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Palazzo Chigi, Finanza al Dipartimento per le Politiche della famiglia: esternalizzazioni dei servizi nel mirino

venerdì, marzo 4th, 2016

Martedì i militari delle Fiamme Gialle hanno acquisito documenti su ordine della Procura regionale della Corte dei Conti. Che indaga su possibili danni erariali legati all’affidamento di alcuni lavori a società esterne alla struttura della presidenza del Consiglio tra il 2011 e il 2013. Anni in cui governavano Silvio Berlusconi, Mario Monti ed Enrico Letta. Nel mirino, tra le altre cose, le commesse a Invitalia e Formez Pa. La polizia tributaria ha fatto visita anche al dipartimento della Gioventù

palazzo-chigi-675Sono giorni intensi per il nucleo della polizia tributaria della Guardia di Finanza. Martedì, oltre al Campidoglio, gli uomini del gruppo Tutela spesa pubblica hanno fatto addirittura visita al Dipartimento per le Politiche della famiglia della Presidenza del Consiglio. Per svolgere una serie di “accertamenti istruttori”, delegati dalla Procura regionale della Corte dei Conti del Lazio, volti all’acquisizione di atti e documenti relativi ad alcuni servizi esternalizzati dallo stesso dipartimento. Richieste analoghe a quelle che i militari delle Fiamme Gialle hanno notificato, nelle stesse ore, anche al dipartimento della Gioventù e del Servizio civile nazionale. L’obiettivo è quello di verificare l’esistenza di danni erariali.

Ma cosa sono andati a fare esattamente i finanzieri in via della Ferratella in Laterano (Roma), sede del Dipartimento della Famiglia? Sotto la lente d’ingrandimento, secondo quanto risulta a ilfattoquotidiano.it, una serie di convenzioni stipulate dal dipartimento stesso con alcune società ed enti nel biennio 2011/2013. Cioè quando a Palazzo Chigi si sono alternati Silvio BerlusconiMario Monti ed Enrico Letta. A cominciare da quella con Invitalia Spa, l’Agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa, società partecipata al 100% dal ministero dell’Economia. Con la quale, il 15 giugno 2011, è stata stipulata una convenzione per l’affidamento di attività di studio e ricerca “nel campo delle azioni intraprese e da intraprendere nell’ambito delle iniziative di conciliazione rientranti nelle competenze del dipartimento”. In questo caso, le Fiamme Gialle hanno richiesto documenti comprovanti l’esigenza di esternalizzare attività rientranti nelle competenze del dipartimento. Ponendo, in pratica, un quesito: perché affidare il compito all’esterno se poteva essere svolto utilizzando le risorse interne?

Andiamo avanti. Altro capitolo d’indagine quello che riguarda la Fondazione di Comunità del Centro Storico di Napoli la quale, come si legge sul suo sito, è stata costituita l’8 marzo del 2010 “con l’obiettivo di promuovere la cultura del dono al fine di migliorare la qualità della vita nel territorio del Centro Storico di Napoli”. Con l’ente in questione, il 21 dicembre 2012 il Dipartimento per la Famiglia ha stipulato una convenzione per la realizzazione di un’indagine che individuasse gli strumenti più efficaci per il superamento del disagio infantile nelle grandi aree metropolitane degradate con particolare attenzione alle condizioni dei bambini, figli delle famiglie immigrate. Al costo di circa 43 mila euro (Iva inclusa). Come nel caso precedente, gli uomini del nucleo della polizia tributaria hanno chiesto all’amministrazione di produrre documenti che chiariscano i motivi per i quali il Dipartimento abbia deciso di affidare l’attività d’indagine ad un ente esterno.

