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Privilegi, regalo di Pasqua in vista per gli alti burocrati parlamentari: “Dal Pd 3,5 milioni per le indennità di funzione”

domenica, marzo 20th, 2016

La denuncia del segretario dell’Ufficio di presidenza di Montecitorio, Riccardo Fraccaro (M5S). Che punta il dito contro la bozza di deliberazione che ripristina il ricco bonus per i dirigenti. E accusa il partito del premier: “Vuole cambiare verso alzando gli stipendi dei funzionari di Camera e Senato”

fraccaro_675Ci risiamo. A tre mesi dalla proroga del blocco delle indennità di funzione spettanti agli alti dirigenti della Camera, riesplode la polemica. A scatenarla è l’ennesima denuncia di Riccardo Fraccaro, deputato del Movimento 5 Stelle (M5S) e segretario dell’Ufficio di presidenza di Montecitorio. Che carica a testa bassa contro il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, e il Partito democratico (Pd). L’ex sindaco di Firenze “vuole cambiare verso alzando gli stipendi dei funzionari del Parlamento e blindando questo aumento, che verrà agganciato alla disciplina costituzionale”, denuncia Fraccaro. Che mette sotto accusa “la bozza di deliberazione in tema di indennità e meccanismo di adeguamento retributivo messa a punto dai presidenti dem dei Comitati per gli affari del personale di Montecitorio e Palazzo Madama, Marina Sereni e Valeria Fedeli”, la cui approvazione riporterebbe, secondo l’esponente grillino, le indennità di funzione ai livelli del 2012. Per fare un esempio, quella del segretario generale della Camera dei deputati, che per effetto della sforbiciata del 2013 è stata ridotta a 662 euro al mese, tornerebbe a raggiungere i 2.200 euro

SI CAMBIA VERSO – “Il Pd – aggiunge Fraccaro – ha intenzione di reintrodurre le indennità di funzione del personale, per un costo complessivo di 3 milioni e mezzo di euro, legandole alle riforme”. Riferimento al ruolo unico dei dipendenti di Camera e Senato previsto nel nuovo articolo 40della Costituzione, come modificato dal ddl di riforma che porta il nome della ministra Maria Elena Boschi, al quale lo schema di deliberazione messo alla sbarra del M5s è collegato. Insomma, “invece di tagliare i costi della politica” il partito del segretario-premier “vuole alimentare sprechi e privilegi”, attacca il parlamentare grillino. Ma cos’è l’indennità di funzione? Si tratta, in sostanza, di una somma aggiuntiva in busta paga, spettante ai quadri direttivi, che “dovrebbe essere corrisposta solo a fronte di incarichi di particolare complessità”. Ma che invece, insorge Fraccaro, “con la proposta del partito di Renzi verrà elargita a pioggia calpestando la meritocrazia e favorendo le posizioni di vantaggio maturate sul piano dell’affiliazione politica”. Il tutto “gonfiando gli stipendi già dorati percepiti dai super-burocrati”.

STOP & GO – L’ultimo atto della querelle sulle indennità di funzione era andato in scena lo scorso dicembre. Quando il Comitato affari del personale della Camera, guidato appunto dalla vice presidente in quota Pd Marina Sereni, aveva deciso di prorogarne il blocco mantenendole ferme sui livelli più bassi raggiunti con la sforbiciata del 2013. Un provvedimento che era stato preceduto da roventi polemiche dopo che il M5S aveva denunciato il tentativo di ripristinare il ricco bonus ai livelli del 2012 nelle già pesanti buste paga dei burocrati della Camera. Denuncia alla quale era seguito un radicale cambio di rotta, che ha impedito ai discussi incentivi di sommarsi agli stipendi di dirigenti e funzionari a partire dal 1° gennaio 2016. E motivato con la necessità di arrivare in tempi brevi, spiegarono dal Comitato, “alla definizione del ruolo unico dei dipendenti di Camera e Senato” e “alla armonizzazione del relativo stato giuridico ed economico”.

PIATTO RICCO – Ma di che cifre stiamo parlando? Alla Camera dei deputati il segretario generale, cui spetta uno stipendio annuo superiore ai 300 mila euro, incassava fino al 31 dicembre 2012 altri 2.200 euro netti al mese contro i 662 attualmente percepiti per effetto del taglio del 2013. Ai vice segretari e al capo avvocatura, invece, spettavano 1.450 euro poi ridotti a 652. Il consigliere capo servizio e il consigliere capo della segreteria del presidente percepivano 1.197 euro rispetto agli attuali 598. Il consigliere capo ufficio della segreteria generale si era visto praticamente dimezzare l’indennità di funzione da 882 a 485 euro. Quella del consigliere capo ufficio o titolare di incarico di coordinamento equiparato era scesa da 630 a 378 euro mensili. E anche il coordinatore di unità operativa di V livello ed equiparati avevano subito una decurtazione: da 441 a 286 euro. Per armonizzare il trattamento economico tra Palazzo Madama e Montecitorio, la bozza di deliberazione prevede, all’articolo 1, che l’ammontare delle indennità di funzione per il personale iscritto nel ruolo unico dei dipendenti del Parlamento è fissato sul “valore più basso” tra quelli stabiliti al Senato e alla Camera alla data del 31 dicembre 2012. Ma non basta. Sul tavolo c’è anche un emendamento delle organizzazioni sindacali interne che prevede di calcolare le indennità di funzione “sulla base della media dei valori” stabiliti per i due rami del Parlamento sempre al 31 dicembre 2012. Se passasse, gli importi percepiti dagli alti burocrati sarebbero addirittura maggiori.

SORPRESA PASQUALE – Una modifica della disciplina vigente che farebbe la felicità, secondo Fraccaro, di un esercito di burocrati: “Come ad esempio i 123 dipendenti di IV livello su 265 e i 138 funzionari di V livello su 151”. Un rischio che per il segretario dell’Ufficio di presidenza va scongiurato “fissando dei tetti perenni alle retribuzioni ed eliminando le varie indennità dei funzionari”. Per evitare che, dopo la delusione per il regalo di Natale sfumato, la bella sorpresa possa arrivare, stavolta, nell’uovo di Pasqua.

(Articolo scritto il 19 marzo 2016 con Antonio Pitoni per ilfattoquotidiano.it)

Caso Giorgia Meloni, nei Comuni la parità di genere resta un miraggio: su 7.684 sindaci italiani solo 1.048 sono donne

venerdì, marzo 18th, 2016

È quanto emerge dai dati pubblicati dal ministero dell’Interno. Che documentano come le quote rose siano minoritarie nelle amministrazioni degli enti locali. Solo il 13,6% guida un comune contro l’86,4% dei colleghi uomini. Forbice pronunciata anche tra vice-sindaci, consiglieri e assessori. Maglia nera a quattro regioni: in Basilicata, Calabria, Trentino-Alto Adige e Umbria nessuna prima cittadina nei centri con più di 15 mila abitanti

sindaci-675È proprio vero: l’Italia non è un Paese per donne. Soprattutto in politica. A dirlo non sono solo la viva voce di Guido Bertolaso e Silvio Berlusconi, che hanno “consigliato” alla leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, di non correre per il Campidoglio perché “una mamma non può fare il sindaco”. O la parole pronunciate dall’0rmai ex candidata del Movimento 5 Stelle (M5S) a primo cittadino di Milano, Patrizia Bedori. “Mi avete chiamato casalinga, disoccupata, grassa e brutta”, ha scritto su Facebook attaccando frontalmente alcuni ex esponenti del M5S. A rivelarlo, invece, sono i dati messi nero su bianco dal Dipartimento per gli Affari interni e Territoriali del ministero dell’Interno. Che periodicamente analizza la presenza maschile e femminile nelle amministrazioni locali. Con risultati tutt’altro che incoraggianti per il ‘gentil sesso’.

SINDACHE CERCASI – Gli ultimi numeri a disposizione sono datati 8 marzo 2016, giorno della ‘Festa della donna’. Ma, come detto, c’è poco da festeggiare. Per capirlo basta un solo dato: su 7.684 sindaci italiani solo 1.048 sono donne. Appena il 13,6%. Insomma, poco più di una su dieci. I primi cittadini uomini, al contrario, sono 6.636. Cioè l’86,4%. In particolare, nei centri con una popolazione fino a 15 mila abitanti, i sindaci di sesso maschile sono 6.036, quelli di sesso femminile 982. In quelli con popolazione superiore a 15 abitanti, invece, ai 600 sindaci uomini si contrappongono appena 66 sindache. E anche quando si parla dei vice-sindaci, 4.448 in totale, i numeri non sorridono alle donne. Che sono 1.067 contro 3.381 uomini. Ovvero il 24% contro il 76%.

STESSA MUSICA – Il leitmotiv è lo stesso anche quando si parla delle altre cariche. Prendiamo per esempio gli assessori comunali. In totale, in Italia se ne contano 18.089. Le donne? Sono soltanto 6.442 (il 35,6%) contro gli 11.647 colleghi uomini (il 64,4%). Poi ci sono i presidenti dei consigli comunali. Stavolta, lo squilibrio è ancora più forte rispetto ai casi elencati finora. Infatti, solo 260 dei 1.185 vertici degli organi di indirizzo e controllo politico-amministrativo locale censiti sono di sesso femminile. Tradotto in percentuale significa il 22%, contro i 925 di sesso maschile (il restante 78%). Infine, ci sono i consiglieri comunali: dei 71.599 totali (50.273 nei comuni con popolazione fino a 15 mila abitanti e 3.064 negli altri), le donne sono il 33,6% (24.083) e gli uomini il 66,4% (47.516).

