Image 01

Posts Tagged ‘Paola Severino’

Qui scoppiano le carceri

martedì, marzo 5th, 2013

Condannati-preventivi-300x200Ci sono due problemi, in Italia, invisibili ai più: quello della carcerazione preventiva e del sovraffollamento dei penitenziari. Temi che hanno spinto Annalisa Chirico, giornalista e membro del Comitato nazionale dei Radicali Italiani, a scrivere Condannati preventivi – Le manette facili di uno stato fuorilegge (Rubbettino, 10 euro, pp. 150).

Questo libro squarcia il velo di Maya su tematiche che,malgrado la gravità della situazione, sembrano lasciare indifferenti. Com’è nata l’idea di affrontarlo?

«Mi capita spesso di visitare i penitenziari italiani. L’idea di scrivere un libro che si focalizzasse sul problema della carcerazione preventiva e che raccontasse le storie di persone più o meno note incappate nelle sue maglie è nata da una visita in carcere all’Onorevole Alfonso Papa nell’ottobre 2011. Ho seguito la sua vicenda e dopo le pronunce dellaCassazione, che hanno smontato l’impianto accusatorio a suo carico, ho deciso di parlare di chi è in prigione senza una sentenza di condanna definitiva. Nelle celle “illegali” italiane quasi un detenuto su due è in attesa di giudizio. Non a caso di recente la Corte di Strasburgo è tornata a sanzionare il nostro Paese…».

Il caso Tortora pare non averci insegnato nulla…

«Dalle campagne di Toni Negri ed Enzo Tortora degli Anni ‘80, fino ad oggi, sul tema della carcerazione preventiva niente è cambiato. Con la riforma del Codice di procedura penale ci sono stati dei ritocchi legislativi, che si sono però accompagnati ad uno sfasamento tra la norma scritta e la prassi. Di fatto la carcerazione preventiva è diventata un antidoto all’irragionevole durata dei processi. Si tratta di una perenne violazione della Costituzione che non crea scandalo neanche fra i più ferrei difensori della nostra Carta».

In Condannati preventivi le storie di detenuti illustri si alternano a quelle di gente comune. Qual è quella che l’ha colpita di più?

«Sicuramente la storia di Adriana, una badante romena che prestava assistenza ad una vedova ottantenne di Albano Laziale. A gennaio 2008 l’anziana muore e lei viene accusata di omicidio, scontando tre anni di carcere preventivo. Al processo d’appello Adriana viene assolta perché il fatto non sussiste. Motivo? La donna non era morta di percosse ma d’infarto, il che si sarebbe potuto capire con una perizia fatta ad arte in primo grado; invece i periti nominati dall’accusa e gli errori macroscopici commessi hanno mandato in galera un’innocente. Ciò testimonia che la giustizia italiana sta diventando un “manicomio”, visto che ci troviamo con 9 milioni di procedimenti pendenti e 130mila prescrizioni nell’anno appena concluso. Il nostro è un sistema in cui i magistrati sono l’unica categoria che non ha nessun tipo di responsabilità».

Entrambi i provvedimenti del ministro Severino, “Salva-Carceri” e “Svuota-Carceri”, si sono rivelati fallimentari. Si aspettava di più dal governo tecnico?

«Avrebbe dovuto fare di più,non soltanto nell’ambito della giustizia ma anche in quello dell’economia. Dal deludente decreto sulle liberalizzazioni c’è stata la metamorfosi politica di un esecutivo che grazie al ministro Severino ci ha insegnato cosa sono i “provvedimenti spot”. L’unico punto su cui ha agito è stato quello delle porte girevoli, ma per tutto il resto si è cercato di svuotare le carceri con un cucchiaino e si è privata di 27milioni di euro la legge Smuraglia sul lavoro dei detenuti. E anche in tema di responsabilità civile dei magistrati c’è stato un totale immobilismo».

Crede che con il prossimo governo, di qualsiasi colore esso sia, ci sarà una svolta?

«Temo di no perché nel nuovo Parlamento non ci saranno i Radicali e perché non vedo persone disposte a portare avanti una campagna di civiltà e libertà per un sistema carcerario rispettoso della dignità umana. La politica non mi sembra in grado di opporre a movimenti“giustizialisti”come quelli di Grillo e Ingroia una cultura liberale ossequiosa del principio della presunzione di innocenza».

Twitter: @mercantenotizie

Le bugie di Severino sulle carceri

giovedì, gennaio 24th, 2013

paola-severino-Ogni volta che leggo una dichiarazione del ministro della Giustizia Paola Severino che riguarda le carceri mi domando su che pianeta viva. L’ultima, pronunciata all’Assemblea del Consiglio d’Europa martedì 22 gennaio, recita così: «Nonostante le ristrettezze delle risorse disponibili il governo Monti ha ampliato le strutture carcerarie per far fronte al sovraffollamento dei detenuti.  Già nel 2012 sono stati consegnati 3.178 nuovi posti, cui se ne aggiungeranno 2.382 entro il mese di giugno di quest’anno».

Ci dispiace deluderla, ministro, ma davvero di questo incremento di posti non ce ne siamo accorti. Non sarà che i numeri sono stati alterati? Per rispondere è utile ricordare quanto scrive Antigone, una delle associazioni che in Italia si occupano dell’emergenza carceraria e dell’abuso della carcerazione preventiva (il 40,1% dei detenuti è in attesa di giudizio, contro una media dei Paesi del Consiglio d’Europa del 28,5%), nel IX Rapporto nazionale sulle condizioni di detenzione.

«Al 31/12/2009 la capienza regolamentare delle nostre carceri era di 44.073 posti», scrive Antigone. «Secondo i dati ufficiali del 31/10/2012 la capienza regolamentare complessiva è di 46.795 posti. La notizia però incredibile è che il 31/08/2012, due mesi prima, la capienza degli istituti era di 45.568 posti. Da agosto il numero degli istituti è rimasto lo stesso in ogni regione, ma in Calabria ci sarebbero 263 posti in più, in Umbria 196 e in Lombardia addirittura 661 in più. A noi – aggiunge l’associazione – non risulta però l’apertura di nuove carceri, né di nuovi padiglioni in vecchie carceri, né in Calabria né in Umbria e né in Lombardia. A che gioco giochiamo?».