L’8 giugno 2012, invece, il dipartimento ha sottoscritto un altro accordo su cui la Corte dei Conti vuole vedere chiaro. Cioè quello con il Centro ricerche sociali (Crs), al fine di realizzare un’indagine di analisi e interpretazione di dati, acquisiti dall’Istat, attraverso la ricostruzione delle strategie adottate dalle famiglie per tutelare il proprio benessere in relazione ai compiti di cura nei confronti dei figli. Stavolta l’importo complessivo è di poco superiore ai 23 mila euro. Perché non fare analizzare i suddetti dati all’Istituto di statistica, hanno chiesto magistrati contabili e Fiamme Gialle? Quesito analogo posto anche in relazione all’accordo fra il Dipartimento per la Famiglia e Rea Sas. A questa società, il 7 maggio 2012, è stata affidata l’analisi della struttura e delle tendenze demografiche delle famiglie e la definizione del quadro teorico di riferimento, che fa da premessa allo studio del materiale statistico raccolto tramite rilevazione Istat. Costo: 23 mila euro circa (Iva inclusa).

Non è tutto. Con il Formez Spa, il centro studi che risponde al ministero della Funzione pubblica guidato da Marianna Madia, il dipartimento della Famiglia ha stipulato una convenzione il 27 febbraio 2012 (poi prorogata senza oneri aggiuntivi). Accordo finalizzato a supportarlo nell’attuazione del progetto denominato “Valutazione e sostegno per le politiche famigliari”, il tutto per 500 mila euro. Anche in questo caso, i militari vogliono capire, documenti alla mano, come mai siano state esternalizzate attività rientranti nelle competenze del dipartimento. Come accaduto anche per la realizzazione di uno studio di fattibilità finalizzato all’introduzione del telelavoro nelle strutture della Presidenza del Consiglio, affidato il 30 novembre 2012 alla Antares Srl. Una spesa di circa 37 mila euro. Alla quale ne va aggiunta un’altra da circa ottomila euro per un incarico conferito ad un professionista in data 18 aprile 2013. Ora il dipartimento avrà tempo fino al prossimo 16 marzo per fornire i documenti richiesti dalle Fiamme Gialle.

(Articolo scritto il 3 marzo 2016 con Antonio Pitoni per ilfattoquotidiano.it)

Occupazione femminile, Italia ai margini. Scenari e soluzioni per uscire dall’impasse – da “Il Punto” del 25/01/2013

mercoledì, gennaio 30th, 2013

donne-300x183L’ultimo, terribile bollettino Istat riguardante “Occupati e disoccupati” in Italia (pubblicato l’8 gennaio scorso ma riferito a novembre 2012) esplicita in maniera netta quanto la differenza di genere sia ancora elevata nel nostro Paese. Nel penultimo mese dello scorso anno, infatti, il tasso di occupazione delle donne di età compresa fra i 15 e i 64 anni si attesta al 47,3%, contro il 66,3% degli uomini; quello di disoccupazione è del 12% per la componente femminile contro il 10,6% di quella maschile mentre il tasso di inattività fra i 15 e i 64 anni è del 46,3% nel primo caso e del 25,8% nel secondo. Il dato peggiore è però quello che riguarda l’intero anno. Perché, scrive l’Istituto nazionale di statistica, «a novembre l’occupazione maschile cala dello 0,2% in termini congiunturali e dell’1,5% su base annua», mentre quella femminile «cala dello 0,2% rispetto al mese precedente, ma aumenta dell’1,7% nei dodici mesi». Tradotto: in Italia sono le donne ad aver pagato – e a continuare a pagare – il prezzo più alto della crisi. A fotografare questa difficile situazione non ci sono solamente i dati resi noti poc’anzi, ma anche quelli che arrivano dal “Global Gender Gap Report 2012”. Rispetto al 2011, rivela il rapporto internazionale sul divario di genere, l’Italia ha perso sei posizioni nella graduatoria relativa alle disuguaglianze di genere. Su un totale di 135 Paesi finiti sotto la lente di ingrandimento del World Economic Forum, il nostro Paese si piazza all’ottantesimo posto, scendendo addirittura al centunesimo se si fa riferimento alla partecipazione e alle opportunità economiche delle donne. Scenario che si riflette, ovviamente, sulle retribuzioni e sulle possibilità di carriera delle lavoratrici. Un’analisi effettuata dall’Inps mette in luce il fatto che se per un lavoratore dipendente nel settore privato di sesso maschile la retribuzione media è di 30.246 euro lordi annui, per uno di sesso femminile – a parità di condizioni – la cifra scende a 21.678 euro.