GIRO D’ITALIA – Ma il Dipartimento per gli Affari interni e Territoriali del Viminale ha pubblicato anche le statistiche suddividendo la presenza della ‘quote rosa’ nelle varie regioni dello Stivale. Ne consegue che in Basilicata, in Calabria, in Trentino-Alto Adige e in Umbria – nei comuni con popolazione superiore a 15 mila abitanti – la casella dei sindaci donne è ferma azero. Non se la passano meglio nemmeno Campania (3 prime cittadine donne contro 65 uomini), Sicilia (2 contro 59), Toscana(7 contro 46), Abruzzo (una contro 15) e Friuli-Venezia Giulia (una contro 10). Anche in Emilia-Romagna il rapporto è alquanto squilibrato: 45 sindaci di sesso maschile e appena 8 di sesso femminile (il 15%). Stesso discorso pure nel Veneto amministrato dal leghista Luca Zaia, dove le sindache sono il 18,5%: appena 10 contro i 44 colleghi uomini.

Twitter: @GiorgioVelardi

(Articolo scritto il 16 marzo 2016 per ilfattoquotidiano.it)

Conflitto d’interessi, il provvedimento arriva alla Camera tra le polemiche: “Testo fasullo, in aula voteremo no”

mercoledì, febbraio 24th, 2016

Lo annuncia Danilo Toninelli, deputato del Movimento 5 Stelle e componente della commissione Affari costituzionali di Montecitorio. Che boccia senza mezzi termini l’ultima versione della normativa. “Bozza iniziale ampiamente condivisibile, poi il partito di Renzi ha fatto un compromesso al ribasso con Forza Italia”. Fra i punti contestati anche la nomina dei due nuovi componenti dell’Antitrust: “Occasione per l’ennesima lottizzazione partitica”

Sisto-Sanna-675Potremmo già definirli come i 16 articoli della discordia. Tanti ne conta, infatti, il testo della legge sul conflitto d’interessi che questo pomeriggio arriverà in Aula alla Camera. Dopo numerosi rinvii. E, visto l’argomento, non senza le polemiche di rito che hanno accompagnato il lavoro preliminare in commissione Affari costituzionali a Montecitorio. La quale ha dato il ‘via libera’ al provvedimento lo scorso 18 febbraio con il parere contrario diForza Italia e Movimento 5 Stelle. I primi la consideranotroppo restrittiva; per i secondi, al contrario, è troppo permissiva. Tanto che sono già pronti circa 280 emendamentiper modificare il testo. Fra i punti maggiormente contestati dai grillini c’è quello che riguarda i soggetti interessati dal provvedimento (le nuove norme verranno applicate a chi ha incarichi di governo nazionale regionale). Ma anche quello relativo ai criteri di nomina dei componenti dell’Antitrust, l’autorità alla quale è affidata la vigilanza sui conflitti stessi, chesalgono da 3 a 5 e che saranno eletti dal Parlamento. Ecco perché “così com’è, noi questa legge non la votiamo – attacca il deputato del M5S Danilo Toninelli (nella foto) parlando conilfattoquotidiano.it –. La bozza iniziale, a firma di Francesco Sanna (Pd), era ampiamente condivisibile”. Invece “la versione uscita dalla commissione è la sorella maggiore di quella varata nel 2004 dal governo Berlusconi”. La contestata legge Frattini.

Onorevole Toninelli, non c’è proprio nessuna possibilità di ripensamento da parte del M5S?
Assolutamente no. Consideriamo questo testo fasullo e insufficiente. È un provvedimento che colpisce una cerchia ristrettissima di persone. Ne sono addirittura esentati i parlamentari e i consiglieri regionali. Una legge-miraggio che colpisce solo 230 persone rispetto alle migliaia di potenziali destinatari. È un provvedimento utile solo per accaparrarsi qualche voto in più alle Amministrative, ma che non risolve assolutamente nulla.

Eppure Forza Italia ha detto che grazie a questo provvedimento si è creato un asse fra voi e il Pd che porterà l’Italia ad una deriva “autoritaria, populista e demagogica”. Risposta?
La voce da cui provengono queste parole è quella di Francesco Paolo Sisto (che
 il 15 febbraio si è dimesso da relatore del ddlndr), avvocato di Silvio Berlusconi e Denis Verdini. Dire che c’è un asse fra il Pd e noi, che come Movimento 5 Stelle chiedevamo un conflitto di interessi serio e pesante, non è nient’altro che una barzelletta. La verità è che, in commissione, Forza Italia ha proposto la cancellazione riga per riga di tutta la legge. Non essendo riusciti nel loro intento ora non gli resta che screditarci.

All’inizio, però, il testo base di Sanna non aveva raccolto giudizi così tranchant da parte vostra. Che cosa vi ha fatto cambiare radicalmente idea?
La prima bozza del provvedimento era buona e ampiamente condivisibile: ridiscutendo la parte relativa alle sanzioni, il M5S l’avrebbe sicuramente votata. Infatti, il primo testo che ci è stato proposto riguardava anche interessi non economici e coinvolgeva tanti altri soggetti che poi in commissione sono spariti dal testo. Come per esempio gli alti burocrati, i sindaci e gli assessori. Poi il partito di Renzi ha fatto un compromesso al ribasso con Forza Italia, che ha annacquato il disegno di legge.

Insomma, non c’è proprio nulla che si salva?
Se dovessi mettere un voto a questa legge in una scala da zero a cento darei cinque. Dopo più di vent’anni di assenza di una norma simile è incredibile doversi accontentare di uno strapuntino. La già citata bozza iniziale riprendeva alcuni principi della legislazione internazionale, per esempio quella francese, nella quale vengono valutati anche i conflitti ‘potenziali’ e gli interessi non economici fra pubblico e privato. Dove sono finiti? Sono spariti dal testo. E non per colpa nostra.

In Aula presenterete degli emendamenti per modificare il testo?
In commissione abbiamo già provato a sistemare alcuni passaggi del testo. Per esempio aumentando di un anno l’impossibilità per un ex membro del governo di andare a lavorare in una società, pubblica o privata, il cui ambito di riferimento collima con quello per cui ricopriva la propria carica.

E adesso?
Chiederemo che il provvedimento venga modificato già a partire dall’articolo 1, per il quale il conflitto di interessi è relativo a “titolari di cariche politiche”. Lo reputiamo sbagliatissimo: preferiremmo infatti si parlasse di cariche “pubbliche”, coinvolgendo anche le pubbliche amministrazioni. Poi c’è il capitolo sanzioni: devono essere più puntuali e la platea dei destinatari va necessariamente allargata. Per non parlare del capitolo relativo all’Antitrust.

Cos’è che non va in questo caso?
La legge prevede che il numero dei suoi componenti, attualmente tre, di cui uno è il presidente, venga elevato a cinque. Il problema è che la nomina di questi due nuovi membri dell’authority diventerà l’occasione per operare l’ennesima lottizzazione partitica. Infatti è stato previsto un meccanismo per il quale il partito di maggioranza porterà a casa tre elementi su cinque, cioè più del 50%. Senza alcuna condivisione con le opposizioni, come avviene per i giudici della Consulta. Anche stavolta, manco a dirlo, fra la prima bozza e il testo che andrà in Aula c’è un abisso.

Questo atteggiamento di chiusura sul conflitto di interessi è stato forse uno dei motivi per cui Renzi ha optato per l’accordo con Ncd sull’altro fronte caldo, le unioni civili?
Chi ci conosce sa che il M5S non fa valutazioni di convenienza. Noi votiamo la legge sulle unioni civili ma senza violare le regole con canguri o altre pericolose forzature. Se Renzi chiederà al Parlamento il voto di fiducia al governo, che ovviamente non voteremo, significa che non si fida dei suoi e teme di andare sotto nelle votazioni di merito più delicate. Invece per una volta dovrebbe avere coraggio e non pensare solo alla poltrona, perché grazie al M5S, che ha detto sì al provvedimento, i numeri ci sono.

Twitter: @GiorgioVelardi

(Articolo scritto il 23 febbraio 2016 per ilfattoquotidiano.it)

Unioni civili, opposizioni all’attacco: “Potevamo votare gli emendamenti in due giorni ma il Pd ha avuto paura”

lunedì, febbraio 22nd, 2016

È quanto sostiene il capogruppo di Forza Italia a Palazzo Madama, Romani. Mentre per Airola (M5S) ne sarebbero serviti “quattro al massimo, compreso il weekend”. D’accordo anche il leghista Calderoli: “Senza ostruzionismi e contingentando i tempi si poteva fare in fretta”. Accuse che i dem rispediscono al mittente. Pini: “Senza il canguro serviranno 135 giorni”

Senato - ddl Unioni CiviliIl capogruppo di Forza Italia al Senato, Paolo Romani, lo dice sicuro: “Per votare tutti gli emendamenti rimasti al ddl Cirinnà, circa 750 sommando quelli delle opposizioni dopo il ritiro delle migliaia presentati della Lega Nord, ci avremmo impiegato due giorni al massimo. Anche perché nessuno di noi – ci tiene a precisare contattato da ilfattoquotidiano.it – si sarebbe messo a fare ostruzionismo”. Quindi “diciamoci le cose come stanno: il ‘canguro’ è figlio della paura tutta interna al Partito democratico sui numerosi voti segreti. Siccome sarebbero andati sotto hanno preferito rimandare la discussione alla prossima settimana”. Dopo lo slittamento al 24 febbraio del disegno di legge sulle unioni civili, a Palazzo Madama non si placano le polemiche fra opposti schieramenti. Ma non solo. Infatti, ieri ci ha pensato la ‘madre’ del testo, la senatrice Monica Cirinnà, a dare fuoco alle polveri puntando il dito addirittura contro alcuni esponenti del suo stesso partito. “Pago le ripicche di certi renziani che volevano un premietto”, le parole riportate dal Corriere della Sera in un’intervista che però la stessa Cirinnà ha poi smentito di aver rilasciato. Solo uno sfogo con alcuni attivisti Lgbt nel Transatlantico del Senato, a quanto pare. Ma tanto è bastato per lasciare i toni sopra il livello di guardia. E provocare le reazioni non proprio al miele di alcuni pezzi da novanta del Pd, fra cui il capogruppo dei senatori, Luigi Zanda (“no alle insinuazioni infondate”, ha scandito tranchant).

