa nota è stata scritta e resa pubblica dal giudice Imposimato quattro giorni fa, giovedì 30 gennaio. Sapete quanti giornali l’hanno riportata? Nessuno. Neanche una breve. L’unica agenzia di stampa che l’ha battuta è stata “AgenParl“. Come mai?

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Gli acefali

venerdì, luglio 26th, 2013

dall-osso-il-deputato-m5s-affettoMi è capitato, recandomi alla Camera dei deputati nei mesi scorsi, di incrociare gli sguardi affascinati degli studenti venuti a visitare quel posto che – malgrado tutto – conserva ancora qualcosa di magico. I ragazzi guardavano il Transatlantico con occhi spalancati. Perché li si è scritta la storia di quel Paese che è anche il loro e che (speriamo) fra qualche anno li vedrà protagonisti.

Gli anni scolastici, appunto. Quelli della spensieratezza. Dello studiare e basta, dei pomeriggi passati a casa degli amici a darsi una mano nei compiti e a «cazzeggiare». Ma anche quelli degli sfottò in classe nei confronti di quei compagni che, per i più svariati motivi, non sono proprio come gli altri. Tutto ciò è sempre apparso ai miei occhi come un simbolo di debolezza e codardia. Anche perché, poi, gli stessi che irridono i più deboli si guardano bene dal ripetere simili comportamenti con quelli considerati “pericolosi”. Bulli part-time, insomma. Acefali, di fatto.

Qualche giorno fa, proprio a Montecitorio, sembrava di essere tornati a scuola. Seduta notturna, è molto tardi. Si discute sul cosiddetto “decreto del fare”. Prende la parola Matteo Dall’Osso, 35 anni, deputato del Movimento 5 Stelle. La sua è una storia particolare. Da dieci anni, Matteo è infatti affetto da sclerosi multipla. Non serve spiegare di che tipo di malattia si tratta, tutti – più o meno – sappiamo di cosa stiamo parlando. Dicevamo: Dall’Osso comincia a leggere il suo intervento ma poco dopo, complice la stanchezza, perde lucidità. Si ferma. Il presidente di turno, il collega di partito Luigi Di Maio, gli chiede se vuole continuare. Gli trema la mano. Lui non demorde e va avanti. Arriva addirittura a scusarsi mentre – ed è questo il punto – dai banchi vicini alcuni “colleghi” cominciano a irriderlo (guarda il video: http://bit.ly/13fUNCc).

Sono quelli di Pd e Scelta Civica. E allora ti fermi un attimo a pensare. Ragioni. Elabori. E ricordi che i primi sono quelli che si indignano – giustamente, sia chiaro – se gli esponenti di un partito che non ha mai fatto della tolleranza il suo cavallo di battaglia rivolgono offese gratuite nei confronti di una loro illustre collega, ministra dell’Integrazione, arrivando addirittura a paragonarla ad un animale. Un orango, per chi avesse rimosso. I secondi, invece, sono gli stessi che per mesi hanno visto e sentito il loro leader ripetere in modo netto quella parola, equità, che dovrebbe dunque evitare qualsiasi forma di giudizio discriminante.

Ovviamente la vicenda è diventata un caso. Sono stati emanati due comunicati, uno per parte. «Nessun deputato del gruppo Scelta civica si è permesso di offendere o anche solo irridere il deputato Matteo Dall’Osso. Respingiamo dunque al mittente il tentativo meschino di strumentalizzare il tema della disabilità solo per alimentare una volgare polemica politica con cui screditarci. Invitiamo il M5S e chi lo guida a non ricorrere mai più a mezzucci indegni e lesivi della dignità delle persone affette da handicap, oltre che del decoro del Parlamento», hanno rilanciato i montiani. Mentre per il Pd si tratta di «un caso che non ha alcun fondamento», anche perché «basta osservare il comportamento del vice presidente di turno in quel momento per accertarsi che non c’è alcun riscontro alle accuse lanciate contro i deputati di maggioranza». Insomma, in fin dei conti la maestra non ha visto e quindi nessuno ha colpe.

Questa mattina La Stampa ha pubblicato un’intervista a Matteo Dall’Osso. Leggo un passaggio e mi commuovo. «Tutti i giorni faccio le scale per venire in Aula. Sono partito da una condizione in cui non muovevo le gambe, la mano, non vedevo da un occhio e non riuscivo a parlare. Oggi la mia vicenda è diventata un case history internazionale. Figuriamoci se mi preoccupo di certe cose». Ne leggo un altro e capisco tutto. «Offeso? Non per me, per le istituzioni. Se qualcuno mi ha chiesto scusa? Sì, anche in Aula. Un deputato di Scelta Civica mi ha chiamato al telefono. Con la mano davanti alla bocca. Per non farsi vedere». Appunto.

