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Nella Cgil è già partita la corsa al dopo-Camusso. Ecco i nomi dei possibili successori

mercoledì, novembre 22nd, 2017

Camusso_2Il suo secondo mandato scadrà esattamente fra un anno, a novembre 2018. Ma Susanna Camusso potrebbe anche chiudere in anticipo la propria esperienza alla guida della Cgil se le venisse offerto un seggio in Parlamento. L’interessata per ora ha stoppato qualsiasi ipotesi di ‘discesa in campo’. A metà settembre, alla festa della Cgil a Lecce, Camusso ha detto chiaro e tondo che “la scelta di non candidarmi non è solo personale ma è anche una scelta per la Cgil. Questa non è una critica per chi in passato ha fatto la scelta di stare in Parlamento, ma ci sono stagioni e stagioni”. Vedremo se sarà veramente così. Anche perché i suoi due predecessori, Sergio Cofferati e Guglielmo Epifani, hanno fatto il ‘grande passo’, sbarcando chi all’Europarlamento (il primo) chi alla Camera (il secondo) col Pd, prima di dire addio in polemica con la linea di Matteo Renzi, uno degli arcinemici dell’attuale leader della Cgil.

Pesi e contrappesi – L’unica cosa certa, al momento, è che la corsa per la successione è già in fase avanzata. I nomi sul tavolo sono tre: si tratta di Serena SorrentinoVincenzo Colla e Franco Martini. Non in rigoroso ordine di gradimento, però. Perché se è vero che, come recita il vecchio adagio, gli ultimi saranno i primi, su Colla e la Sorrentino alla fine potrebbe spuntarla proprio Martini. Sessantaquattro anni, nato a Tunisi ma cresciuto a Prato (la sua famiglia è originaria di Livorno), Martini è entrato nella Confederazione Generale Italiana del Lavoro nel 1975, a 22 anni. Prima segretario generale della Camera del lavoro di Prato, poi membro della segreteria regionale della Cgil Toscana – della quale è diventato segretario generale dal ’92 al 2000 – Martini sbarca a Roma per guidare la Fillea, il sindacato dei lavoratori delle costruzioni. Poi a settembre del 2008 viene eletto segretario generale della Filcams, la categoria della Cgil che organizza e rappresenta i lavoratori del Commercio, Turismo e Servizi, infine il 23 giugno 2014 entra in segreteria nazionale confederale. Uno al quale l’esperienza non manca, insomma. Stesso discorso per Colla. Piacentino, classe 1962, nell’ultimo anno il 55enne ha scalato posizioni nel sindacato di Corso d’Italia grazie anche all’appoggio delle più potenti federazioni di categoria, a partire dai pensionati (Spi): 2.863.318, oltre il 50 per cento del totale di quelli della Cgil secondo l’ultimo dato disponibile (aggiornato al 31 dicembre 2016) sul sito Internet.

Terza via – La terza e ultima ipotesi in campo è quella della Sorrentino. A dispetto dell’età l’attuale responsabile della funzione pubblica della Cgil, originaria di Arzano (Napoli), vanta anche lei una lunga esperienza nella Cgil. Nata nel 1978, proprio l’anno in cui Luciano Lama annunciava la “svolta dell’Eur”, Sorrentino si è avvicinata al sindacato di Corso d’Italia nel ’94, a soli 16 anni. Da quel momento in poi la sua carriera è stata in costante ascesa, tanto da approdare nel 2010, a 32 anni, nella segreteria di Epifani col ruolo di responsabile delle politiche sulle Pari opportunità. Chi la conosce la descrive come una persona attenta, riflessiva, mai sopra le righe e senza troppa voglia di apparire. Anche se qualche incursione televisiva, in questi anni, se l’è concessa pure lei. Come quando a gennaio di quest’anno, seduta nel salotto di Porta a Porta, è stata protagonista di un serrato confronto con Tommaso Nannicini, ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio e braccio destro del segretario del Pd, al quale il 20 settembre 2014 “Serena” aveva indirizzato un tweet al veleno: “La Cgil vuole estendere lo statuto dei lavoratori a tutti, Matteo Renzi vuole licenziare liberamente tutti. Chi è che difende diritti/lavoro?”. Una alla quale, indubbiamente, il carattere non manca.