Se il Pd si ritrova ora con la patata bollente fra le mani, decidere, cioè, se stralciare o meno la stepchild adoption, la ferma convinzione delle opposizioni resta una e una sola: la mossa del renziano Andrea Marcucci, ovvero quella di presentare un emendamento ‘taglia emendamenti’, è stata dettata proprio dalla frattura tutta interna al partito del segretario-premier Matteo Renzi. E da nessun altro motivo. “Romani dice che sarebbero bastati due giorni per votare gli emendamenti? Io voglio tenermi un po’ più largo: dico quattro al massimo, weekend compreso – afferma il senatore Alberto Airola del Movimento 5 Stelle –. Insomma, era una partita che si sarebbe potuta concludere già questa settimana, ma il Pd ha avuto paura e ha preferito fare marcia indietro. Cosa che invece non è successa in precedenti occasioni, quando i numeri erano dalla loro”. In che senso? “Ricordo una giornata, mi pare stessimo discutendo in Aula del ddl Boschi, nella quale abbiamo votato ben 900 emendamenti”. Lo ripete, scandendo bene la cifra: “No-ve-cen-to emendamenti. E non potevamo votarne circa duecento in meno in quattro giorni? Dai, non scherziamo…”.

Più cauto sui tempi, invece, Roberto Calderoli (Lega Nord). “Mi sembra difficile fare previsioni: per votare un singolo emendamento – dice il vicepresidente del Senato – ci possono volere cinque minuti come cinque ore. Poi è normale: senza ostruzionismi e contingentando i tempi si può anche fare in fretta”. La cosa certa, aggiunge Calderoli, è che “per il Pd l’emendamento Marcucci si è rivelato un boomerang”. Così “ora, se questo verrà spacchettato e i centristi voteranno contro solo sul canguro legato all’articolo 3 (quello su diritti e doveri derivanti dall’unione civile tra persone dello stesso sesso, ndr) e all’articolo 5 (sulla stepchild adoption, ndr), verrà meno il necessario sostegno del M5S, di Sel, dei bersaniani e dei giovani turchi del Pd. L’unica soluzione logica – conclude – sarebbe quella di ritirarlo, ma alla fine lo faranno dichiarare inammissibile dal presidente Grasso, come da me richiesto ieri mattina. Hanno combinato proprio un bel casino…”. Dal Nazareno, però, le accuse vengono rispedite al mittente. Tanto che su Facebook Giuditta Pini (Pd) scrive: “Per votare tutti gli emendamenti ci vorrebbero 77.700 minuti”, cioè “54 giorni”. E “questo – aggiunge – se il Senato lavorasse 24 ore al giorno per quasi due mesi, senza dormire, senza mangiare, senza fare altro. Quindi una stima probabile potrebbe essere 135 giorni”. Il motivo? “Il ddl costituzionale era un ddl governativo che aveva un contingentamento dei tempi (non si poteva parlare più di tot minuti a gruppo)” mentre “il ddl Cirinnà non ha alcun contingentamento. L’emendamento Marcucci – conclude – serviva semplicemente ad evitare tutto questo”.

Ma andiamo avanti. “La legge deve passare”, dice ailfattoquotidiano.it la senatrice dem Rosa Maria Di Giorgi, apertamente contraria alla stepchild adoption così come un altro gruppo di colleghi di partito. “Poco importa – aggiunge – se ci vorrà una settimana in più o in meno. Però dev’essere chiara una cosa: sul ddl Cirinnà io e i miei compagni del Pd, che su alcuni punti del provvedimento la pensiamo diversamente dalla maggioranza, dobbiamo poter esercitare la libertà di coscienza che il nostro segretario ci ha lasciato”. Quindi “l’articolo 5, quello sulla stepchild, sarà votato come tutti gli altri: se avrà i numeri dalla sua parte e passerà ne prenderemo atto”. A prescindere da ciò “serve un confronto, ma da parte nostra non c’è nessuna intenzione né di dilatare i tempi né, tantomeno, di affossare la legge”, chiarisce la Di Giorgi. Quanto alle parole pronunciate dalla Cirinnà al Corriere, che la chiama direttamente in causa (“visto come s’è comportata con me?”), la senatrice afferma: “Monica mi ha inviato un sms ieri mattina alle 7.30 per scusarsi, dicendomi che si è trattato di uno sfogo durante un colloquio con alcuni attivisti Lgbt. Per me è un capitolo chiuso”. Almeno per ora.

Twitter: @GiorgioVelardi

(Articolo scritto il 19 febbraio 2016 per ilfattoquotidiano.it)

Affittopoli, dossier del M5S su Milano: “Oltre 200 milioni di euro di morosità, colpa di Moratti e Pisapia”

giovedì, febbraio 18th, 2016

È quanto emerge da un’indagine del consigliere comunale Mattia Calise. Durata due anni. “Per la quale ho ricevuto intimidazioni denunciate in Procura”. Nella lista, oltre ai privati, anche la sede di un partito di maggioranza. Che vanta debiti per 30 mila euro. La candidata sindaco Bedori: “Aprire un’inchiesta sui singoli casi”. Di Battista: “Con noi al governo stop a corruzione e malaffare”

di-battista-675Abita in una casa popolare, ma vanta un Isee da 76 mila euro e un patrimonio di due milioni fra titoli e depositi bancari. Poi c’è il caso di un moroso, con un’abitazione di proprietà a Cologno Monzese, che vive in una casa popolare e ha un Isee da 98 mila euro. Bazzecole rispetto ad un noto ristorante del centro che deve al Comune 500 mila euro di affitti non pagati. E, come se non bastasse, dopo aver ceduto il ramo d’azienda, ha riaperto i battenti in un altro locale. Sempre del Comune, ovviamente, lasciando in eredità un conto mai saldato di altri 200 mila euro. Non poteva mancare neppure la politica. Fra i morosi c’è infatti anche la sede di un partito di maggioranza che deve alle casse dell’amministrazione municipale circa 30 mila euro. Sono solo alcuni casi dell’Affittopoli milanese denunciata oggi alla Camera dei deputati dal Movimento 5 Stelle (M5S). Un buco da 204,4 milioni di euro. A tanto ammonta il totale degli affitti non pagati al Comune di Milano. Che, poco o niente, ha incassato da 21.246 contratti ad uso abitativo e altri 1.039 ad uso commerciale.

COLPE BIPARTISAN – A rendere noti i dati è stato il consigliere comunale milanese del M5S, Mattia Calise. Un’indagine “che abbiamo trasmesso alla procura di Milano – ha spiegato nel corso della conferenza stampa a Montecitorio – anche perché ho ricevuto delle intimidazioni che sono andato immediatamente a denunciare e su cui non posso dire altro”. Dagli accertamenti eseguiti negli ultimi due anni (tanto è durato il lavoro dell’esponente 5 Stelle) “abbiamo rilevato come ci siano molti soggetti che nelle case popolari non dovrebbero stare”, ha proseguito Calise, “mentre per molte famiglie che versano in condizioni di povertà il Comune ha previsto la procedura di sfratto”. Ma da quanto va avanti questa storia? “Dal 2006”, ha risposto il consigliere comunale grillino: “Vuol dire che il problema coinvolge, in maniera bipartisan, sia la precedente amministrazione di centrodestra guidata da Letizia Moratti sia quella uscente di centrosinistra con a capo Giuliano Pisapia”. Proprio così. Una circostanza che coinvolge direttamente anche i due attuali candidati sindaci di Partito democratico e Forza Italia, Giuseppe Sala e Stefano Parisi. Il primo, infatti, dal 2009 al 2010 è stato direttore generale del Comune di Milano; il secondo, invece, è stato city manager di Palazzo Marino dal 1997 al 2000, ai tempi di Gabriele Albertini. “Ci sono gravissime responsabilità sia di questa che della precedente amministrazione – ha attaccato a tal proposito Patrizia Bedori, candidata sindaco del M5S a Milano –. Dov’erano Sala e Parisi, come hanno controllato, cosa hanno fatto e quali provvedimenti hanno preso” negli anni passati ad amministrare la cosa pubblica? Perciò “chiediamo che l’assessorato apra un’inchiesta sui singoli casi – ha concluso – perché il bene comune deve essere tutelato ed è ciò che vogliamo fare”. A stretto giro è arrivata la risposta dell’amministrazione Pisapia. “Polverone da campagna elettorale”, lo ha bollato l’assessore alla Casa, Daniela Benelli, “basato su conti fantasiosi o male interpretati. E che strumentalmente – ha aggiunto – nulla dicono delle azioni che il Comune e il gestore, MM Spa, hanno già messo in atto o hanno tuttora in corso per il recupero delle morosità”.