Già: chi cosa stiamo parlando? Del nulla. Quello delle carceri è un problema ancestrale, ignorato per anni dai nostri governanti. Se n’è occupato, e lo fa tutt’ora con costanza, un unico partito: i Radicali. I quali, però, rimarranno probabilmente fuori dal prossimo Parlamento. Cambiare tutto per non cambiare niente, dunque. In pieno stile gattopardesco.

Sotto questo punto di vista, nell’anno passato alla guida del Paese, il governo Monti ha fatto il minimo sindacale. I provvedimenti della Guardasigilli, che pure portavano nomi ambiziosi (“Salva-Carceri” e “Svuota-Carceri”), si sono rivelati fallimentari. Di più: la spending review è stata una mannaia per il cosiddetto “Piano-carceri” (datato 2010, anno in cui l’allora governo Berlusconi dichiarò lo «stato d’emergenza»), che avrebbe dovuto garantire la realizzazione di 9.150 nuovi posti letto grazie ad uno stanziamento di 675 milioni di euro. Cos’è successo, invece? Che l’esecutivo tecnico ha ridotto la cifra di ben 228 milioni.

Passi il fatto di essere in campagna elettorale e di dover “bere”, senza filtro, qualsiasi cosa viene detta ai cittadini. Ma i freddi numeri, quelli che – scherzo del destino – hanno portato all’insediamento dei Professori, parlano chiaro. Sono inoppugnabili. E raccontano una realtà diversa da quella descritta dalla Severino. Ministro, la prego: abbia rispetto non tanto per noi, quanto per i detenuti. Glielo deve.

Twitter: @mercantenotizie

Dignità perduta – da “Il Punto” del 30/11/2012

martedì, dicembre 4th, 2012

Dal fallimento del “Piano carceri” a quello delle due leggi in materia, “Salva-carceri” e “Svuota-carceri”. La relazione annuale dell’associazione Antigone rivela come l’Italia sia maglia nera in Europa per affollamento dei propri penitenziari. E il Dap deve fare i conti con la mannaia della spending review

Nel 1947, quando redassero la Costituzione, all’articolo 27 i membri dell’Assemblea scrissero: «La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte». Eppure, in barba a quanto afferma uno dei più importanti dettami della nostra Carta, la situazione dei detenuti italiani è da brivido. Lo rivela, ancora una volta, il “Rapporto nazionale sulle condizioni di detenzione” di Antigone, l’associazione nata sul finire degli Anni ’80 e presieduta da Patrizio Gonnella che promuove elaborazioni e dibattiti sul modello di legalità penale e processuale.

MAGLIA NERA IN EUROPA - Significativo è, prima di tutto, il titolo del Rapporto: “Senza dignità”. Il perché lo si capisce leggendo il dato maggiormente rilevante fra quelli pubblicati: l’Italia è il Paese con le carceri più sovraffollate dell’Unione europea, visto che il tasso di affollamento è del 142,5% (cioè oltre 140 detenuti per ogni 100 posti). Lo scorso 22 novembre, intervenendo alla 17esima conferenza dei Direttori di amministrazione penitenziaria, il ministro della Giustizia Paola Severino ha dichiarato che «le percentuali di sovraffollamento sono abbastanza simili in tutta Europa». In realtà così non è, perché la media europea di affollamento carcerario è del 99,6% mentre in Italia, come visto poc’anzi, siamo ben oltre questa soglia. E, particolare forse peggiore, dal 13 gennaio 2010 – giorno in cui il governo allora presieduto da Silvio Berlusconi dichiarò lo stato di emergenza – i detenuti sono aumentati di 1.894 unità, passando da 64.791 a 66.685 (dato aggiornato al 31 ottobre 2012). Nel suo Rapporto, Antigone pone poi l’attenzione sulla capienza “reale” dei 206 istituti penitenziari italiani. «Al 31/12/2009 la capienza regolamentare delle nostre carceri era di 44.073 posti – scrive l’associazione –. Secondo i dati ufficiali del 31/10/2012 la capienza regolamentare complessiva è di 46.795 posti. La notizia però incredibile è che il 31/08/2012, due mesi prima, la capienza degli istituti era di 45.568 posti. Da agosto il numero degli istituti è rimasto lo stesso in ogni regione, ma in Calabria ci sarebbero 263 posti in più, in Umbria 196 e in Lombardia addirittura 661 in più. A noi – aggiunge Antigone – non risulta però l’apertura di nuove carceri, né di nuovi padiglioni in vecchie carceri, né in Calabria né in Umbria e né in Lombardia. A che gioco giochiamo?». La maggior parte dei 66.685 detenuti sono uomini – le donne rappresentano il 4,2 per cento del totale (2.857) –, mentre cospicua è anche la presenza di detenuti stranieri, che sono il 35,6 per cento del totale (23.789).