Articolo scritto il 22 novembre 2017 per La Notizia

Fastweb atto terzo – da “Il Punto” del 9/11/2012

mercoledì, novembre 14th, 2012

Prima luglio, poi novembre e ora gennaio 2013. Per i circa 600 lavoratori del settore “Customer Care & Customer Base Management” dell’azienda di proprietà di Swisscom la cessione a Visiant sta diventando un “giallo nel giallo”. E ora anche i sindacati, dopo gli entusiasmi iniziali, sono sul piede di guerra  

Un “giallo nel giallo”. È quello di cui sono protagonisti i circa 600 lavoratori del settore Customer Care & Customer Base Management di Fastweb, l’azienda che opera nel settore delle telecomunicazioni nata sul finire degli Anni ’90 a Milano e diventata di proprietà di Swisscom nel 2007, che sarebbero dovuti essere esternalizzati a Visiant Next Spa il primo luglio scorso. Sarebbero, appunto. Perché dopo un primo rinvio dell’operazione a inizio novembre, ora un avviso notificato ai diretti interessati rende nota «la necessità di maggior tempo di quanto preventivato» e che va quindi ridefinita «al 1° gennaio 2013 la data di trasferimento delle persone e delle attività appartenenti al ramo». Una vicenda intricata che, come di consueto, rischia di non avere alcun vincitore ma solo tanti sconfitti: i lavoratori.

L’ANTEFATTO Il Punto aveva dato notizia di quanto stava accadendo proprio quando i giochi sembravano fatti e i lavoratori avevano pure preparato gli scatoloni, all’interno dei quali era stata inserita anche una buona dose di dubbi e incertezze. Il perché è presto detto: Visiant Spa, che controlla al cento per cento Visiant Next (la newco fondata il 23 aprile di quest’anno e controllata a sua volta da Visiant Contact Srl), si trova in amministrazione controllata. Non solo: ci sono punti dell’«accordo di armonizzazione», sottoscritto da azienda e sindacati, che i lavoratori contestano. Due su tutti: il 9 e il 12. Nel primo si assicura che «nella remota ipotesi di fallimento di Visiant Contact Srl o Visiant Next Spa e/o di ammissione di Visiant Contact Srl o Visiant Next Spa a procedure concorsuali, Fastweb Spa selezionerà un nuovo partner a cui trasferire, senza soluzioni di continuità, le attività e i rapporti dei lavoratori appartenenti al ramo d’azienda ed ancora in forza a Visiant Next Spa (…)». Tradotto: la delocalizzazione della delocalizzazione. Poi c’è il punto 12: «Visiant Next Spa conferma che i lavoratori facenti parte del ramo ceduto continueranno a svolgere le attività oggetto del trasferimento di ramo d’azienda, fatto salvo che, in relazione ad una migliore valorizzazione delle professionalità dei lavoratori stessi, siano assegnati a diverse attività». Ciò provocherebbe, in caso, un “effetto boomerang”: Fastweb potrebbe infatti cedere la commessa senza più i lavoratori al suo interno ad un nuovo partner e l’accordo decadrebbe. Come detto, la cessione degli addetti al settore Customer Care & Customer Base Management sarebbe dovuta avvenire a inizio luglio. Poi però il 27 giugno – solo quattro giorni prima del passaggio – i lavoratori ricevono questa comunicazione: «Vi informiamo che il trasferimento non avrà effetto dal 1° luglio. Fastweb, fin dall’inizio del progetto, ha posto come obiettivo primario per il trasferimento del ramo garanzie di stabilità societaria e solidità finanziaria del partner prescelto, della sua controllante e dell’intero gruppo Visiant; questo a tutela sia delle persone che delle attività coinvolte ed in considerazione dell’accordo sottoscritto il 12 maggio 2012 con le parti sociali. A tal fine il gruppo Visiant ha reso noto che nell’arco del prossimo mese saranno fornite alcune garanzie finanziarie (…). Vi forniremo aggiornamenti in merito».