Twitter: @GiorgioVelardi   

Il gioco dell’oca

sabato, aprile 20th, 2013

NapolitanoGame over. O meglio: è solo l’inizio. Quello del secondo mandato di Giorgio Napolitano al Quirinale, prima volta nella storia della Repubblica italiana. L’uomo del Colle ha detto sì a chi gli chiedeva di restare al suo posto per altri 7 anni. Questa mattina il capo dello Stato ha incontrato le delegazioni dei maggiori partiti, tranne il Movimento 5 Stelle che compatto voterà fino all’ultimo Stefano Rodotà.

Niente Marini, niente Prodi, niente D’Alema e niente Amato, figura molto vicina a Napolitano che il presidente uscente si pensava potesse consigliare a chi lo ha raggiunto al Quirinale. Qualche ora per decidere, poi l’annuncio: «Sono disponibile, non posso sottrarmi alla responsabilità». La sesta votazione risulta quasi superflua, “Re Giorgio” sarà ancora l’inquilino del Colle. Ma è una scelta che divide e che, a conti fatti, rende la situazione stagnante come non mai.

Un capo dello Stato diverso avrebbe portato, al 99%, ad un superamento dell’attuale impasse in cui le forze politiche sono piombate dopo le elezioni del 24 e 25 febbraio. In questo modo, invece, il rischio è quello di ritrovarsi al punto di partenza, come nel gioco dell’oca. La scelta di ricandidare Napolitano provoca un altro – l’ennesimo – terremoto nel centrosinistra. Se il Pd questa volta sembra essere stranamente unito (anche se il sindaco di Bari Michele Emiliano cinguetta: «Approfittando dell’amore x l’Italia del nostro vecchio ed amato Presidente stanno facendo un inciucio Pd-Pdl che fa orrore: votate Rodotà»), la coalizione “Italia bene comune” si è squagliata come neve al sole. Lo ha fatto capire apertamente, malgrado il pizzico di politichese che lo contraddistingue, Nichi Vendola (Sel), che a metà pomeriggio in una conferenza stampa a Montecitorio ha parlato di un «Berlusconi vero vincitore della partita per il Quirinale», rigettando l’ipotesi delle larghe intese («Noi saremo all’opposizione», ha detto il governatore della Puglia) e lodando l’atteggiamento del Movimento 5 Stelle (con cui condivide la candidatura di Rodotà).

Ma a destare ancora più scalpore, visto che il suo nome è da settimane in cima alla lista delle figure che potrebbero rinnovare il centrosinistra, è il tweet che il ministro per la Coesione territoriale Fabrizio Barca, neo tesserato del Pd, invia intorno alle 15.00. «Incomprensibile che il Pd non appoggi Stefano Rodotà o non proponga Emma Bonino», scrive. Chiaro. Preciso. Destabilizzante.

Il prossimo futuro appare chiaro: si viaggia col vento in poppa verso le larghe intese. Ora resta da capire chi sarà il capitano di un governo che durerà il tempo di mettere in pratica i dettami dei dieci saggi, in primis la modifica della legge elettorale. Poi si tornerà a votare. E nel giorno del suo 64esimo compleanno, per Massimo D’Alema potrebbe arrivare un regalo inatteso: la guida del nuovo esecutivo.

Twitter: @GiorgioVelardi

Le cause della caduta di Bersani

sabato, aprile 20th, 2013

bersani«È troppo per me». Quattro parole che pesano come un macigno. Pierluigi Bersani le pronuncia al termine dell’ennesimo tonfo, Prodi bocciato dopo Marini, che testimoniano la fine di un Pd passato dall’essere acronimo di “Partito democratico” a “Psicodramma democratico”.

Il segretario (dimissionario) dei democratici si ritrova isolato, con pochi fedelissimi rimasti a consolarlo. Serve a poco. Bersani non ha più un partito che lo sostenga, correnti le cui onde si muovono in ordine sparso, pugnalato persino da quelli che gli avevano giurato amore eterno e che sarebbero stati al suo fianco comunque sarebbe andata. La quadra perfetta la trova Fausto Raciti, classe ’84, appartenente alla pattuglia dei “giovani turchi” e alla prima esperienza parlamentare, che in un’intervista a La Stampa sintetizza così quanto accaduto fra giovedì e venerdì: «Siamo il peggior gruppo parlamentare della storia, un covo di irresponsabili. E – chiosa tranchant – non è colpa dei giovani».