RUBINETTI CHIUSI - A cosa è dovuto il sovraffollamento carcerario italiano? Principalmente al regime di custodia cautelare. Il 40,1% dei detenuti (26.804 in termini reali) è infatti in attesa di giudizio. Anche in questo caso si tratta di un primato tutto italiano. La media dei Paesi del Consiglio d’Europa è del 28,5%, ma ciò che colpisce è l’andare a vedere quanto quegli Stati più vicini all’Italia sotto l’aspetto socio-economico siano in realtà distanti anni luce sull’argomento. In Germania i detenuti in custodia cautelare sono il 19,3%, in Inghilterra e Galles il 15,3, in Francia il 23,7 e in Spagna il 19,3. C’è di più: nel 2007, anno in cui la presenza media giornaliera era di 44.587 detenuti, il bilancio a disposizione del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) ammontava a 3.095.506.362 euro. Quattro anni più tardi, con 22.587 unità in più, lo stesso è stato tagliato del 10,6 per cento (2.766.036.324). Fra l’altro, i tagli non sono stati omogenei: i settori che ne hanno pagato maggiormente le conseguenze sono quello degli investimenti (calato del 38,6%), dell’assistenza, della rieducazione e del trasporto dei detenuti (-63,6%). La mannaia della cosiddetta spending review ha colpito anche uno dei baluardi del necessario cambio di rotta, il “Piano carceri”, che prese forma dopo la dichiarazione dello stato di emergenza. In pratica, il piano disponeva di 675 milioni di euro utili alla realizzazione di 9.150 nuovi posti letto (i soldi provenivano dalla Cassa delle Ammende, l’ente pubblico istituito presso il Dap nel 1932 e amministrato dal ministero della Giustizia). Dopo la caduta del governo Berlusconi, quello del successore Mario Monti ha ridotto la cifra a disposizione di 228 milioni di euro rispetto a quelli previsti originariamente. La sostanza è però sintetizzata nel Rapporto: «A oggi nessun posto letto ha visto la luce». Dunque ci sono 447 milioni fermi, in attesa che partano le gare e che (soprattutto) cominci la costruzione delle strutture. Eppure, come Il Punto aveva documentato in precedenti occasioni, i complessi per rendere più leggera la situazione ci sono. Si tratta di 56 case mandamentali, quelle nelle quali sono detenute le persone condannate a pene fino a un anno o in attesa di giudizio per reati lievi, su cui recentemente ha posto l’attenzione anche la Corte dei Conti. Sette di queste, fra cui Laureana di Borrello (in provincia di Reggio Calabria), chiusa un mese e mezzo fa per mancanza di personale ma pronta a riaprire entro dicembre, sono state trasformate di recente in case circondariali.

MISURE ALTERNATIVE - «Penso che il carcere debba essere l’extrema ratio», ha fatto sapere pochi giorni fa la Guardasigilli Severino prima di annunciare un ddl sulle misure alternative in discussione alla Camera. Il quale prevede, fra le novità, «l’istituto della messa alla prova alternativo alla detenzione. Un istituto già provato per i minori che verrebbe ora esteso ai maggiorenni meritevoli. La seconda parte del provvedimento – ha proseguito Severino – prevede un’altra misura nuova: si sostituirebbe alla pena principale detentiva in carcere un’altra direttamente applicabile dal giudice». Insomma, da quanto sembra dovrebbe trattarsi di una rivoluzione. «L’istituto della messa alla prova è ottimo, mutua la probation anglosassone ed è sponsorizzato da noi avvocati», afferma a Il Punto il responsabile dell’Osservatorio carcere dell’Ucpi (l’Unione delle camere penali), Alessandro De Federicis. Il quale però sottolinea che su entrambe le misure allo studio «ci sono dei limiti». Quali? «Il governo dice che sia la messa alla prova che la detenzione domiciliare si applicano per pene edittali fino a quattro anni. Se però si fa l’elenco dei reati che prevedono un simile trattamento si nota che, per quelle tipologie, in carcere ci sono poche centinaia di detenuti. Se si fosse andati oltre – prosegue De Federicis – si sarebbe entrati nella sfera di reati quali quelli contro la pubblica amministrazione e di altri che contribuiscono a “creare carcere”. Mettere quel limite temporale è stato un problema politico. Ciò rende un’iniziativa condivisibile non efficace. Un governo tecnico dovrebbe avere più coraggio, evitando di pensare di difendere un determinato partito o personaggio politico». Il responsabile dell’Osservatorio carcere dell’Ucpi sottolinea poi come «sia stata creata una norma sugli stupefacenti (la legge Fini-Giovanardi del 2006, ndr) che è assolutamente “di chiusura”». In questa «c’è un’unica norma buona, ovvero l’incentivazione dei programmi terapeutici, che però non può essere applicata perché non ci sono le strutture. Esistono quelle private, dove però bisogna spendere 1.000/1.500 euro al mese per avere accesso». L’equazione, conclude De Federicis, è «meno carcere e più sicurezza sociale. Quando c’è possibilità di reinserimento i detenuti tornano a delinquere con percentuali inferiori alla media». Oggi, dicono i dati, lavora meno del 20% dei detenuti (13.278 nel primo semestre 2012), e negli ultimi anni il budget per le mercedi si è ridotto del 71%. L’unica speranza è che la legge Smuraglia (n. 193/2000, la quale prevede benefici fiscali e contributivi per quelle imprese che assumono carcerati o svolgono attività formative nei loro confronti) sia rifinanziata, come previsto da un emendamento alla legge di Stabilità.

NEGLI ALTRI PAESI - Non solo una «locomotiva economica», ma anche all’avanguardia per ciò che concerne il sovraffollamento carcerario. La Germania è infatti uno dei pochi Paesi dell’Unione europea ad aver ridotto il numero dei propri detenuti, che sono passati dai 78.707 del 2001 ai 71.634 del 2010 (frutto di un bassissimo ricorso alla custodia cautelare). Di più: quasi tutte le persone sottoposte a tale regime sono state effettivamente condannate (solo l’1,1% è stato assolto). L’ordinamento tedesco conferisce poi al giudice la possibilità di applicare misure meno afflittive di quella detentiva quando egli ritenga che soddisfi ugualmente le esigenze cautelari. Anche in Spagna le condizioni dei detenuti sono migliori. In particolare da quando, nel 2001, è stato introdotto il cosiddetto Módulo de Respeto, il quale prevede celle aperte tutto il giorno per coloro che ne facciano richiesta. Quello con l’Italia è un confronto impietoso, visto che i nostri carcerati passano in media 20 ore al giorno chiusi in cella. In Norvegia, infine, dalla fine degli ‘Anni 80 viene applicato il sistema delle “liste d’attesa”. Il principio è semplice: si entra in carcere solo quando c’è l’effettiva possibilità di un posto libero. Non è un caso che il Paese scandinavo abbia una delle recidive più basse d’Europa: solo il 20% dei detenuti usciti dal carcere vi fanno rientro contro il 68% dell’Italia.