VISIANT E OVERSEAS IND. - Qual è il motivo della retromarcia? Per spiegarlo dobbiamo fare un passo indietro e analizzare la visura della Camera di Commercio di Milano (24 giugno 2011) in cui è scritto: «In merito alla situazione finanziaria della società (Visiant Contact Srl, ndr), si rileva in particolare che il debito tributario per l’Iva non versata al 31/12/2010 ammonta ad euro 6.677.020 e, ai primi mesi di maggio 2011, risulta pari a circa euro 5.950.000. Ad oggi non si è ancora a conoscenza dell’avvenuta conclusione di un piano di ristrutturazione di tale debito». In conclusione, vanno assunte «le appropriate determinazioni in relazione all’approvazione del Bilancio e alla copertura della perdita d’esercizio (…)». In mancanza di tali interventi il rischio è «la messa in liquidazione» della società. Malgrado la situazione fosse complicata fin dall’inizio, Fastweb e i sindacati sottoscrivono l’accordo. Poi arriva il primo rinvio e parallelamente Visiant viene acquistata dalla Overseas Industries, società italiana di investimenti creata trent’anni fa dall’imprenditore Emanuele Costa, che viene affiancato nel 2005 da Federico Nordio. La Overseas sigla un aumento di capitale da 5 milioni di euro per rilanciare Visiant e promette di «sottoscrivere un ulteriore aumento da 3 milioni». Cosa, adesso, ha bloccato l’ingranaggio? «È ovvio che l’ingresso in Visiant da parte di Overseas Industries abbia rimescolato le carte in tavola, e che qualcosa sia andato storto. In questo gioco di accordi fra le società le conseguenze le pagano i lavoratori», ci racconta un dipendente Fastweb che chiede l’anonimato. «La cosa che più ci fa rabbia è che noi ci troviamo in mezzo alla tempesta senza che la nostra azienda sia in crisi», prosegue. Numeri alla mano, nel primo semestre 2012 Fastweb ha sì visto diminuire il proprio fatturato netto, passato da 875 a 853 milioni di euro (-2,5 per cento), ma ha incrementato il numero dei suoi clienti (+78mila unità). «Una perdita – ci spiega il nostro interlocutore – frutto di un abbassamento dei prezzi che è servito a rimanere competitivi sul mercato. Al contrario degli altri operatori, Fastweb non può contare sugli utili del settore “mobile”. La produzione però c’è e va avanti, basti pensare che quest’anno abbiamo percepito un premio di produzione pari a quasi 2mila euro». La rabbia dei dipendenti deriva dalle rassicurazioni che l’azienda ha fornito loro prima di delocalizzarli e dall’atteggiamento che lo Human Capital continua ad avere nei loro confronti. La nostra fonte ci racconta che «pochi giorni prima dell’ultima comunicazione con cui Fastweb ci avvisava che l’esternalizzazione era rimandata a gennaio 2013, un addetto alle risorse umane ha fatto visita alle varie sedi assicurandoci che la stessa sarebbe andata a buon fine. Poi hanno smentito loro stessi». Infine viene sollevato un interrogativo: «Nella comunicazione che ci è stata recentemente inviata è scritto che la data di trasferimento delle persone e delle attività appartenenti al ramo sarà ridefinita “al 1° gennaio 2013”. Cosa vuol dire “al”? Che ad inizio anno ci sarà il passaggio a Visiant, o che tutto è ancora incerto e che potremmo ritrovarci addirittura in mobilità o in cassa integrazione?». Una domanda a cui solo le aziende interessate (compresa la Swisscom, proprietaria di Fastweb, il cui silenzio sulla vicenda fa rumore) possono – e devono – dare una risposta.

VUOTI A PERDERE - Dopo gli entusiasmi iniziali, ora anche i sindacati si stanno ricredendo sulla bontà dell’accordo. Tanto che nei giorni scorsi Fistel-Cisl, Slc-Cgil, Uilcom-Uil e Ugl-Telecomunicazioni hanno diramato dei comunicati in cui chiedono all’azienda un «incontro congiunto» per fare il punto della situazione (la Cgil ha fatto addirittura sapere che «ogni violazione dell’accordo sottoscritto il 12 maggio scorso sarà utilizzata per ricorrere alla Magistratura Ordinaria»). Nel frattempo i lavoratori si sono rivolti all’avvocato Ernesto Cirillo che, contattato da Il Punto, ha spiegato: «Si tratta di una delle tante cessioni di ramo d’azienda che sono avvenute in Italia negli ultimi anni. Uno strumento che permette di rendere le società più leggere perché diminuisce il personale e vengono appaltati i servizi alle aziende a cui lo stesso viene esternalizzato. Alla scadenza di questo contratto, nel caso in questione, Fastweb potrebbe dire: “Questa prestazione mi costa troppo, cerco un’altra ditta che mi fa risparmiare”. Il destino dei lavoratori coinvolti, in base a quella che è la storia del fenomeno, è segnato. Tutti i dipendenti Telecom delocalizzati negli ultimi anni sono poi finiti in cassa integrazione o in mobilità. Sono dei vuoti a perdere, che dipendono al cento per cento dalla società cedente e che una volta terminato il contratto fanno venire meno i posti di lavoro». A metà conversazione l’avvocato si sofferma su un punto: «L’accordo non coinvolge i lavoratori di Bari». Il motivo? «Lì si stanno sfruttando fondi regionali e incentivi. Una situazione che ha portato, nel corso di questi mesi, a convergere sul capoluogo pugliese alcune attività che l’azienda non ha inteso cedere. Per il resto era tutto scritto: i bilanci di Visiant presentavano già delle problematiche – afferma Cirillo – ma i sindacati hanno comunque firmato un “accordo di armonizzazione” con l’azienda. Nello stesso, Fastweb, che dovrebbe teoricamente liberarsi dei lavoratori, parla delle attività come fossero le proprie. È una situazione paradossale, e le parti sociali sono state “morbidissime”. Cosa che sta accadendo anche in altre operazioni della stessa natura. L’unica tutela possibile è il ricorso giudiziario, dimostrando che non c’erano i requisiti di legge per formalizzare l’accordo e che non si trattava di un ramo d’azienda che poteva essere “staccato” in maniera autonoma. I lavoratori – conclude l’avvocato – rischiano di pagare un conto salato e di subire vessazioni giornaliere perché gli verrà richiesto uno sforzo produttivo non indifferente». Eppure, ironia della sorte, nei suoi spot Fastweb si dichiara “sempre un passo avanti”.