Una difficoltà che non riguarda solo le donne italiane, certo. Ma, come troppo spesso capita, in questi anni di crisi il Belpaese ha visto aumentare il problema in maniera esponenziale. È così che, secondo l’ufficio statistico dell’Unione europea, il tasso di occupazione delle donne senza figli di età compresa fra i 25 e i 64 anni in Italia è pari al 63,9%, contro una media continentale del 75,8% (in Germania si arriva addirittura all’81,8%). Le donne italiane non vivono una situazione di squilibrio solo all’interno del contesto lavorativo. Anche fra le mura domestiche esse lavorano complessivamente il doppio degli uomini, come testimonia una ricerca – dal titolo “Un dito fra moglie e marito” – condotta da Andrea Ichino, docente di Economia politica all’Università di Bologna. «Si tratta di uno studio innovativo perché si basa su domande rivolte a entrambi i membri della coppia, chiedendo a ciascuno di rispondere per sé e per il proprio partner in modo che le risposte di un partner servono a verificare quelle dell’altro», spiega Ichino. Cosa scaturisce dall’analisi? Primo: che i compiti familiari sono allocati in maniera squilibrata. Sommando il lavoro in casa e fuori, le donne lavorano complessivamente circa 30 minuti in più al giorno; secondo: che questa situazione non genera né benessere né soddisfazione per le donne, le quali hanno comunque una maggiore propensione al cambiamento rispetto agli uomini; terzo: che il potere contrattuale degli uomini continua ad essere superiore e che di fronte ad un’offerta di lavoro irrinunciabile le donne trovano minore disponibilità del partner ad essere sostituite nei lavori domestici. Quale potrebbe essere la soluzione per uscire dall’impasse? «La detassazione dei redditi da lavoro femminile è un intervento auspicabile – aggiunge Ichino –. Nel lungo periodo essa favorisce un cambiamento dei rapporti di forza in famiglia, accelerando il riequilibrio tra i sessi con un guadagno complessivo di benessere per la collettività». Proprio per uscire da una situazione complessa si susseguono iniziative volte a reinserire e riqualificare le donne all’interno del mondo del lavoro.

Una di queste è “Vasi comunicanti”, progetto sperimentato in 24 Comuni delle province di Roma e Latina e che si appresta ad essere “esportato” su tutto il territorio nazionale. Cofinanziato da Unione europea e Regione Lazio, “Vasi comunicanti” ha fornito alle partecipanti la possibilità di svolgere tirocini in azienda (76 in tutto quelli attivati in 53 società ospitanti), avere una formazione professionale continua e poter creare nuove imprese al femminile (8 in totale, costituite grazie a finanziamenti a fondo perduto), conciliando i tempi vita-lavoro. Tre le parole chiave del progetto: occupabilità, flessibilità e professionalità. E così Filomena, Maura, Angela e tante altre sono tornate a sperare in un futuro a tinte meno fosche. Un piccolo bagliore di speranza in un’Italia ancora a trazione maschile.

Twitter: @mercantenotizie

I finti problemi, e quella parola ormai svuotata del suo originale significato

venerdì, giugno 1st, 2012

Come al solito ci siamo fatti fregare dalla retorica. E quindi è partita la nostra battaglia contro la sfilata delle forze armate di domani. Non capendo che il problema non è l’evento in quanto tale. Piuttosto, è cosa andiamo a festeggiare. Qualcuno – Capo dello Stato compreso – si è mai chiesto se ha ancora senso definire l’Italia una «Repubblica»? Facciamo un solo esempio: l’articolo numero 1 della Costituzione («L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione»). Ecco: «democrazia» vuol dire «governo del popolo». E nel 1994, con un referendum, avevamo detto «basta» al finanziamento ai partiti. Che sono usciti dalla porta, e rientrati dalla finestra sotto forma di «rimborsi elettorali». E’ il primo esempio che mi viene in mente, in questo momento il più significativo (credo).