Twitter: @GiorgioVelardi

La guerra di Gigi – da “Il Punto” del 5/10/2012

giovedì, ottobre 11th, 2012

«Dottò, lei lo sa com’è Napoli. È una città complicata. Il sindaco sta provando a cambiare le cose, ma non è mica facile». È questo il parere del tassista che ci accompagna a Palazzo San Giacomo, dove incontriamo Luigi de Magistris. Da giugno dello scorso anno, primo cittadino di un realtà dalle tante contraddizioni. Da una parte ci sono i bambini che giocano a calcio in piazza del Plebiscito con le maglie di Hamšík, Cavani e Messi – erede dell’indimenticato Maradona –, dall’altra le zone dove la mano armata della criminalità continua a porre in secondo piano gli sforzi della nuova amministrazione. Fra queste c’è Scampia, «per cui l’amministrazione approverà a breve una delibera-quadro che prevede interventi concreti», rassicura de Magistris. E la politica nazionale? «Alle elezioni non escludo la presenza di una lista arancione. Una realtà che punti sul pubblico e sul privato e che si avvalga del forte contributo dei sindaci».

Sindaco, lei ha più volte ribadito la volontà di fare «la rivoluzione governando». Quindici mesi dopo la vittoria alle elezioni com’è cambiata la “sua” Napoli?

«C’è bisogno di fare una premessa: noi governiamo la città, da un anno e quattro mesi, senza soldi. Abbiamo dovuto fare i conti con un taglio orizzontale – il più alto d’Italia per complessivi da quando faccio il sindaco – di 350 milioni di euro. In una condizione simile o saremmo dovuti andare in dissesto, o la situazione sarebbe dovuta peggiorare rispetto alla precedente amministrazione. Invece la città è migliorata, in particolare sotto due aspetti: i rifiuti – sono fiero di aver restituito agli abitanti una Napoli senza immondizia, anche se resta ancora molto lavoro da fare – e il fatto di essersi rianimata da un punto di vista civico. Questa era una realtà depressa, mentre oggi i napoletani rispondono alle nostre iniziative e riempiono gli spazi pubblici. Abbiamo riportato la persona al centro dell’azione, e siamo l’unica città in Italia che malgrado i problemi finora esposti registra un trend positivo nella presenza di turisti».

Il vicesindaco Sodano ha dichiarato che il vostro vero problema è quello di essere fuori dalle vecchie logiche centrodestra- centrosinistra. Quante difficoltà ha trovato e sta trovando nello scardinare gli equilibri preesistenti?

«Tantissime, perché c’erano sistemi che abbiamo rotto e che riguardano i rifiuti, le burocrazie interne e le mediazioni politiche. Noi oggi prendiamo decisioni importanti confrontandoci con la città, con il consiglio comunale, aprendo dibattiti in rete. C’è una mediazione alta delle politica: personalmente non ho mai alzato il telefono per chiedere il permesso di prendere le decisioni. Quel sistema a cui fa riferimento Sodano resiste e in parte si oppone, anche perché noi non abbiamo nessuna sponda politica a livello nazionale. Napoli non ha avuto finora alcun sostegno né dal governo né dal Parlamento, i quali non hanno scritto nessuna pagina concreta sulla città da quando io sono sindaco. Questo avviene perché, a mio avviso, l’esperienza napoletana non viene vista ancora positivamente dagli apparati partitocratici che noi abbiamo scardinato».

Ne ha in parte già parlato lei poc’anzi, ma torniamoci su. Napoli è stata inserita, di recente, nella lista di città a rischio default. Che autunno sarà il vostro? 

«Noi siamo in pre-dissesto da un anno, è un miracolo non essere andati oltre. La situazione è grave, ma sono convinto che ne usciremo. Certo, il governo dovrebbe fare la sua parte. Noi abbiamo registrato interventi importanti su Milano, Roma, Catania e Palermo. E mentre il Capo dello Stato dice che senza Napoli non si può fare sviluppo, l’aiuto concreto dell’esecutivo – che vorremmo ci fosse – non arriva. Anche perché abbiamo ereditato un debito di 1,5 miliardi di euro, dovuto a politiche di inefficienza e sprechi portate avanti negli ultimi quindici anni da chi ci ha preceduto. Ciò vuol dire non poter fare assunzioni e concorsi, e non poter pagare le imprese. Domando: quanto può reggere ancora una città in queste condizioni senza un intervento concreto a livello centrale?».

In questi mesi si è detto e scritto molto sulle defezioni nella sua giunta: Rossi, Vecchioni, Narducci e Realfonzo. Si è fatta, spesso, un po’ di confusione. Cerchiamo di mettere ordine… 

«Io prima dell’estate, con un’espressione scherzosa – ma fino ad un certo punto – dissi: “Costituiamo il gabinetto di guerra”. L’esperienza napoletana è una guerra contro la camorra, la partitocrazia, è una battaglia civile per il cambiamento e noi lottiamo come leoni anche per diciotto ore al giorno. Non tutti reggono una situazione simile. I casi citati sono molto diversi, e non è escluso che ce ne potrebbero essere degli altri: questo perché c’è chi potrebbe essere un ottimo assessore in tempi “di pace”, ma non è all’altezza in quelli “di guerra”».

Cos’è successo con loro, dunque?

«Roberto Vecchioni non è stato un componente della giunta, ma una scelta che ho fatto per ammirazione e passione nei confronti di un grande cantautore quale lui è. Il suo errore – mi prendo però anche le mie responsabilità – è stato quello di aver pensato di venire a fare l’artista, invece doveva mettere in campo anche una capacità manageriale. Quando si è trovato di fronte ad una situazione difficile come quella di Napoli non se l’è sentita di proseguire. Abbiamo però ottimi rapporti, collaborerà con il forum delle culture, a livello umano è rimasto tutto come prima. Raphael Rossi (ex presidente di Asìa, la società del comune di Napoli che si occupa di rifiuti, ndr) ha polemizzato con l’amministrazione ma non con me personalmente. Anche lui ha pagato il fatto di non essere la persona giusta per governare un momento di conflitto: ciò è avvenuto per la mancata capacità di conoscere fino in fondo Napoli. Ma più che focalizzarmi su di lui mi concentrerei su chi lo ha sostituito: Raffaele Del Giudice ha rappresentato un salto di qualità, perché conosce vicolo per vicolo questa città e ha – con i fatti – contrastato la camorra e saputo aprire un dialogo con i lavoratori».