Twitter: @GiorgioVelardi

Giù il sipario – da “Il Punto” del 2/11/2012

giovedì, novembre 8th, 2012

L’ente lirico di Bari rischia di chiudere i battenti. Il commissariamento, le lotte politiche per il controllo del Teatro e le battaglie sindacali per l’occupazione. Quale futuro per una delle punte di diamante della cultura italiana?

«Dopo essere risorto a distanza di ben diciotto anni dalle ceneri del rogo del 1991, questo teatro sta per morire nuovamente, e stavolta definitivamente, sul braciere di miserabili lotte di potere. Il rischio è che non ci siano vincitori ma una sola vittima. Sarebbe un duro colpo perché stiamo parlando di un patrimonio morale della comunità, il fondamento stesso del suo civismo». Parole, quelle pronunciate a Il Punto da Michele Bollettieri, ex componente del Cda del teatro Petruzzelli di Bari, che fotografano nitidamente la situazione in cui versa al momento una delle punte di diamante della cultura italiana. Diventata però, negli ultimi mesi, una polveriera.

IL COMMISSARIAMENTO - Il Petruzzelli ha riaperto ufficialmente i battenti il 4 ottobre 2009. Nei primi due anni e passa di gestione la Fondazione, diretta da Giandomenico Vaccari, a detta di molti, ha conseguito notevoli risultati sia sotto l’aspetto artistico che del gradimento di un pubblico sempre più numeroso, il quale ha apprezzato con crescente entusiasmo proposte assai qualificate e di forte attrazione (come ad esempio la Tetralogia wagneriana diretta da Stefan Anton Reck e la Carmen diretta da Lorin Maazel). Con l’arrivo del 2012 la situazione è inspiegabilmente precipitata. Il nuovo Cda è apparso subito diviso al suo interno e, quindi, in una condizione di paralisi; da parte di alcuni consiglieri (Regione, Provincia e Ministero) veniva invocata una discontinuità rispetto alla gestione in corso, accusata – più o meno velatamente – di presunte gravi irregolarità. Un “castello accusatorio”, diciamolo subito, che presenta delle macroscopiche falle. Partiamo dal punto più sbandierato: la supposta cifra di 8,5 milioni di euro di debito accumulato fino al 2011 è in realtà sbagliata per eccesso, come – con il tempo – sono stati costretti ad ammettere un po’ tutti e come ha sancito la Corte dei Conti che, nella “Relazione sulla gestione finanziaria delle Fondazioni lirico-sinfoniche per gli esercizi 2007-2010” scrive che «nel 2010 il bilancio di esercizio si è chiuso con un disavanzo pari a euro 1.874.158» e che «la perdita d’esercizio del 2010 è da imputare essenzialmente al minor contributo incassato dallo Stato». Tale disavanzo, peraltro, risulta pienamente coperto dall’apporto di due immobili conferito dal Comune. C’è poi la questione del dopo-Vaccari per la quale, mentre la maggioranza dei consiglieri di amministrazione pretendeva un segnale di rottura, il sindaco di Bari (e presidente della Fondazione) Michele Emiliano e Michele Bollettieri auspicavano una soluzione di continuità. La lettera inviata il 29 febbraio scorso da Emiliano al governatore della Regione, Nichi Vendola, chiarisce la situazione all’interno del consiglio ed il pensiero del Sindaco: «Le irregolarità di cui parla il Ministro non attengono a una presunta cattiva gestione dell’ente o ad assunzioni poco chiare o illazioni simili ma riguardano esclusivamente la mancata nomina del sovrintendente da parte del nuovo Cda. E questa nomina non è stata fatta perché i due consiglieri nominati dal ministero hanno chiesto discontinuità, con l’avallo dei rappresentanti della Provincia e della Regione Puglia».