Ancora: «L’Italia è fondata sul lavoro». Ma quale? I dati Istat di oggi indicano che nel primo trimestre del 2012 la disoccupazione ha toccato quota 10,9% (per i giovani 35,9%), in rialzo di 2,3 punti percentuali su base annua. «È il tasso più alto dal primo trimestre 1999, e al Sud una giovane donna su due non lavora», aggiunge l’Istituto di statistica. Bene, e siamo solo all’articolo 1. Per non ammorbarvi, cito solo alcuni altri articoli ormai caduti in disuso: il 3 («Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge»); il 9 («La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica»); l’11 («L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali»); il 21 («Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione»); il 32 («La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti»); il 38 («La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore»).

Mi fermo qui, penso basti. Ciò che dobbiamo fare, dunque, non è guardare i finti problemi. Ma quelli veri, reali. Scadiamo sempre (sempre) in parole inutili, in editoriali di giornalisti di alto rango vuoti, in considerazioni senza un fine preciso. Ecco, interroghiamoci su cosa sia piuttosto oggi questo Paese. Chissà se i nostri padri costituenti lo avevano pensato così, per noi. Direi di no. Pace all’anima loro.

Twitter: @GiorgioVelardi

Fotografia allarmante (che nessuno vuole vedere)

martedì, maggio 24th, 2011

La fotografia dell’Italia fornita ieri dall’Istat deve far riflettere. Malgrado il ministro Brunetta, dalle colonne del “Corriere della Sera“, provi a ridimensionare il problema parlando di “cause strutturali” (quali?) che hanno portato a questa situazione, la notizia è che un italiano su 4 (il 25%) è a rischio povertà. Un dato che fa il paio con quanto affermato sabato da “Standard & Poor’s” (“Le attuali prospettive di crescita dell’Italia sono deboli, e l’impegno politico per riforme che aumentino la produttività sembra incerto“), commento bollato però da Cisl e Uil come “poco attendibile, perchè formulato da un’agenzia che ha più volte sbagliato le sue previsioni“. Se ci pensate, di fronte a tutto ciò, il controsenso sta nel fatto che ad ottobre Mario Draghi diventerà il nuovo Governatore della Banca centrale europea.

Il quadro, per certi versi drammatico, vede l’Italia dietro ad altri paesi europei, quali Germania (tasso di povertà pari al 20%) e Francia (18,4%). Nel rapporto si legge come lo scorso anno il 5,5% delle famiglie abbia dichiarato di non aver avuto soldi per comprare il cibo, l’11% non ha potuto acquistare le medicine, il 17% i vestiti. L’elemento (anzi, gli elementi) su cui porre l’attenzione, è che ad essere maggiormente colpiti siano gli abitanti del Sud del paese (sintomo del fatto che alla “Questione Meridionale” sembra non esserci soluzione), le donne e i giovani. In quel 25% sopracitato, il 57% (quindi 8 milioni di persone) vive nel Meridione. Più di una donna su 5 sostiene poi di aver dovuto lasciare il posto per motivi familiari, mentre sono 800.000 quelle che sono state licenziate perchè rimaste incinta.

C’è poi, come detto, il capitolo giovani. La crisi ha colpito anche e soprattutto loro, tanto che negli ultimi anni, nella fascia compresa fra i 15 e i 29 anni, si contano la bellezza di 501.000 posti di lavoro in meno. In questo contesto non va dimenticato il fenomeno dei “neet“, ovvero coloro che non studiano né lavorano, saliti a quota 2,1 milioni nel 2010, con un incremento di quasi il 7% rispetto all’anno precedente.

In questi giorni le televisioni sono invase dai “marchettoni” elettorali dei candidati alle poltrone di sindaco di città come Milano e Napoli. Ciò che questo paese chiede ai suoi governanti è solo più serietà e concretezza, e meno propaganda. Le multe, se continua così, non le pagheremo non perchè ce le tolgono, ma perchè non avremo più un euro in tasca.