Com’è andata con Giuseppe Narducci e Riccardo Realfonzo, invece? 

«Al primo (ex assessore alla Sicurezza, ndr) non avrei mai revocato la delega pur essendo stato molto deluso da lui – anche in questo caso, come in precedenza, faccio mea culpa –, perché pensavo portasse capacità politiche, praticità, risoluzione dei problemi e un contrasto effettivo alla delinquenza e alla camorra. Al contrario c’è stato da parte sua un atteggiamento molto burocratico e formalistico all’interno della giunta. Ma per quanto lui ha rappresentato e rappresenta io non lo avrei mai mandato via. Lui ha deciso di andarsene scatenando una polemica che francamente fa torto a lui, perché nel corso dei mesi ha condiviso tutti gli atti e la vita di questa giunta. Diverso è il caso di Realfonzo (ex assessore al Bilancio, ndr), l’unico assessore che avevo già indicato in campagna elettorale, che potrebbe essere – tornando a quanto ho detto poc’anzi – un buon assessore in tempi “di pace”. Anche da lui, viste le competenze, mi aspettavo di più. Invece dopo un anno il bilancio del suo lavoro, in un ruolo strategico, è stato deludente. Serviva una svolta. La sua reazione è umanamente comprensibile, però bisogna evitare le drammatizzazioni. Il giorno prima che gli comunicassi la mia decisione mi mandò un messaggio in cui mi scrisse che io ero il leader nazionale del movimento arancione, e che dovevo candidarmi alla presidenza del consiglio; poi successivamente ha rilasciato un’intervista a il Fatto Quotidiano e ha detto che ho metodi democristiani e che sono il peggior sindaco d’Italia. È una replica che non aiuta la politica».

Una delle note dolenti di Napoli è Scampia. Pochi giorni fa lei ha parlato di un progetto di riqualificazione dell’area, esponendo i costi (5 milioni solo per abbattere le vele). Al di là dell’aspetto urbanistico, cosa farà la giunta de Magistris sotto l’aspetto sociale? 

«Per agire su Scampia ci vogliono i soldi ma finora, malgrado le difficoltà, abbiamo fatto tante cose. Ho visitato personalmente tutte le scuole del quartiere, siamo partiti con il “porta a porta” raggiungendo ottimi risultati, abbiamo istituito l’isola ecologica. Ed è passato un solo anno. A breve approveremo una delibera-quadro su Scampia: partiremo da qui per poi andare a toccare anche altre zone della città. Sarà un’opera di programmazione, in modo tale che i cittadini sappiano quali sono gli impegni che vogliamo rispettare».

Cosa prevede la delibera, in concreto? 

«Primo punto, l’abbattimento delle vele e la costruzione di aree verdi, centri sociali e laboratori. Riqualificheremo i parchi, e fisseremo un cronoprogramma stringente per l’assegnazione degli alloggi popolari in costruzione grazie ai fondi residui. Interverremo su chi, in modo abusivo e criminale, occupa abitazioni comunali. Abbiamo ottenuto i fondi per il completamento della cosiddetta “Università della Medicina”. E realizzeremo l’unità operativa della Polizia municipale. Poi – cosa a cui tengo molto – assegneremo gratuitamente un immobile molto grande alle associazioni che si impegnano concretamente sul territorio. Ai cittadini chiediamo, in cambio, di mobilitarsi: un quartiere ha bisogno della partecipazione attiva dei suoi abitanti».

A fine luglio, prima di venire a visitare la città, il ministro Severino ha dichiarato che mentre in Sicilia, dopo la morte di Falcone e Borsellino, si sviluppò un clima nuovo, qui a Napoli spesso le persone sono dalla parte della criminalità e non dalla giustizia. Come si esce da questa situazione? 

«Spiace che un ministro della Giustizia non abbia un quadro serio e concreto di quanto accade a Napoli. E che non si renda conto dei paragoni che fa. Tutti sappiamo cos’è successo a Falcone e Borsellino. La reazione della gente era doverosa, e la Severino dovrebbe anche sapere che dopo la stagione delle bombe le mafie hanno abbandonato tale strategia – che non portava risultati – cercando invece di penetrare nelle istituzioni. Un ministro della Giustizia “tecnico” dovrebbe anche sapere che servono meno caccia bombardieri e più benzina alla Polizia e ai Carabinieri, e che in un quartiere come Scampia – ma anche in tanti altri – ci sono cittadini che quotidianamente si impegnano sul territorio contrastando le piazze di spaccio. E spesso lo fanno in silenzio. Napoli si è risvegliata, si è rimessa in moto. Noi continuiamo a lavorare, ma da persone come lei mi aspetto meno demagogia e superficialità».

Ha fatto discutere la sua proposta di creare un quartiere a luci rosse. Ci spiega di cosa si tratta?

«Vorrei destinare un’area della città dove le coppie – quindi non c’entra nulla la prostituzione – che non hanno una casa possano andare senza avere paura di essere aggrediti o derubati. Un luogo di socialità come ne esistono anche in altre città d’Europa. Non mi piace, da cittadino prima che sindaco, chiudere gli occhi. Quindi l’altro tema, quello della prostituzione, va affrontato. C’è un aumento del fenomeno in tutta Italia, anche se a Napoli i dati sono più bassi rispetto a Roma e Milano. La priorità è punire i criminali e gli sfruttatori, partendo da un dato di fatto: c’è un’offerta perché c’è una domanda. Quindi noi vogliamo individuare zone non dove la prostituzione sia legalizzata, ma dove si può esercitare permettendo alle forze dell’ordine di avere maggiore controllo e dove possono essere recuperate più facilmente molte “vittime”, andando verso un contrasto del fenomeno. È un tema su cui bisogna discutere, e sui mi auguro ci possa essere un dibattito laico in consiglio che porti alla migliore soluzione possibile».