CAOS DELLE MAESTRANZE - Di qui il commissariamento (peraltro sollecitato dallo stesso sindaco). La “rivoluzione” annunciata da Fuortes si sta, però, trasformando in un boomerang, visto che ora sul Petruzzelli rischia di calare definitivamente il sipario. Il problema più grave riguarda l’orchestra e il coro, i cui contratti non sono stati rinnovati, avendo il commissario deciso di bandire concorsi per questi due settori strategici che prevedono contratti a tempo determinato, senza riconoscere alcuna anzianità di servizio a chi era già nella pianta organica. In seguito, ha fatto ricorso alla singolare modalità del “sorteggio” tra gli iscritti ai concorsi per le recite del Don Giovanni andato in scena con l’accompagnamento del solo pianoforte, tra scioperi e proteste del pubblico che ha disertato la sala. «Ci dicono che il progetto sia quello di creare una Fondazione “leggera”, ma per noi l’occupazione stabile si traduce in qualità produttiva», afferma a Il Punto Silvano Conti, membro del coordinamento nazionale della Cgil. «Al Petruzzelli si voleva e si vuole fare una precarizzazione delle masse artistiche. Fuortes fa dei bandi di concorso a tempo determinato che aggiungono precarietà a precarietà. E pensi che c’è chi cinque anni fa ha creduto così tanto nel progetto da abbandonare un posto di lavoro a tempo indeterminato…». Un pensiero condiviso anche da Maurizio Lefemine, Rsa dell’orchestra del Petruzzelli che aggiunge: «Fuortes non si sta occupando di nulla, se non di rimpiazzare il personale artistico, con concorsi, peraltro, che hanno visto un’affluenza scarsissima e la conseguenza di non riuscire a formare l’orchestra; inoltre ha reso il Petruzzelli “muto” mentre si addensano nubi sulle coperture per garantire i contratti trimestrali promessi, tant’è che ai primi lavoratori scritturati per L’Italiana in Algeri di novembre verrà garantito un contratto a chiamata. È una persona con cui è impossibile interloquire, che è venuto solo a “resettare” la Cgil. Questo commissariamento ha eretto un muro che rende impossibile l’ottenimento dei finanziamenti dal Comune e dalla Regione ed ha allontanato il pubblico», conclude Lefemine.

LA “DANZA” DI VENDOLA - Dopo la faticosa e contestata messa in scena del Don Giovanni, dunque, si annunciano tempi sempre più cupi. Mentre dalla gestione commissariale anche il governatore della Puglia, Nichi Vendola, pare abbia preso decisamente le distanze. In una missiva inviata al ministro Ornaghi il 9 ottobre scorso, il presidente della giunta regionale ha avvisato che «al “riempimento” della pianta organizzativa del Teatro Petruzzelli si debba procedere con assunzioni a tempo indeterminato». Nel frattempo Emiliano ha fatto sapere di aver «dato mandato alla ripartizione Cultura di bloccare i finanziamenti del Comune» (valutando l’ipotesi di restituire il teatro al Ministero e revocando l’incarico alla Fondazione), mentre il pubblico si lamenta «dell’arroganza» con cui è stato stravolto «il programma della stagione», denunciando la «totale assenza di serietà e professionalità». La paura è che questa volta, se chiusura sarà, non si potrà più tornare indietro.