FUORI I BILANCI – Nel corso dell’incontro con la stampa, inoltre, Alessandro Di Battista, deputato del M5S e membro del direttorio, ha parlato anche dell’arresto di Fabio Rizzi, consigliere regionale della Lega Nord e presidente della commissione Sanità. Nonché estensore della recente riforma del sistema sociosanitario lombardo. Uno dei ‘bracci destri’ del governatore Roberto Maroni. “C’è una corruzione diffusissima, non c’è differenza tra Roma e Milano, tra Maroni e Marino. Perché oggi Salvini non chiede le dimissioni di Maroni?”, ha domandato Di Battista. In Lombardia “si vada a elezioni, Maroni ha evidentemente fallito. Salvini si assuma le proprie responsabilità”. A Roma come a Milano, ha aggiunto il deputato grillino, “il M5S vuole candidare persone oneste, che portino avanti un programma, persone che sappiano controllare i bilanci, che non abbiano grandi aziende alle spalle che gli finanziano la campagna elettorale. Sala? Per me non è questo grande candidato: deve ancora farci vedere il bilancio di Expo…”. E ancora: “I romani sono liberi di scegliere: se vogliono la continuità ci sono Bertolaso e Marchini, se vogliono le strade piene di buche e senza illuminazione e una città senza posti agli asili si prendano Giachetti. Se gli va bene il livello di sicurezza che c’è ora nelle periferie, se gli va bene ‘Affittopoli’ confermino il Pd. Se invece sceglieranno M5S – ha concluso Di Battista – saranno sicuri che contro il malaffare e la corruzione noi entreremo sempre a gamba tesa”.

Twitter: @GiorgioVelardi

(Articolo scritto il 16 febbraio 2016 per ilfattoquotidiano.it)

Camera, ex direttore di Europa Menichini nuovo capo ufficio stampa: scelto dalla Boldrini, protestano M5S e Forza Italia

venerdì, febbraio 12th, 2016

Dei 22 componenti dell’ufficio di presidenza di Montecitorio hanno partecipato alla votazione solo in 13. Due astenuti. Consulente del ministero dei Trasporti, è stato sponsorizzato dalla presidente. Tra molte polemiche. Dei rappresentanti azzurri che non hanno partecipato alla votazione dell’ufficio di presidenza. E dei grillini che hanno contestato il metodo di selezione. Ecco il verbale dell’accesa seduta. Così come è stato raccontato a ilfattoquotidiano.it

stefano-menichini-675È stato scelto per “competenza, professionalità” e, soprattutto, parola di Laura Boldrini, perché ieri durante il colloquio ha spiegato che Montecitorio deve continuare ad essere “la casa della democrazia”. Proprio così. Stefano Menichini è il nuovo capo ufficio stampa della Camera. E proprio grazie alla sponsorizzazione della presidente. È stata lei che questo pomeriggio ha comunicato ai membri dell’Ufficio di presidenza la bontà della scelta. Una nomina quasi scontata, per la verità, visto che lo scorso 22 gennaio proprio ilfattoquotidiano.it aveva raccontato di come la corsa per l’ambita poltrona lasciata libera da Anna Masera (tornata a La Stampa) fosse ridotta ad un derby fra l’ex direttore di Europa, attuale consulente del ministero dei Trasporti, e l’ex direttrice de l’Espresso e D di Repubblica, Daniela Hamaui. La quale pare non abbia convinto gli illustri membri dell’ufficio di presidenza soprattutto su uno dei requisiti principali richiesti per conquistare la carica: la conoscenza del Parlamento e dei suoi meccanismi. Menichini ha così battuto la concorrenza dei 270 colleghi – tanti sono stati quelli che hanno inviato il curriculum per partecipare alla selezione – poi ridotti a 12 in vista della decisione finale. Ma cos’è accaduto durante la riunione odierna? Se è vero che la proposta della Boldrini è stata accolta a larga maggioranza, non sono mancate le critiche da parte di chi non ha per nulla condiviso il metodo con il quale si è giunti alla nomina. Ecco comunque il “verbale” dell’ufficio di presidenza così come è stato raccontato a ilfattoquotidiano.it.

CASA STREGATA – La seduta si è aperta con la presidente che ha ringraziato il comitato ristretto, costituito su sua indicazione all’interno dell’Ufficio di presidenza, spiegando che per l’occasione sono state audite persone di“elevata professionalità”. Una in particolare ha però raccolto i suoi favori: Stefano Menichini. Il quale, ha spiegato la Boldrini, era da scegliere per “competenza, professionalità” e perché, durante il colloquio, particolare che pare l’abbia letteralmente stregata (e vai a capire perché), ha dichiarato che Montecitorio deve continuare ad essere “la casa della democrazia”.

MI MANDA MATTEO – Subito dopo la ‘dichiarazione di voto’ della presidente è intervenuta Claudia Mannino (Movimento 5 Stelle), uno dei segretari dell’ufficio di presidenza, che ha anzitutto criticato il metodo con il quale è stato scelto il nuovo capo ufficio stampa. Non a caso, ieri, proprio lei aveva chiesto alla numero uno di Montecitorio di presentarsi all’ufficio di presidenza di oggi con una rosa di 3/4 nomi e condividere con i presenti la decisione finale. La Boldrini però aveva respinto l’invito ricordando che le regole della selezione erano già state decise in precedenti incontri. A quel punto fra le due si è aperto uno scontro. La Boldrini ha sostenuto che, oltre ai motivi esposti nel suo intervento, è stata anche colpita da ciò che ha detto Menichini alla fine del suo colloquio. E cioè che l’ex direttore di Europa ha spiegato di essere cosciente del fatto che l’aver diretto un giornale politicamente schierato (il quotidiano della Margherita e poi del Pd, ndr) poteva essere un ostacolo per una sua eventuale nomina. Ma che, nel caso in cui fosse stato scelto, avrebbe gestito la macchina parlamentare con la massima professionalità e terzietà. E qui, visti i sospetti di “lottizzazione politica” di matrice renziana sulla carica da assegnare che circolano da tempo anche tra i membri dell’ufficio di presidenza, la Mannino non si è trattenuta. Neanche con l’ironia: “Presidente, l’eccesso di onestà non mi pare fosse fra le motivazioni che l’hanno condotta alla scelta”. Battuta velenosa, nessuna replica della Boldrini.

FONTANA DI ACCUSE – A quel punto la parola è passata a Stefano Dambruoso. Il questore dell’ufficio di presidenza in quota Scelta civica ha spiegato che al posto di Menichini avrebbe preferito la nomina di un altro dei candidati. E cioè Maddalena Loy (ex Foglio, Rai e Unitàndr). Perciò ha chiesto alla presidente che quest’ultima venga presa in considerazione per entrare a far parte del gruppo di lavoro che curerà la comunicazione di Montecitorio. Insomma, un premio di consolazione. Ma le critiche alla Boldrini non si sono fermate. Dopo Dambruoso, contro di lei ha iniziato a cannoneggiare l’altro deputato questore, Gregorio Fontana (Forza Italia): “Tutta questa storia della selezione pubblica si poteva evitare – ha detto piccato – anche perché si sapeva da tempo che alla fine la scelta sarebbe ricaduta su Menichini”. La Boldrini non l’ha presa bene: “Che si sappia, ho deciso senza aver ricevuto alcuna pressione politica”.

MOLTO DI PERSONALE – La riunione volge al termine. Interviene Roberto Capelli (Democrazia Solidale): “Condivido la scelta di Menichini, era nella mia top three insieme a Maddalena Loy e Claudio Giua (ex direttore dello sviluppo e innovazione del Gruppo Espresso). Altra dichiarazione di voto, arriva da Ferdinando Adornato (Area popolare). “Conosco Stefano (Menichini, ndr) personalmente, può garantire professionalità e terzietà”, dice. Non c’è da stupirsi visto che proprio lui nei giorni scorsi, come riferito dall’agenzia di stampa Dire, aveva inserito l’ex direttore di Europa in una short list formata da 4 “giornalisti di chiara fama”. Fine degli interventi. La Boldrini mette ai voti la proposta. Menichini viene scelto a larga maggioranza: solo Mannino e Fontana si astengono. Triplice fischio: la seduta è tolta.

(Articolo scritto con Primo Di Nicola il 10 febbraio 2016 per ilfattoquotidiano.it)

Sanzioni ai dissidenti, Di Pietro sta con Grillo: “Assurde le accuse di fascismo e razzismo, la polizza l’ho inventata io”

mercoledì, febbraio 10th, 2016

Nel 2010 l’allora leader dell’Idv fu il primo a mettere nero su bianco una misura anti-voltagabbana. Da far firmare ai candidati alle Regionali. Con una penale da 100 mila euro in caso di tradimento. Per evitare nuovi casi-Scilipoti. “Giusto punire chi usa il partito come un taxi”, dice l’ex pm di Mani pulite. Che poi dà un consiglio al fondatore dei 5 Stelle: “Stia attento alla forma, altrimenti si rischia un effetto boomerang com’è successo a me. Alla fine sono rimasto cornuto e mazziato”   

di-pietro-675Questa volta Beppe Grillo è arrivato secondo.La ‘polizza anti-voltagabbana’ l’ho inventata io nel 2010 alla vigilia delle elezioni Regionali – dice fiero l’ex leader dell’Italia dei valori (Idv), Antonio Di Pietro, parlando con ilfattoquotidiano.it –. Sono contento che il fondatore del Movimento 5 Stelle abbia preso spunto da me, è giusto che chi viene eletto rispetti il volere popolare. Però mi permetto di dargli un consiglio, anzi due. Innanzitutto ‘voltagabbana’ è chi si fa eleggere in un partito e poi lo lascia per andare in un altro o comunque per farsi gli affari suoi, mentre tutt’altro discorso è avere opinioni diverse all’interno dello stesso partito. Il che invece è ampiamente comprensibile. In secondo luogo, il mio amico Beppe stia attento alla forma: in casi simili, alla fine, si rischia l’effetto boomerang”. Mentre proseguono le polemiche a distanza fra M5S e Pd sul documento che il partito di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio farà firmare ai propri candidati alle comunali di Roma (che prevede una multa da 150 mila euro per i dissidenti), l’ex pm di Mani pulite interviene nel dibattito ricordando il precedente che sei anni fa lo vide protagonista in prima persona. E aggiunge: “Una legge sui partiti? Mi auguro proprio che la facciano. Ma che c’azzecca? Qui il problema è un altro. E si chiama etica”.