Entro fine mese sarà presentato il programma del movimento arancione. Com’è nato e cos’è davvero? 

«È un movimento nato nel periodo della campagna elettorale del 2011, unendo soprattutto Milano e Napoli. È un luogo adatto a chi vuole cambiare la politica, e a giorni pubblicheremo un manifesto – fatto di proposte che non guardano al contingente ma ai prossimi anni, senza aggregazioni ma con contenuti economici, sociali e politici – e gli daremo un nome. Ad ottobre lanceremo la prima iniziativa, e indicheremo i modi in cui intendiamo organizzarci e finanziarci, mettendo in rete un documento che apriremo ai cittadini che vogliono inserire i loro contenuti. È un movimento che dovrà operare da Nord a Sud, che non è contro i partiti ma distante da loro».

Ci sarà una lista arancione alle prossime elezioni? 

«Dipenderà da alcuni fattori. Per esempio dalla legge elettorale e dal fatto che io non mi posso candidare, perché Napoli ha bisogno di guardare negli occhi le persone a cui affidano il cambiamento. Io sarò uno dei trascinatori del movimento e ci metterò la faccia, anche perché stiamo registrando molte adesioni. Non escludo quindi che una lista ci possa essere. Non è certa, ma è pos- sibile. I sindaci daranno un contributo perché rappresentano una grande risorsa democratica per un Paese che deve continuare ad andare avanti malgrado le difficoltà».

In politica economica quali sono le linee guida del movimento? 

«Noi siamo contro le economie liberiste e il capitalismo senile. Il capitalismo è entrato in una crisi strutturale e non legata solo allo spread. Ciò significa provare a costruire dal basso forme di economia diverse, riscoprendo i servizi pubblici come un valore reale. Al tempo stesso vogliamo essere molto attenti a quel mondo privato – cooperative, piccole e media imprese –, che però non hanno nell’accumulazione del capitale l’obiettivo dell’investimento. Riteniamo poi che parte della proprietà pubblica debba essere consegnata ai cittadini che, nei vari quartiere e attraverso assemblee del popolo, decidono cosa fare di parti di città per attività di ogni tipo».

Poi? 

«La patrimoniale sui grandi patrimoni e le transazioni finanziarie. Poi deve essere applicata un’aliquota uguale all’Iva sui capitali scudati che rientrano dall’estero – ne guadagneremmo circa 15 miliardi di euro –, più l’immediata sospensione dell’acquisto di inutili e dispendiose commesse militari e l’interruzione delle missioni militari. Unita a ciò va portata avanti una riduzione forte del costo del lavoro per far ripartire le imprese, favorendo gli investimenti soprattutto nelle aree più depresse ».

La stampa parla di rapporti non idilliaci fra lei e Di Pietro, riguardo soprattutto agli attacchi dell’Idv al Pd e quelli a Napolitano sulla trattativa… 

«Il problema non sono le alleanze politiche. Chi governa, come faccio io a Napoli, deve avere un profilo istituzionale e può dire cose fortissime senza mancare di rispetto alle istituzioni. Anche quando prendono decisioni che non si condividono. Nella vicenda di Palermo io sono dalla parte dei magistrati, senza se e senza ma. Quelli coraggiosi e onesti, che cercano la verità, devono essere messi nelle condizioni di portare avanti le loro inchieste».

E i rapporti con Di Pietro? 

«Sono buoni. Partecipo molto poco all’attività di partito, ma a Vasto abbiamo parlato a lungo, analizzando le cose da fare. Credo che il nostro rapporto si evolverà quando lui si renderà conto che io non sono un pericolo per l’Idv, ma una risorsa».

Cosa pensa del coinvolgimento di Nicola Mancino nella trattativa? 

«Io l’ho conosciuto bene: è quello che ha presieduto la sezione disciplinare del Csm che mi strappò ingiustamente la toga di pubblico ministero perché facevo inchieste molto simili a quelle che vengono portate avanti in questo momento. Non potrei mai stare dalla sua parte, mi sembra ovvio».

Lei ha chiesto un dibattito pubblico a Grillo, con cui in passato ha avuto più di qualche scambio polemico. Cosa ha alimentato, secondo lei, il fenomeno del comico genovese? 

«Grillo ha una politica fatta di blog – cosa che ho fatto e faccio tutt’ora anche io, sfruttando i social network –, e sbaglia quando pensa che solamente lui possa rappresentare il bene del Paese. Il Movimento 5 Stelle non è antipolitica, anzi condivido un buon 80% di quello che dicono i suoi componenti. Un buon banco di prova è quello di Parma, dall’operato di Pizzarotti secondo me capiremo molte cose. La sua capacità di realizzazione dipenderà da ciò che faranno gli altri: se continueranno ad esserci “ammucchiate” o politiche vaghe da parte degli altri schieramenti, Grillo otterrà un risultato straordinario. Come movimento arancione li considero una risorsa, e spero di potermi confrontare con loro. Però devono evitare di guardare solo il loro orticello, altrimenti commetteranno errori simili a quelli che contestano agli altri partiti».

Se Renzi vincesse le primarie del Pd cosa cambierebbe? 

«Prima di tutto gli farei i complimenti. È giovane, fa il sindaco di Firenze, ci mette la faccia e delle idee, molte delle quali non condivido. Personalmente non lo considero un innovatore della politica: le sue proposte non sono quelle che secondo me possono portare a costruire una sinistra europea ed internazionale, che lotta contro la povertà e le disuguaglianze. È un misto di quanto dicono Pd e Pdl, quindi credo che ci si potrà incontrare per fare qualcosa di importante, ma vedo molto difficile una possibile alleanza fra me e lui».