Twitter: @GiorgioVelardi

«Salviamo l’Oro rosso campano» – da “Il Punto” del 20/04/2012

mercoledì, aprile 25th, 2012

L’Italia perde un altro dei suoi pezzi pregiati: la Ar Industrie Alimentari. Sono 225 le persone che rischiano di ritrovarsi senza lavoro dal prossimo 30 giugno, ma con l’indotto si sale a 1.500. Causa: la cessione del 51% della società a Princes Ltd, azienda anglo-nipponica che fa capo a Mitsubishi e che ha fatto sapere di non voler puntare sugli stabilimenti abatesi per spostare tutta la produzione a Foggia

Per i lavoratori della Ar Industrie Alimentari, primo produttore di pomodori pelati in Italia con sede a Sant’Antonio Abate (Na), quella da poco trascorsa non è stata una Pasqua come le altre. Perché ritrovarsi senza lavoro, in tempi di forte crisi economica, è diventato in Italia un problema irrisolvibile. Qual è il motivo che il 30 giugno prossimo costringerà 225 lavoratori (e famiglie) – più l’indotto, che li porta a salire a oltre 1.500 – a cercare una nuova occupazione? La cessione del 51 per cento dell’azienda alla Princes Limited, società anglo-nipponica che fa capo alla Mitsubishi corporation. E la conseguente decisione di chiudere (o riqualificare, secondo le ultime intenzioni dei nuovi vertici) gli stabilimenti campani per affidare la produzione ad un altro opificio, quello di Incoronata, a Foggia, passato dalla gestione di Ar Industrie Alimentari a quella della New company Princes Industrie Alimentari. I lavoratori sono in presidio permanente in attesa che la situazione cambi in positivo. Anche se il futuro appare a tinte fosche.

UNA STORIA LUNGA 50 ANNI – Era il 1962. L’anno in cui nasceva La Gotica, la prima delle tante aziende gestite dall’oggi 81enne Antonino Russo. Gli affari girano – e bene –, tanto che nove anni dopo vede la luce lo stabilimento Ipa di via Buonconsiglio, a Sant’Antonio Abate. Nel 1979, poi, La Gotica viene assegnata ad una nuova società di capitali, la Conserviera Sud S.r.l. Negli Anni ’80 Russo costituisce altre quattro società nel settore delle conserve alimentari, che nel 2000 riunisce in un’unica azienda denominata appunto «Ar Industrie Alimentari S.p.a.». Un colosso nel suo campo: l’ultimo bilancio disponibile, datato 2009, vede ricavi pari a 272 milioni di euro, un margine operativo lordo di 30 milioni e utili per 13,7. Le perdite sono per 127 milioni, in crescita di 35,3 milioni rispetto all’anno precedente. Ecco allora l’idea di vendere la quota di maggioranza alla Princes Ltd (che possedeva già il 7 per cento del capitale azionario), anche per dare – forse – respiro internazionale al gruppo. Che però, a ben vedere, non ne ha bisogno, visto che solo il 20 per cento delle vendite di Ar avviene in Italia e il restante 80 è diviso tra Inghilterra, Francia, Germania e addirittura Africa. Ma c’è un altro passaggio importante nella storia industriale di Russo: l’apertura dello stabilimento di Incoronata, a Foggia, costato circa 80/90 milioni di euro, stanziati da Sviluppo Italia (l’Agenzia nazionale per lo sviluppo d’impresa e l’attrazione degli investimenti). Episodio che è stato oggetto di un “giallo”, ovvero un’interrogazione parlamentare, subito ritirata, da parte del deputato abatese Gioacchino Alfano (Pdl), con la quale nel 2005 si domandava all’allora ministro per le Attività produttive Antonio Marzano di fare luce sul futuro dei lavoratori di Sant’Antonio Abate vista la creazione del nuovo opificio. Marzano e Massimo Caputi, amministratore delegato di Sviluppo Italia, rassicurarono i lavoratori: «Gli stabilimenti abatesi resteranno aperti». Peccato che ora i 225 conservieri rischino di ritrovarsi con un pugno di promesse in mano, e nulla più.         