Onorevole Di Pietro, dunque Grillo e Casaleggio avrebbero preso spunto da lei. Ma come funzionava la sua ‘polizza’?
In maniera molto semplice: i candidati nelle liste dell’Idv, se eletti, dovevano rimborsare le spese elettorali sostenute dal partito, versando una quota mensile di 1.500 euro che veniva trattenuta dalle strutture territoriali del partito stesso per il suo funzionamento.

In caso di ‘tradimento’?
In che senso? Non è certo un tradimento pensarla diversamente. Altra cosa invece è abbandonare il partito dopo essere stato eletto, fregandosene degli impegni presi con gli elettori. In tal caso era prevista una penale da 100 mila euro. Il motivo è molto semplice: durante la campagna elettorale un partito prende degli impegni politici con i propri elettori e investe sui suoi candidati anche importanti somme di denaro. Ma chi usa il partito come un taxi per farsi eleggere e poi pensare agli affari propri deve essere sanzionato in qualche modo. Altro che vincolo di mandato.

Adesso anche lei verrà accusato di fascismo e razzismo…
Ma che c’entrano il fascismo e il razzismo in questa storia? Si tratta di coerenza.

Dovrebbe chiederlo al Pd, i renziani sono scatenati.
Parliamo dello stesso Renzi che con i suoi voti di fiducia ricatta continuamente il Parlamento, i cui rappresentanti sono stati nominati dalle segreterie di partito grazie ad una legge elettorale dichiarata incostituzionale dalla Consulta, e che se dovessero votare la sfiducia andrebbero a casa e nessuno li ricandiderebbe più? Per favore…

Quindi lei si schiera dalla parte dei fondatori del M5S. O sbaglio?
È ovvio, pur con le suddette precisazioni e anche qualche consiglio in più sul piano tecnico della stesura del documento di  impegno. A Grillo e Casaleggio va la mia solidarietà per gli attacchi che sono stati rivolti loro in queste ore. Partiamo da un presupposto: i cosiddetti ‘voltagabbana’ non solo tradiscono il partito che decide di candidarli, ma soprattutto compiono una vera e propria truffa nei confronti degli elettori. È un fenomeno che va contrastato a tutti i costi. Ma bisogna stare attenti.

In che senso?
Il documento che il M5S farà firmare ai propri candidati andrà stilato stando attenti alla forma, altrimenti si rischia un effetto boomerang, com’è successo a me…

Si riferisce al caso di quel consigliere regionale eletto a suo tempo nelle file dell’Idv in Puglia che, subito dopo il voto, lasciò il partito?
A lui e non solo a lui. Sa com’è finita? Che il giudice ha bollato l’atto di impegno firmato dal candidato come “vessatorio”, e quindi sarebbe stata necessaria una seconda sottoscrizione di conferma. Insomma, un cavillo giuridico che ci ha fatto perdere la causa.

A lei, sei anni fa, nessuno disse nulla?
Ci mancherebbe pure, alla fine sono rimasto cornuto e mazziato. Per questo dico a Grillo di stare attento affinché non succeda pure a lui.

Un fatto curioso. Intanto oggi il Pd, per bocca del vicesegretario Lorenzo Guerini, è tornato a chiedere una legge sui partiti. Cosa ne pensa?
Ben venga, ma servirà davvero a qualcosa? Il nocciolo della questione è l’etica. Se un eletto non sposa più la linea del partito per il quale è stato eletto si deve dimettere e, al giro successivo, si ripresenterà con un’altra formazione. Non fa in continuazione il salto della quaglia. In Parlamento c’è gente che ha cambiato sette-otto volte casacca. Ma si può?

Si riferisce a Dorina Bianchi (Ncd), recentemente nominata sottosegretario alla Cultura?
Lei, ma non solo. A Renzi va bene così. Sempre meglio guardare in casa d’altri che all’interno della propria.

Twitter: @GiorgioVelardi

(Articolo scritto il 9 febbraio 2016 per ilfattoquotidiano.it)

Napoli, esplosione di deposito carburante. M5s: “Bonifica ferma da tempo. Ma incidenza tumori fortissima”

lunedì, febbraio 1st, 2016

Interpellanza al ministro dell’Ambiente sui ritardi di intervento in un’area dove, secondo i 5 Stelle, sostanze pericolose come piombo, arsenico, mercurio e benzene che si annidano nei terreni e nelle falde acquifere e dove i residenti vivono tra disagi e timori per la propria salute

roberto-fico-6751Aria irrespirabile. Sostanze pericolose come piombo, arsenico, mercurio e benzene che si annidano nei terreni e nelle falde acquifere. Acqua nera e oleosa che sgorga dai rubinetti delle abitazioni. È quanto accade nei comuni di San Giovanni a Teduccio, Barra e buona parte della periferia orientale di Napoli. Dove i residenti vivono tra disagi e timori per la propria salute.

È la storia di un disastro ambientale iniziato il 21 dicembre 1985 con l’esplosione di un deposito di carburante Agip nella quale persero la vita cinque persone e altre 165 rimasero ferite. E dopo oltre trent’anni di un perverso mix di burocrazia e noncuranza politica, nazionale e locale, in fondo al tunnel non si vede ancora la luce. Tornata ad accendersi, almeno oggi, in Aula alla Camera, dove un’interpellanza del Movimento 5 Stelle ai ministri dell’Ambiente, della Salute e dello Sviluppo economico (primo firmatario il deputato Roberto Fico) ha ricordato gli effetti devastanti sulla popolazione che vive in quelle aree. Al punto che “pur in mancanza di dati e statistiche ufficiali – scrivono i deputati del M5S – si può affermare che l’incidenza dei tumori, anche fra i giovani, nell’area di San Giovanni a Teduccio sia fortissima, oltre qualsiasi ‘ragionevole’ soglia, come del resto qualunque residente della zona ha potuto, per esperienza diretta, constatare”.

RITARDI MORTALIUna denuncia dettagliata, quella contenuta nell’atto parlamentare, che ripercorre l’intera vicenda. I livelli di inquinamento della zona “hanno determinato l’inclusione dell’area ‘Napoli Orientale’ fra i siti di interesse nazionale (Sin) per i quali sono necessari interventi di bonifica” secondo quanto previsto da una legge del 1998. Senza dimenticare che gli “abnormi livelli di contaminazione delle acque e del suolo sono stati riconosciuti, più recentemente, anche sul piano istituzionale, nell’ambito della conferenza di servizi decisoria propedeutica all’approvazione di progetti di bonifica concernenti il Sin ‘Napoli Orientale’ tenutasi presso il ministero dell’Ambiente il 31 maggio 2013”. Risultato? Nonostante vari accordi di programma fra le istituzioni, come quello sottoscritto il 15 novembre 2007 fra il ministero dell’Ambiente, la Regione Campania e il Comune di Napoli per la bonifica del Sin di Napoli Orientale, “negli anni successivi la progettazione della bonifica” stessa “si incaglia nelle maglie procedurali, fra pareri non espressi e la mancata valutazione d’impatto ambientale relative ai macchinari individuati per la pulizia dei terreni”. A rendere ancor più ingarbugliata la situazione c’è poi il fatto che i progetti “sono oggetto di distinti procedimenti amministrativi in quanto distinte sono le proprietà delle aree e dei depositi da bonificare”. Non è un caso, dunque, che il 23 luglio 2015 il dicastero guidato dal centrista Gianluca Galletti abbia approvato, con decreto, il ‘Progetto definitivo di bonifica dei suoli dei siti di proprietà Kuwait (37 ettari e occupati per la maggior parte da strutture industriali inattive, ndr) a Napoli’. Non senza forti preoccupazioni da parte dei residenti.