In conclusione: bisogna tornare a scattare una nuova foto di Vasto, strappando quella del Palazzaccio? 

(Sorride) «Penso che le foto portino male, meglio non farle…».

Twitter: @GiorgioVelardi 

Pantano giustizia – da “Il Punto” del 27/04/2012

giovedì, maggio 3rd, 2012

Corruzione, intercettazioni e responsabilità civile dei magistrati. Guardando al nodo-concussione, che rischia di investire i processi in corso, compreso il caso Ruby. Sono le spine nel fianco del ministro Severino, che deve convincere Pdl, Pd e Terzo polo ad abbracciare una posizione comune. E nel frattempo arrivano i primi dati sul «Salva-carceri»: solo 312 detenuti in meno, un vero flop

«Mi sembra di capire ci sia una grandissima diffusione di trasgressività». Le parole pronunciate a il Fatto Quotidiano da Gherardo Colombo, ex magistrato del pool di Mani pulite, fanno da trait d’union con quelle del ministro della Giustizia Paola Severino, secondo cui «combattere la corruzione è lo scopo che si prefigge ogni governo. E questo governo – prosegue il Guardasigilli – se lo pone in maniera particolare». Nel tempo della politica dei tecnici la giustizia è una questione centrale. Ma, come per tutti gli altri problemi sul tavolo della “banda” Monti, ci sono i partiti che tengono in vita l’esecutivo a rimodellare i provvedimenti a loro immagine e somiglianza. Corruzione, intercettazioni e responsabilità civile dei magistrati sono le tre spine nel fianco di Severino, che nei giorni scorsi (con un emendamento) ha avanzato le sue proposte – come l’aumento a cinque anni per il reato di «corruzione in atti d’ufficio», punibile oggi con una pena che va dai sei mesi ai tre anni di carcere –, specificando però che «rimane il grande ruolo del Parlamento, che può approvare modifiche». Come a voler ammettere la presenza di “entità supreme” (i partiti, appunto), con il rischio di stravolgimenti che rimane dietro l’angolo. Ma in via Arenula bisogna fare i conti anche con un altro problema, ovvero quello che riguarda i penitenziari. Perché dall’entrata in vigore del «Salva-carceri» sono solo 312 i detenuti in meno. E i numeri di posti letto disponibili nelle prigioni, denuncia l’associazione Antigone, sono addirittura «truccati». Un vero flop, malgrado gli entusiasmi della prima ora.

«SALVA-BERLUSCONI»? – Il nodo fondamentale è il cosiddetto ddl anticorruzione. Che, ha assicurato Severino, «è un’occasione per i partiti, vista la necessità di riaffermare il principio di “governo della politica”, riconquistando la fiducia dei cittadini». Questo in via ufficiale. Perché nel concreto i tre schieramenti sono fermi sulle loro posizioni. Inamovibili. E il rischio, neanche troppo nascosto, è quello che alla fine si arrivi ad un “baratto” che non scontenti nessuno, con il Pdl ancorato a due capisaldi: le intercettazioni telefoniche e la responsabilità civile dei magistrati. La scorsa settimana le commissioni Affari costituzionali e Giustizia della Camera hanno fissato al 4 maggio il termine per la presentazione dei sub-emendamenti e all’8 la data di una nuova riunione congiunta per esaminare il provvedimento. Si farà tutto, neanche a dirlo, dopo le elezioni amministrative. Segno che nell’agenda politica la questione giustizia non è una priorità. Il ministro ha dovuto prendere atto, dicendo che tale decisione «era prevedibile», e assicurando che «se dovessi constatare un rallentamento chiederò ai presidenti delle commissioni congiunte della Camera di fissare un calendario di sedute più fitto». Le novità rilevanti sono l’introduzione del reato di corruzione tra privati – il rischio, in concreto, è una condanna che va da uno a tre anni –; quello di traffico di influenze illecite, che si affiancherà al millantato credito con l’introduzione nel Codice penale dell’art. 346 bis; lo spacchettamento del reato di concussione, con la nascita dell’«induzione indebita a dare o promettere utilità», punibile con una pena che va dai 3 agli 8 anni di reclusione. Scelta che rischia di toccare i processi in corso, in primis quello per il caso Ruby. In caso di condanna, l’ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi godrebbe di una pena ridotta (rispetto ai dodici anni previsti dall’attuale normativa). Il che ha fatto subito gridare allo scandalo. Severino ha però smorzato le polemiche: «Non si può bloccare la produzione di nuove norme solo perché vi sono dei processi in corso». Mossa fatta (pare) per rispondere al solito ritornello del «ce lo chiede l’Europa» (e l’Ocse), che spingerebbe – e qui il condizionale calza a pennello – per cancellare il reato di concussione, esclusività del codice penale italiano. Ma a ben guardare, tutta la faccenda sembra essere più un escamotage che una reale richiesta delle istituzioni sovranazionali. Infatti il 21 marzo scorso, in un’intervista a Il Sole 24 Ore, il direttore del servizio giuridico dell’Ocse Nicola Bonucci ha chiarito che «non abbiamo mai chiesto di eliminare la concussione in blocco, ma solo l’esonero da responsabilità del corruttore, che in ambito internazionale è un problema». Più chiaro di così.