LA PAROLA AI SINDACATI – «Lo stabilimento di Foggia, che in principio doveva servire per affiancare gli opifici di Sant’Antonio Abate – eravamo stati rassicurati anche da Marzano e Caputi –, ora pare diventerà quello principale. Siamo in attesa di un consiglio regionale per analizzare una situazione in cui le parti sociali non sono state interpellate», dichiara a Il Punto Gennaro Cerchia della Rsu Uil. «Abbiamo appreso la notizia del passaggio di proprietà dai giornali, il 26 marzo scorso. C’è un altro particolare, di cui tenere conto: nel momento in cui noi abbiamo chiesto l’apertura di un tavolo di trattativa ai nuovi proprietari della Ar, sono state spedite le lettere ai dipendenti per avvisarli che la lavorazione del pomodoro sarebbe cessata. Non è possibile che uno stabilimento che fattura oltre 200 milioni di euro venga chiuso – prosegue Cerchia –, e che la comunicazione arrivi con così poco preavviso». Ma la Newco sembra intenzionata a riqualificare lo stabilimento in un pastificio: «Fare una riconversione del genere non ha senso. Anche perché a pochissimi chilometri da noi c’è Gragnano, dove ci sono dieci pastai. A mio parere si tratta semplicemente di una presa in giro». Sulla stessa lunghezza d’onda anche Nicola Ricci, segretario generale Flai-Cgil a Napoli: «Ciò che colpisce è che di fronte ai sindaci dell’area, alla Regione e al Prefetto, l’azienda abbia confermato che il progetto non cambia di una virgola. Si chiudono i siti campani e si lascia attivo solo quello pugliese. La cosa grave è che si viene a sapere della presenza di un finanziamento pubblico dell’Isa (Istituto Sviluppo Agroalimentare, la società finanziaria con socio unico il ministero delle Politiche agricole, ndr) per un totale di 66 milioni di euro in due tranche, che serviranno solo per rafforzare Foggia. Sull’area campana si chiudono i siti, e l’unica proposta è la procedura di mobilità. Ovvero dei licenziamenti di massa. Si fa macelleria sociale». E ai sindacati (come confermato proprio da Ricci) non è stato ancora consegnato alcun documento ufficiale da parte dei nuovi numeri uno della Ar. Emilio Saggese (Uila Napoli) afferma invece: «Gli ultimi dati dicono che nella zona del napoletano si concentra l’80 per cento dei fallimenti della Regione Campania. Fare la guerra tra poveri, delocalizzando tutto a Foggia – dove fra l’altro si lavorerà stagionalmente, cioè solo tre mesi l’anno. Di questo dovrebbe rispondere anche la Regione Puglia – e lasciando a piedi i lavoratori abatesi è un giochino che a noi ovviamente non piace».

IL SOSTEGNO DI BARBATO – Chi perora la causa dei lavoratori della Ar Industrie Alimentari è il deputato dell’Italia dei Valori Francesco Barbato, che ha deciso di passare la Pasqua a Sant’Antonio Abate. «Si tratta dell’ennesimo scandalo di industriali che non fanno più il loro mestiere perché preferiscono fare attività speculativa e finanziaria», dice Barbato a Il Punto. «Più che di imprenditori bisognerebbe parlare di “prenditori”, perché questi intascano finanziamenti pubblici regionali, statali ed europei facendo saltare un intero reparto conserviero, vero “oro rosso” della Campania. Questa classe di imprenditori è poi accompagnata da una scarsa politica industriale, cominciata con il precedente governo Berlusconi e proseguita con quello Monti». Barbato assicura che porterà il caso in Parlamento: «Sto per depositare un’interrogazione per fare luce su questa vicenda, per difendere ad ogni costo gli oltre 220 lavoratori che hanno visto avviata la procedura di mobilità».

LA CONDANNA – Come se non bastasse, all’inizio del mese il numero uno di Ar Industrie Alimentari Antonino Russo è stato condannato dal tribunale di Nocera Inferiore a quattro mesi e al pagamento di 6 mila euro di multa per aver venduto pomodoro cinese spacciandolo come prodotto made in Italy. Le indagini, svolte dai Nac (Nucleo Antifrodi Carabinieri) di Salerno, sono cominciate nell’ottobre del 2010 con il sequestro di 500 tonnellate di pomodoro etichettato «Ar Industrie Alimentari» ma soggetto in realtà a contraffazione. Decisiva, dopo che nel novembre 2010 il tribunale del Riesame di Salerno aveva accolto la richiesta dei legali di Russo disponendo il dissequestro dei beni, è stata la consulenza tecnica del Professor Paolo Masi, preside della Facoltà di Agraria dell’Università Federico II di Napoli. Contattato da Il Punto, Masi ha spiegato: «Si è trattato di un parere basato sulla tecnologia di lavorazione del prodotto. Nel caso in questione, risalente a fine 2010, si parlava di un’importazione di triplo concentrato proveniente dalla Cina, che veniva diluito e ripastorizzato per poi essere inscatolato come doppio concentrato ed etichettato come made in Italy. Quanto sostenuto dalla difesa dell’imprenditore – prosegue Masi – è che il prodotto era sì fatto con materie prime non italiane, ma la lavorazione fondamentale avveniva sul suolo italico e quindi era da considerarsi di produzione interna. Nella mia relazione ho dimostrato che questa lavorazione effettuata nel nostro Paese altro non era che una semplice operazione che serviva a ristabilizzare il prodotto che era stato diluito, ma che non cambiava le sue caratteristiche e anzi le peggiorava, perché il danno termico veniva aumentato». Ma la Ar Industrie Alimentari non è l’unica ad utilizzare pomodori provenienti dal colosso asiatico: «In Italia l’impiego di pomodori cinesi inizia trent’anni fa. I “problemi” nascono quando i prodotti che arrivano da questo Paese hanno cominciato ad essere demonizzati. Attenzione, perché fra l’altro non parliamo neanche di pomodori ma di semilavorati: il loro trasporto dalla Cina all’Italia avrebbe dei costi esorbitanti e i prodotti arriverebbero qui già marci. Da tecnologo alimentare non demonizzo nulla: certo è che quando vedo scritto made in Italy ma in realtà così non è credo sia giusto parlare di “truffa”».