ANDAMENTO LENTO Infatti, proprio per quanto riguarda l’area della Kuwait (Q8), un’inchiesta della Procura di Napoli “ha ulteriormente alimentato la grave preoccupazione dei cittadini per la propria salute”. Gli inquirenti hanno disposto il “sequestro preventivo di 240 milioni di euro equivalente al vantaggio economico che l’azienda petrolifera avrebbe tratto dal mancato rispetto delle norme in materia di smaltimento delle acque oleose”. Il cui smaltimento sarebbe stato trattato “in modo difforme dalle prescrizioni di legge”. Secondo gli investigatori, ricorda l’interpellanza, “le acque utilizzate per il lavaggio delle linee di importazione di benzina” venivano “trasferite in modo improprio da un serbatoio all’altro, trasformandosi esse stesse in un rifiuto liquido pericoloso che avrebbe dovuto essere smaltito nei modi stabiliti dalla legge e dunque attraverso un processo più oneroso”. Ma cosa sta facendo il governo? “La Sogesid (società nata nel 1994 come concessionaria di impianti di depurazione in Campania, ndr) è stata incaricata di effettuare la progettazione degli interventi relativi alla falda acquifera del Sin di Napoli Orientale con un progetto unitario che tenga conto anche degli interventi di messa in sicurezza già in atto o da attuare predisposti dalle aziende insediate nel Sin”, ha spiegato oggi in Aula alla Camera la sottosegretaria all’Ambiente, Silvia Velo, in risposta al M5S. “Il progetto definitivo degli interventi di messa in sicurezza d’emergenza e bonifica della falda acquifera – ha proseguito la sottosegretaria – è stato trasmesso dalla Sogesid nel settembre 2015 e discusso nella conferenza dei servizi istruttoria dal 7 ottobre successivo e nella riunione tecnica del 2 novembre 2015. Si resta in attesa delle integrazioni richieste in tali sedi ai fini dell’approvazione del progetto nella prossima conferenza dei servizi decisoria utile”. Una risposta che Fico ha però accolto con perplessità. “Il problema – ha detto – è che a me sembra che non si voglia affrontare di petto e fino in fondo questa situazione, che è molto più grave dell’azione lenta che questo governo sta facendo”.

(Articolo scritto con Antonio Pitoni il 29 gennaio 2016 per ilfattoquotidiano.it)

Scandali bancari, 14 proposte per la commissione d’inchiesta: opposizioni scatenate contro quella del Pd

domenica, gennaio 31st, 2016

Il ddl presentato a Palazzo Madama dal Partito democratico non fa riferimento ai quattro istituti salvati a novembre dal governo. Tra cui l’Etruria, dove il padre del ministro Boschi è stato vice presidente. De Petris (Si) ironizza: “E’ come buttare la palla in tribuna”. Artini (Alternativa Libera): “Un ddl di facciata che nasconde imbarazzo”. Pini (Lega): “Renzi cerca di sviare le attenzioni sul caso”. Villarosa (M5S): “L’esecutivo sa che il salva-banche è a rischio incostituzionalità”. Ma il renziano Marcucci replica: “Non ci interessa la polemica di un giorno ma capire come stanno le cose”. Ilfattoquotidiano.it ha visionato tutte le proposte depositate. Ecco cosa prevedono  

etruria-675Una pioggia di disegni e proposte di legge. Quattordici in totale: cinque alla Camera e nove al Senato. Per istituire una commissione di inchiesta parlamentare volta a fare luce sull’operato dei vertici dei quattro istituti di credito (Banca EtruriaBanca MarcheCarife e CariChieti) oggetto del contestato decreto “Salva banche” varato dal governo di Matteo Renzi il 22 novembre 2015. Ma non solo. Perché sfogliando i testi c’è anche chi punta il dito contro l’operato di Banca d’Italia e Consob, chiedendo che venga verificata l’ipotesi di omesso controllo sugli amministratori degli enti coinvolti. Chi chiede che siano valutati eventuali conflitti d’interessi, in particolare all’interno dell’esecutivo. E chi, ancora, vuole estendere l’inchiesta al suicidio del pensionato di Civitavecchia, Luigino D’Angelo. Il tutto non senza alimentare polemiche durissime. Perché le opposizioni giudicano l’unica proposta del Pd, presentata a Palazzo Madama dal renziano Andrea Marcucci (che nel testo di legge non cita mai le quattro banche), come il tentativo di “buttare la palla in tribuna”, per dirla con le parole della capogruppo del Misto, Loredana De Petris (Sinistra Italiana). Cioè di sviare l’attenzione dal recente scandalo che ha coinvolto, tra le altre, anche Banca Etruria, l’istituto di credito del quale il padre della ministra Maria Elena Boschi è stato vice presidente e il fratello dipendente. Accuse respinte dallo stesso Marcucci: “Non si fanno commissioni di indagine per alimentare polemiche di un giorno ma per capire come vanno le cose in un settore così delicato”. Ilfattoquotidiano.it ha visionato tutte le proposte depositate. Ecco cosa prevedono.

POKER STELLATO – Il partito che con maggiore ostinazione chiede l’istituzione di una commissione d’inchiesta sulle popolari (e più in generale sul sistema bancario) è il Movimento 5 Stelle. Fra Montecitorio e Palazzo Madama, infatti, i grillini hanno presentato in totale quattro fra disegni e proposte di legge. L’ultima ieri alla Camera – depositata insieme ad una mozione che impegna il governo a rinviare l’applicazione del bail-in al 2018 – firmata da Alessio VillarosaDaniele Pesco e Ferdinando Alberti. Un testo stringente. Con il quale i tre deputati chiedono che vengano esaminate “le procedure seguite e gli atti assunti dal governo, dal ministero dell’Economia e delle Finanze, da Banca d’Italia e da Consob” al fine di verificare se “siano conformi alle disposizioni normative in vigore all’atto dell’avvio della procedura di risoluzione”. Ma anche che siano analizzate “le relazioni intercorse fra le Istituzioni dell’Unione europea e Banca d’Italia in merito alla individuazione della procedura da seguire per la risoluzione della crisi delle banche”, nonché “la correttezza e la tempestività delle informazioni comunicate agli azionisti, obbligazionisti e clienti, sia da parte delle banche che da parte degli organi di vigilanza e controllo”. Senza dimenticare gli “eventuali conflitti d’interesse tra membri del governo, delle banche, Banca d’Italia e altre banche coinvolte nell’operazione di risoluzione della crisi delle banche” stesse. Proposta che si accompagna a quella, depositata alla Camera il 30 settembre 2015 (circa due mesi prima rispetto al decreto del governo), prima firmataria Dalila Nesci, “sulle attività illecite delle banche e sull’esercizio dell’attività di vigilanza della Banca d’Italia”. Due, invece, i disegni di legge presentati dal M5S al Senato. Uno di cui è primo firmatario Gianni Girotto (che intende fare luce sul “settore dell’intermediazione creditizia e finanziaria”), l’altro presentato da Stefano Lucidi, riguardante anche Banco di Desio e della Brianza Spa e Banca popolare di Vicenza.

INTERESSI PARTICOLARI – Infatti, nelle proposte di legge depositate in entrambe le Camere, nel mirino non ci sono solo Banca Etruria, Banca Marche, Carife e CariChieti. Nella pdl di Alternativa libera-Possibile, a prima firma Massimo Artini, le competenze della commissione d’inchiesta vengono estese anche al dissesto del Monte dei Paschi di Siena. Al fine di accertarne “le cause e le responsabilità, giuridiche e politiche”. Ma anche per valutare atti e decisioni “assunte dagli organi di amministrazione e di direzione” dei cinque istituti di credito, verificando “eventuali conflitti di interessi” e “comportamenti illeciti” a carico degli amministratori, dei dirigenti e dei dipendenti delle stesse banche. Non solo. A Montecitorio ci sono infatti altre due proposte depositate. Quella di Forza Italia, primo firmatario il capogruppo Renato Brunetta (‘gemella’ di quella su cui ha apposto il proprio nome il presidente dei senatori di FI, Paolo Romani, a Palazzo Madama), e quella di Scelta Civica, presentata da Giovanni Monchiero insieme ad altri colleghi di partito. Due i punti principali della pdl dei deputati forzisti. Prima di tutto “valutare”, oltre a quella di Palazzo Koch e Consob, “la condotta del governo in relazione alle vicende che hanno interessato Banca Etruria, Banca Marche, Carife e CariChieti accertando l’eventuale sussistenza di interessi particolari e di conflitti di interessi a carico di membri del governo”. E poi “verificare se siano fondate le affermazioni espresse da Jonathan Hill, commissario dell’Unione europea per la stabilità finanziaria, secondo cui le banche italiane avrebbero venduto ai risparmiatori prodotti inadeguati e, in caso affermativo, le iniziative assunte dalle autorità di vigilanza”. Più genericamente, invece, la proposta di Monchiero si prefigge di “accertare le cause, le responsabilità e le conseguenze dei più recenti casi di dissesto del mercato bancario e finanziario” e le “eventuali responsabilità degli organi di amministrazione degli istituti nel dissesto degli stessi.

BANCHE CERCASI – L’unico testo messo a punto dal Partito democratico (Pd) è stato depositato al Senato a prima firma del renziano Andrea Marcucci. Il solo riferimento a Banca Etruria, Banca Marche, Carife e CariChieti è contenuto nella relazione introduttiva, che ne cita le relative vicende a testimonianza di “come logiche deteriori abbiano avuto il sopravvento sull’interesse collettivo”. Ma delle quattro banche salvate recentemente dal governo si perde ogni traccia nel disegno di legge (ddl). L’articolo 1 istituisce “una commissione parlamentare di inchiesta sul sistema bancario e finanziario, con particolare riguardo alla tutela dei risparmiatori”. Ampliando al periodo 2000-2015, come chiarisce successivamente il testo, la verifica sull’operato “degli organi di gestione degli istituti bancari coinvolti in situazioni di crisi o di dissesto” – ma senza indicare espressamente quali – e “l’efficacia delle attività di vigilanza”. Se il ddl del socialista Enrico Buemi attribuisce alla commissione compiti di accertamento “sui fallimenti delle banche e delle assicurazioni nonché sulla cattiva gestione del sistema finanziario ad esse collegato”, molto più mirato è, invece, il testo messo a punto dai senatori del gruppo Misto, prima firmataria Loredana De Petris (Sinistra italiana). Che chiede l’istituzione di una commissione d’inchiesta “sulle cause del dissesto della Cassa di risparmio di Ferrara Spa, della Banca delle Marche Spa, della Banca popolare dell’Etruria e del Lazio Società cooperativa e della Cassa di risparmio della provincia di Chieti Spa”. Per verificare, tra l’altro, le modalità di emissione e collocamento al pubblico di titoli azionari e obbligazionari, “prassi e procedure di gestione del credito” con riferimento alla concessione di “prestiti non performanti”, oltre ai “criteri di nomina” dei rispettivi amministratori.