E allora, viene da chiedersi, chi ha condotto il Pd a cadere sul ciglio del burrone nel quale è caduto? Bersani non ha fatto tutto da solo, certo, ma il segretario ha sulle proprie spalle le colpe peggiori. Sono almeno 4 i motivi che hanno portato il Pd – uscito «non vincente» dalle elezioni, poi in balia del Movimento 5 Stelle e infine auto-impallinatosi nel corso dell’elezione del nuovo capo dello Stato – a vivere una situazione ai limiti dell’irrealtà:

1- L’aver sopravvalutato la forza di Scelta Civica. C’è chi pensa, pensiero condivisibile, che Bersani la partita l’abbia persa ancor prima che si giocasse. In fase di riscaldamento, ovvero le primarie. Vinta la corsa alla premiership con Matteo Renzi, forte di un Pd spostato a sinistra – prova ne è, o ne era, l’asse fra Bersani e Nichi Vendola – il partito ha cercato a tutti i costi il dialogo con i “montiani”. Scelta che si è rivelata suicida, un po’ perché il governo tecnico guidato dall’ex Commissario europeo era (ed è) visto col fumo agli occhi dagli italiani – complice la «paccata» di tasse imposte nell’ultimo anno e mezzo – e un po’ perché “sposarsi” con Monti e co. avrebbe voluto dire rinunciare ad una parte di quelle tematiche da sempre care all’elettorato di sinistra (diritti civili in primis, ma anche la politica economica ne avrebbe pesantemente risentito). Poi è accaduto quello che non ti aspetti e cioè che Scelta Civica alle elezioni racimoli solo l’8,30% alla Camera e il 9,13% al Senato, contro l’oltre 15% in entrambe le Camere pronosticato dai più illustri sondaggisti. A Palazzo Madama, dove il centrosinistra è in minoranza, i 20 senatori “montiani” si rivelano ininfluenti. Il delitto perfetto non c’è stato, si sono lasciate tracce sul terreno che risulteranno fatali, come si è visto, al segretario del Pd;

2- L’aver sottovalutato il Movimento 5 Stelle. Prima era un «fascista», poi – dopo l’ecatombe alle elezioni – Beppe Grillo è diventato, nei desiderata del segretario, il primo interlocutore per il Pd. «Il Movimento 5 Stelle ci dica cosa vuole fare», affermava Bersani pochi giorni dopo le votazioni. Eppure i “grillini” erano stati chiari fin da subito: nessun accordo con nessuno, tantomeno con B&B. Detto, fatto. L’incontro in diretta streaming fra i due capigruppo del M5S, Vito Crimi e Roberta Lombardi – la quale, ad un certo punto, se n’è uscita dicendo: «Mi sembra di essere a Ballarò» – è passato alla storia come un’umiliazione bella e buona per “Pier”. Tanto che Renzi, ormai destinato ad essere il futuro del Pd, lo ha detto chiaro e tondo in un’intervista al Corriere della Sera trovando più consensi che dissensi dalle parti di Largo del Nazareno. Ciliegina sulla torta è stata la scelta del nuovo capo dello Stato. Grillo propone l’ex garante della privacy Stefano Rodotà, l’elettorato del Pd gradisce e con lui anche una parte dei parlamentari piddini. Bersani, invece, vede Berlusconi e sceglie Marini, poi ne esce con le ossa rotte e vira su Prodi. Sappiamo com’è andata. Errare è umano, perseverare è diabolico;

3- L’aver sottovalutato Berlusconi. Si badi bene: non il Pdl, ma Berlusconi. Bersani doveva «smacchiare il giaguaro» e alla fine, scherzo del destino, il giaguaro lo ha divorato. Un Popolo della Libertà senza il Cavaliere sarebbe stato destinato all’irrilevanza. Ma Berlusconi è Berlusconi e poco ci puoi fare. Soprattutto se rinunci a fare la campagna elettorale, com’è accaduto a Bersani, e se quelle poche volte in cui ti presenti di fronte al pubblico (televisivo) ti limiti a dire che per far ripartire un’Italia dal motore ingolfato serve «un po’ di lavoro». Mentre il segretario Pd cercava, come detto, l’appoggio dei 5 Stelle, l’ex premier spingeva per un “governissimo” che gli avrebbe permesso comunque di governare (pur con tutti i limiti del caso) e radunava le truppe. A Bari, sette giorni fa, la presenza dei militanti era importante. E i sondaggi – da prendere con le molle dopo quanto accaduto a fine febbraio – danno la coalizione di centrodestra in vantaggio (in certi casi) addirittura del 4% sul centrosinistra. Se Renzi non scende in campo la probabilità è quella che Berlusconi, più che il nonno, faccia nuovamente il premier;

4- Non aver ascoltato gli elettori. È la colpa più grave imputabile a Bersani. Già dalle primarie si era capito che il segretario avrebbe violato il patto con la sua gente, quella che lo aveva votato per due volte alle primarie perché Renzi era «democristiano» e – colpa più grave – «berlusconiano». Recarsi “col cappello in mano” da Monti non è piaciuto all’elettorato del Partito democratico, andato ad ingolfare le fila del Movimento 5 Stelle condannandolo al pubblico ludibrio. Il resto è storia. Le contestazioni dinanzi al Teatro Capranica, a Roma, la sera in cui l’assemblea del Pd decideva per la candidatura di Franco Marini al Colle sono la punta dell’iceberg contro cui un partito che sembrava inaffondabile si è invece scontrato andando giù come una bagnarola.

Twitter: @GiorgioVelardi