Twitter: @GiorgioVelardi     

Sono un lettore del “Corriere della Sera”, e voglio che domani il mio giornale sia in edicola

lunedì, settembre 5th, 2011

Domani, martedì 6 settembre 2011, avverrà qualcosa a cui difficilmente abbiamo già assistito. Un quotidiano, anzi il quotidiano più importante ed autorevole del panorama giornalistico italiano, non sarà in edicola. Per volontà diretta del segretario generale della Cigl, Susanna Camusso, il Corriere della Sera (ma anche la Gazzetta dello Sport, altro quotidiano del gruppo RCS) non verrà stampato. In prima persona, il numero uno di Corso d’Italia ha fatto in modo che i poligrafici iscritti al suo sindacato incrociassero le braccia (domani, lo ricordiamo, c’è lo sciopero indetto dalla Confederazione Generale Italiana del Lavoro per protestare contro la manovra del Governo), provocando la reazione sdegnata di Ferruccio De Bortoli. Il direttore del Corriere, con un fondo pubblicato questa mattina sul quotidiano, ha spiegato ai lettori i motivi per cui domani non potranno sfogliare il giornale (http://www.corriere.it/economia/11_settembre_05/de-bortoli-sciopero-generale-commento-camusso_cdd55aea-d77b-11e0-af53-ed2d7e3d9e5d.shtml).

Un fatto grave, che lascia amarreggiati soprattutto perchè dalla bocca di sindacalisti ed esponenti dell’intellighenzia di sinistra arrivano spesso – e a volte senza giusta causa – proclami a favore della tanto decantata libertà di stampa. Per carità, scioperare è un diritto sancito dalla nostra Costituzione (art. 40), ma è altrettanto giusto poter fruire del proprio organo di stampa senza che un leader sindacale intervenga direttamente in situazioni di questo genere. E in questa occasione pare sinceramente essere di fronte ad un capriccio della Camusso. Il Corriere della Sera è un quotidiano nazionale, scevro da interessi di parte o in mano a qualsivoglia partito politico. Per carità, in passato ha appoggiato indirettamente questa o quella parte politica. Ma va ricordato come nessun giornale, neanche in quel tanto decantato “paradiso” anglosassone, sia privo di interessi. I giornalisti sono, prima di tutto, cittadini ed elettori, ed hanno una loro posizione. Che può essere consona o meno alla linea editoriale del giornale per cui scrivono, poi è la loro professionalità che fa il resto. Criticare è, dunque, un loro sacrosanto diritto. Senza offendere, per carità, e questo il Corriere non lo ha fatto. Se ha espresso posizioni critiche nei confronti della Cgil, in questi giorni, non ha sbagliato, perchè è quello che la stampa deve fare. E se non lo facesse ci lamenteremmo del contrario.

Domani verrà messo un bavaglio all’informazione. Un bavaglio vero, perchè se la legge sulle intercettazioni è ancora in fase embrionale e le telefonate possono ancora essere ascoltate e pubblicate, il fatto che domani il quotidiano di Via Solferino non esca è certo al cento per cento. Nel corso del pomeriggio, su Facebook, sono nate due pagine per “protestare” contro quanto accadrà domani. A margine di questo articolo troverete gli indirizzi: iscritevi numerosi, mi raccomando.

In conclusione vorrei far notare come nessun esponente di quella che prima ho definito “intellighenzia di sinistra” abbia espresso il suo punto di vista. Quando Michele Santoro vedeva minato il suo programma, quell’”Annozero” che sembra più “La Corrida” che un talk show politico, la mobilitazione è stata generale. Parafrasando le parole pronunciate dall’ormai ex istrione di Viale Mazzini, dico: “Sono un lettore del Corriere della Sera, e voglio che domani il mio giornale sia in edicola“.

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