PERICOLO DI FUGA – Mano pesante anche dalla Lega Nord, che ha presentato due testi praticamente identici: uno alla Camera (primo firmatario Gianluca Pini) e l’altro al Senato (a prima firma Paolo Tosato). Oltre a verificare “la gestione finanziaria” di Banca Etruria, Banca Marche, Carife e CariChieti, deputati e senatori del Carroccio chiedono specifici accertamenti sulle “attività di speculazione finanziaria ad alto rischio” e sull’emissione di “titoli rischiosi che abbiano esposto il patrimonio degli istituti al pericolo di insolvenza”. Non solo. Tra i compiti della commissione d’inchiesta, i parlamentari della Lega includono anche quello di valutare “eventuali responsabilità” connesse “al suicidio del risparmiatore Luigino D’Angelo, avvenuto il 28 novembre 2015 a Civitavecchia”. Sempre al Senato, anche i Conservatori e Riformisti di Raffaele Fitto chiedono, con un ddl a prima firma della capogruppo Anna Cinzia Bonfrisco, che la commissione indaghi espressamente sulle vicende relative alle quattro banche interessate dalla procedura di risoluzione. Verificando, tra l’altro, il “rispetto dei principi di trasparenza delle operazioni, dei servizi, dei prodotti e degli strumenti di natura bancaria e finanziaria, compresi libretti di risparmio postale e buoni fruttiferi assistiti dalla garanzia dello Stato e di correttezza delle relazioni tra intermediari e clienti”. Ma anche l’operato delle agenzie di rating rispetto ad eventuali “meccanismi di insider trading attraverso possibili fughe anticipate e selezionate di notizie riguardanti le modalità e le tempistiche dei declassamenti, condizionando così investimenti e transazioni internazionali”.

MELINA DEMOCRATICA – “La proposta che ho sottoscritto parte dal caso delle quattro banche per comprendere un periodo più lungo, utile a capire i meccanismi di funzionamento del sistema nel suo complesso – spiega però Marcucci contattato da ilfattoquotidiano.it –. Non si fanno commissioni di indagine per alimentare polemiche di un giorno ma per capire come vanno le cose in un settore così delicato”. Peccato che non tutti la pensino come lui. “Il Pd? Cerca di buttare la palla in tribuna”, osserva Loredana De Petris. La presidente del gruppo Misto del Senato in quota Sinistra italiana critica l’assenza di riferimenti alle vicende di Banca Etruria, Banca Marche, Carife e CariChieti nel ddl del Pd. “Durante il governo Berlusconi, in seguito al crac della Parmalat, si istituì una commissione ad hoc mirata sui protagonisti dello scandalo – ricorda –. Oggi come allora non si può istituire una commissione d’inchiesta prescindendo da una seria indagine sulle modalità di gestione delle quattro banche sottoposte a procedura di risoluzione e sull’attività di vigilanza svolta nei confronti delle stesse”. E aggiunge: “Il Pd sta facendo melina. Avevamo chiesto, insieme al M5S, che i ddl per l’istituzione della commissione fossero esaminati in Aula contestualmente alla discussione sulle mozioni di sfiducia contro il ministro Boschi, ma non è stato possibile”. L’ex grillino Massimo Artini condivide e rilancia: “Il ddl Marcucci? Solo un testo di facciata che nasconde tutto l’imbarazzo del Pd – accusa il deputato di Alternativa libera, che ha incluso nell’oggetto dell’inchiesta anche il Monte dei Paschi di Siena –. Visto che chiede di prendere in esame i fatti tra il 2000 e il 2015, mi chiedo allora perché non includere anche gli anni ’90, quando è iniziato il processo di privatizzazione del sistema bancario”.

EFFETTI COLLATERALI – Per il leghista Gianluca Pini, invece, in questo modo “Renzi sta cercando in tutti i modi di sviare le attenzioni concentrate su Banca Etruria”, ma “sono sicuro che l’istituzione di una commissione di inchiesta, che noi preferiremmo fosse monocamerale, accerterà le responsabilità non solo dei vertici delle banche oggetto del contestato decreto, compresa quella di cui è stato vicepresidente il padre della Boschi, ma anche di Bankitalia”. Per Pini, infatti, Palazzo Koch “non ha vigilato come avrebbe dovuto concentrando le proprie attenzioni su situazioni collaterali di gravità assai minore, spingendo per esempio alla fusione le piccole banche con effetti suicidi. Vogliamo andare fino in fondo – conclude – non lasceremo che questa vicenda finisca nel dimenticatoio”. Per Alessio Villarosa (M5S), infine, oltre ai tentativi del Pd di annacquare la vicenda c’è un altro problema, addirittura “molto più grave” degli altri. “Il decreto sulle banche emanato dal governo rischia di essere nullo – spiega il deputato – perché uno degli articoli presenti al suo interno fa riferimento ad una norma non ancora entrata in vigore quando è stato emanato”. Risultato: “Se venissero presentati dei ricorsi alla Consulta, e questa dovesse dichiarare incostituzionale il decreto, oltre alle somme espropriate lo Stato dovrà pagare pure i danni, le spese legali ed eventuali interessi di mora”.

(Articolo scritto con Antonio Pitoni il 29 gennaio 2016 per ilfattoquotidiano.it)

Camera dei deputati: Stefano Menichini e Daniela Hamaui favoriti per la poltrona di nuovo capo ufficio stampa

lunedì, gennaio 25th, 2016

Sono i nomi che circolano con maggiore insistenza fra i 270 candidati che hanno inviato un curriculum. Per succedere ad Anna Masera. Mentre continuano le polemiche ai vertici di Montecitorio. Iniziate con le dimissioni di Roberto Giachetti dalla guida del Comitato per la comunicazione. In rotta con la presidente Laura Boldrini. Fino all’ultimo ufficio di presidenza. Che ha affidato a un gruppo di 5 deputati la compilazione di una lista di 10 nomi. Fra i quali sarà effettuata la scelta finale. Mannino (M5S): “Metodo incomprensibile, negata la trasparenza”

Menichini_675Nei corridoi di Montecitorio c’è già chi è pronto a scommettere che la corsa per la successione ad Anna Masera alla guida dell’ufficio stampa della Camera si sia ridotta a un derby. Quello fra l’ex direttore di Europa, Stefano Menichini (nella foto), oggi consulente del ministero dei Trasporti (“Incarico che lascerò in caso di nomina”, fa sapere l’interessato). E l’ex direttrice de l’Espresso e di D di Repubblica, Daniela Hamaui. Entrambi, contattati da ilfattoquotidiano.it, confermano che fra i circa 270 curriculum arrivati sulla scrivania della presidente, Laura Boldrini, ci sono anche i loro. Un esercito di candidati tra i quali si dovrà decidere a breve a chi assegnare l’ambita poltrona (circaseimila euro di stipendio netti al mese) ancora vacante.

ALTA TENSIONE Un cambio della guardia che, dal giorno in cui la Masera ha annunciato il suo ritorno a La Stampa, sta però alimentando non poche tensioni all’interno dell’ufficio di presidenza di Montecitorio. A cominciare dalle rumorose dimissioni di Roberto Giachetti (Pd), che il 2 dicembre scorso ha lasciato, in aperta polemica con la Boldrini, la guida del Comitato per la comunicazione e l’informazione esterna. Cioè l’organo che proprio in occasione della nomina della Masera seguì per la prima volta l’iter per l’assegnazione dell’incarico. “Non sono nelle condizioni di poter continuare a lavorare”, accusò sbattendo la porta l’attuale candidato del Pd alle primarie per le comunali di Roma. Da quel momento, però, i toni sono rimasti alti. Passano dieci giorni e a rinfocolare la polemica arriva infatti anche una lettera della deputata del Movimento 5 Stelle, Claudia Mannino, indirizzata alla presidente della Camera, per sollecitare la nomina del successore di Giachetti.

MAGNIFICI DIECI Appello rimasto inascoltato fino all’ufficio di presidenza di giovedì 21 gennaio. Quando, dopo aver proposto che ad occuparsi della selezione fosse l’intero Ufficio di presidenza – i cui membri avrebbero dovuto indicare due nomi a testa fra i 270 candidati per scremare la lista ad una trentina di concorrenti – Boldrini è stata costretta a tornare sui suoi passi. Visti i malumori scatenati dalla soluzione prospettata, alla fine la presidente ha nominato un sottogruppo di lavoro formato da 5 membri: Anna Rossomando, Giovanni Sanga (entrambi del Pd), Ferdinando Adornato (Area Popolare), Gianni Melilla (Sinistra Italiana) e la stessa Mannino (M5S). A loro è stato chiesto di redigere, entro il 29 gennaio, una lista di 10 nomi dalla quale sarà scelto il nuovo capo ufficio stampa di Montecitorio. Tutto risolto? Nemmeno per sogno. Almeno a sentire la componente grillina del sottogruppo appena insediato. “La decisione presa dalla Boldrini dimostra la superficialità nello gestire questa partita per la nomina di una figura che, fra le altre cose, dovrà curare la comunicazione della Camera nei mesi della campagna referendaria – accusa la Mannino –. È un metodo incomprensibile, che pregiudica qualsiasi forma di trasparenza e che usurpa il lavoro svolto in questi anni dal comitato”.

Giubileo: 159 milioni di euro per Roma, ma a decidere come spenderli sarà solo Renzi

giovedì, gennaio 21st, 2016

La norma, contenuta nel provvedimento che stanzia risorse per riqualificare la Capitale, affida la gestione dei fondi al presidente del Consiglio. E a nessun altro. Bocciato dall’Aula della Camera un emendamento di Fabio Rampelli (Fratelli d’Italia) che chiedeva il coinvolgimento del sindaco nelle decisioni. Opposizioni all’attacco. Lombardi (M5S): “Si rischia uno scontro istituzionale senza precedenti se sarà eletto uno dei nostri”. Zaratti (Sel): “Scelta incomprensibile”. Civati (Possibile): “È la logica dell’uomo solo al comando”  

renzi-675C’è chi parla di “deriva plebiscitaria”, chi di “centralismo antidemocratico” e chi, addirittura, paventa il rischio di “uno scontro istituzionale senza precedenti”. Il pomo della discordia sono i 159 milioni di euro (94 per l’anno 2015 e i restanti 65 per il 2016) che il cosiddetto ‘decreto Giubileo’ stanzia tramite un fondo per “la realizzazione di interventi” volti a riqualificare Roma durante l’anno santo straordinario indetto da Papa Francesco. Con particolare riferimento alla mobilità, al decoro urbano e alle periferie. A decidere come verranno spesi i soldi, dice il provvedimento, saranno “uno o più decreti del presidente del Consiglio dei ministri”. Tradotto: solo Matteo Renzi avrà voce in capitolo sulla questione. Mentre saranno esclusi dalla partita il commissario straordinario, Francesco Paolo Tronca, e il nuovo sindaco di Roma, che sarà eletto in primavera. Una circostanza singolare, secondo le opposizioni. Che non a caso hanno cercato di invertire la rotta. Un emendamento presentato dal deputato Fabio Rampelli (Fratelli d’Italia), il quale chiedeva che le risorse fossero ripartite “di concerto” con il primo cittadino della Capitale, è stato però bocciato dall’aula di Montecitorio. A favore della modifica, insieme al partito di Giorgia Meloni, hanno votato anche Forza Italia, Lega Nord, Movimento 5 Stelle, Sinistra italiana e Alternativa Libera-Possibile. Ma i 158 voti raccolti non sono serviti a farla passare.

QUI COMANDO IO – “Lo reputo un fatto molto grave”, dice Rampelli, “perché dopo la cacciata di Ignazio Marino il governo ha deciso di lasciare al loro posto i presidenti dei municipi e nominare un commissario straordinario, salvo poi scavalcarli completamente nel momento di decidere come e per cosa stanziare questi soldi. Trovo incompressibile – prosegue – che a decidere di un’amministrazione comunale sia il presidente del Consiglio. È l’ennesima testimonianza della deriva plebiscitaria alla quale stiamo andando incontro”, conclude Rampelli. Sulla stessa lunghezza d’onda anche il M5S. “Oltre al fatto che la cifra stanziata è risibile e arriva con grave ritardo – attacca la deputata Roberta Lombardi – Renzi ha pensato bene di non dare voce al sindaco, espressione del voto popolare, ma di proseguire lungo la strada del centralismo antidemocratico. Roma ha 1,2 miliardi di disavanzo ai quali vanno aggiunti una serie infinita di debiti fuori bilancio con cui il prossimo primo cittadino si troverà a fare i conti. Si rischia uno scontro istituzionale senza precedenti, soprattutto se sarà eletto un sindaco espressione del M5S o delle altre forze di opposizione”.

ONERI E ONORI – “L’impressione è che Renzi voglia scaricare sui sindaci solo gli oneri lasciando per sé gli onori, e quanto previsto dall’articolo 6 del ‘decreto Giubileo’ non è che l’ultima dimostrazione”, spiega Filiberto Zaratti, deputato romano di Sinistra italiana. “È impensabile impegnare dei soldi su questioni come la mobilità, le periferie e il decoro urbano senza ascoltare ciò che ha da dire chi amministra quotidianamente la città – aggiunge –. Non vorremmo che questo fosse il modo per consultare i sindaci amici osteggiando gli avversari”. Per Giuseppe Civati, deputato ex Partito democratico oggi leader di Possibile, “la bocciatura di questo emendamento rientra nella logica dell’uomo solo al comando di matrice renziana, fatta di cambiali in bianco consegnate nelle mani del governo e nella quale gli equilibri costituzionali sono prerogativa di una singola persona. Spero solo – conclude – che alla fine nessuno si lamenti”.

(Articolo scritto il 19 gennaio 2016 per ilfattoquotidiano.it)

Regolamentazione delle lobby: dopo l’immobilismo di Palazzo Madama la proposta di legge si sposta alla Camera

venerdì, gennaio 15th, 2016

Adriana Galgano (Scelta Civica) ha deciso di presentare anche a Montecitorio il testo dei senatori ex 5 Stelle Orellana e Battista. Che, approvato in commissione Affari costituzionali ad aprile 2015, è caduto nel dimenticatoio. La deputata: “Decisione che nasce dopo aver sperimentato il fortissimo peso dei gruppi di pressione anche e soprattutto in Parlamento”

corso-lobbistiokC’è ancora qualcuno che ci prova. Nonostante le tante promesse mancate. Ultime in ordine di tempo quelle fatte dal governo di Matteo Renzi. Il quale, per bocca del ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha parlato – oltre un anno e mezzo fa – di “regolamentare le lobby per combattere la corruzione”. E invece? Della legge per disciplinare il lavoro dei cosiddetti “portatori di interessi” non si vuole proprio discutere. Già: non si vuole. Perché un testo base c’è, e porta la firma di due senatori ex Movimento 5 Stelle: Luis Alberto Orellana e Lorenzo Battista. Solo che è fermo in commissione Affari costituzionali aPalazzo Madama dal 9 aprile 2015, giorno in cui è stato approvato. Oltre nove mesi. Malgrado i numerosi richiami dell’Antitrust.

MAL DI TESTO Ecco perché adesso quello stesso testo sarà presentato anche a Montecitorio. Per dare una forte accelerazione ad una discussione che, malgrado timidi quanto vani tentativi (ultimi in ordine di tempo quelli degli ex ministri Giulio SantagataMario Catania e dell’ex premier Enrico Letta), va avanti da qualche decennio senza mai giungere a conclusione. A firmare la proposta di legge a Montecitorio è Adriana Galgano, deputata di Scelta Civica, insieme al collega di partito Salvatore Matarrese. “Questa decisione – spiega Galgano a ilfattoquotidiano.it – nasce dopo aver sperimentato come le pressioni delle lobby siano fortissime, anche e soprattutto in Parlamento”. Anche perché “c’è un interesse di molti ex deputati e senatori a svolgere un’attività di questo tipo”, aggiunge l’esponente del partito che fu di Mario Monti. La quale ricorda un episodio che l’ha riguardata in prima persona. “Nel corso dell’approvazione del ddl concorrenza – spiega – ho condotto una battaglia per la liberalizzazione dei farmaci di fascia C”, cioè quelli non concessi dal servizio sanitario nazionale ma che necessitano di ricetta.

GELIDA MANINA E cos’è successo? “Nonostante un risparmio stimato di 500 milioni di euro per i cittadini e il parere favorevole del ministero dello Sviluppo economico affinché questa circostanza si concretizzasse, la longa manus delle lobby ha fatto in modo che la liberalizzazione fosse bloccata. Peraltro – dice Galgano – accampando motivazioni risibili, come l’aumento del consumo dei farmaci stessi: ciò è totalmente falso visto che per acquistarli serve comunque la prescrizione medica”. Ecco perché adesso un emendamento che si muove in questa direzione verrà presentato proprio da Orellana al Senato, dove il provvedimento è sbarcato dopo l’approvazione della Camera. “Noi l’abbiamo definita un’operazione di co-politiching – conclude la deputata – visto che veniamo da gruppi parlamentari diversi: sarà utile per capire, una volta di più, l’influenza dei gruppi di pressione”.

PUBBLICO REGISTRO Ma cosa prevede nello specifico la proposta di legge? Prima di tutto l’istituzione di un “Comitato per il monitoraggio della rappresentanza di interessi” presso il segretariato generale della presidenza del Consiglio, più quella di un “Registro pubblico dei rappresentanti di interessi”. Al quale non potranno iscriversi i condannati in via definitiva per reati contro lo Stato e la pubblica amministrazione. Chi svolgerà l’attività senza essere iscritto al registro, inoltre, sarà punito con una sanzione amministrativa che può toccare i 200 mila euro. “Abbiamo messo da parte le differenze di schieramento perché riteniamo che entrambe le questioni vadano nell’interesse esclusivo dei cittadini – spiega invece Orellana –. Faremo il possibile affinché si concludano positivamente”.

Twitter: @GiorgioVelardi

(Articolo scritto il 14 gennaio 2016 per ilfattoquotidiano.it)