INTERCETTAZIONI E TOGHE – Poi ci sono le altre due questioni roventi, ovvero le intercettazioni telefoniche e la responsabilità civile dei magistrati, con un occhio anche al falso in bilancio, su cui «ci sono disegni di legge pendenti in Parlamento: è una materia che merita una trattazione autonoma, e allora il governo non si sottrarrà ai suoi doveri». Sul primo punto, il ministro ha fatto sapere che «è maturo il tempo per una legge sulle intercettazioni telefoniche», specificando che sarà lei a presentarne una. «È necessario un filtro a monte, per evitare che intercettazioni non necessarie finiscano nei provvedimenti e poi sulla stampa – prosegue Severino –. Il pm e il gip, prima di qualsiasi atto che comporta una discovery, devono vagliare con grande attenzione il materiale ed eliminare tutto quello che può danneggiare parti non strettamente coinvolte». «Credo che in un disegno di riforma della giustizia il capitolo informazione sia da espungere, perché stabilire per legge cos’è interesse pubblico e cosa no è assolutamente fuori luogo. Si darebbe il segnale che la politica si chiude in sé stessa, con un supplemento di silenzio incomprensibile», dice a Il Punto Franco Siddi, segretario generale della Federazione Nazionale Stampa Italiana (Fnsi). «I media e i giornalisti possono compiere errori e peccati, e in quel caso bisogna intervenire per evitare che si faccia della cattiva informazione. Però anche l’ultima ipotesi del disegno-Severino, laddove prevede che non si possa dar conto di intercettazioni fino a quando non c’è custodia cautelare, non ci avrebbe permesso di conoscere a fondo la vicenda della Lega. Noi abbiamo chiesto un incontro al ministro – dice ancora Siddi –, per chiederle di dare una mano a questa professione. È una sfida che abbiamo lanciato per fare in modo che si entri nel merito delle cose e che non si faccia, com’è capitato in passato, propaganda». Per quanto riguarda la responsabilità civile dei magistrati si riparte invece da quanto accaduto lo scorso 2 febbraio, quando la Camera ha approvato a scrutinio segreto, con 264 voti a favore e 211 contrari, l’emendamento del deputato leghista Gianluca Pini. La norma prevede che «chi ha subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato in violazione manifesta del diritto – o con dolo o colpa grave nell’esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia – può agire contro lo Stato e contro il soggetto riconosciuto colpevole per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali che derivino da privazione della libertà personale. Costituisce dolo il carattere intenzionale della violazione del diritto». Al Corriere della Sera il Guardasigilli, che deve ovviamente fare i conti con le proteste dell’Associazione nazionale magistrati (Anm), ha dichiarato che «la situazione è complicata, e andiamo verso un voto al Senato che potrebbe essere anch’esso a scrutinio segreto. Io ascolto e comprendo le ragioni di tutti, ma dobbiamo trovare una via d’uscita rapida ed efficace, prendendo atto della situazione». Dunque, senza modifiche, l’emendamento Pini sarà approvato così com’è? «Mi pare un dato di fatto», ha risposto Severino. Ma su entrambi i temi pesa una questione che può sembrare marginale, ma che marginale non è: il beauty contest. La decisione del governo di mettere all’asta le frequenze televisive, provocando le ire dell’azienda di famiglia dell’ex premier, potrebbe diventare un boomerang che l’esecutivo non riuscirebbe a controllare, e che potrebbe provocare seri danni all’impianto delle riforme.    

«SALVA-CARCERI» FLOP – Severino, in sede di presentazione del decreto che avrebbe dovuto provare a risolvere la situazione dei penitenziari nel nostro Paese, era stata chiara: «Non è uno “Svuota-carceri” ma un “Salva-carceri”». Artifici retorici, più che pratici, visto che a poco più di tre mesi dall’entrata in vigore della norma i numeri parlano di un flop su tutta la linea. Dal 31 dicembre 2011 al 13 aprile 2012 la popolazione carceraria è diminuita di sole 312 unità (66.585 contro i 66.897, a fronte di 45.742 posti letto disponibili), secondo i dati elaborati da Antigone, l’associazione politico-culturale a cui aderiscono magistrati, operatori penitenziari e parlamentari che a diverso titolo si interessano di giustizia penale. «L’effetto del decreto “Salva-carceri” è stato quello di avere evitato la crescita ma non di aver ridotto significativamente i numeri dell’illegalità penitenziaria», si legge nel rapporto dell’associazione, in cui sono riportati i numeri di quella che continua ad essere una vera e propria emergenza nazionale. La Regione con il più alto tasso di sovraffollamento è la Puglia (188,8 per cento, a fronte di 2.463 posti disponibili e di 4.650 detenuti), seguita da Lombardia (174,4 per cento) e Liguria (168,3). Singolare il caso della Campania, dove ci sono addirittura più imputati (51,5 per cento) che condannati. Con un tasso di affollamento del 145,8 per cento – ossia 145 detenuti ogni 100 posti – l’Italia è il Paese più sovraffollato d’Europa. «Permane una condizione di crisi cronica che si è protratta per un altro anno, con tutto ciò che ne concerne», dichiara a Il Punto Alessio Scandurra, membro del direttivo di Antigone. «Ci sono sezioni di alcuni istituti che vengono chiuse, in attesa di avere risorse per interventi di manutenzione. Anche se il budget a disposizione è ridottissimo – prosegue –. Qui avviene il paradosso: se sulla carta la capienza regolamentare rimane sempre la stessa, o addirittura è data in aumento – trasformando spazi che erano dedicati ad attività comuni in celle –, girando per gli istituti si scopre che gli stessi che da un anno o due conservano la stessa capienza hanno in realtà alcune parti chiuse». Emblematico quanto avviene in Toscana: «La capienza del sistema regionale appare addirittura superiore rispetto al passato, ma da un’attenta analisi si scopre che il carcere di Arezzo è totalmente chiuso, mentre quello di Livorno è stato dichiarato in buona parte inagibile, e dunque sfollato. Poi c’è Porto Azzurro, dove ci sono due sezioni chiuse. Metterci nell’ottica che la capienza ufficiale non è neanche vera – conclude – crea ovviamente una situazione di grande allarme». Antigone, autorizzata dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ad entrare in tutti gli Istituti di pena, ha poi redatto un dossier su alcuni di questi. E anche in questo caso i numeri sono da brivido. Si parte da Busto Arsizio (Varese), in testa alla lista degli istituti penitenziari nazionali per sovraffollamento, in cui a fronte di una capienza regolamentare di 167 posti ci sono 403 detenuti (414 per cento). Non se la passano meglio neanche Latina e Melfi. Nel primo caso il tasso di sovraffollamento tocca quota 270 per cento solo per quanto riguarda la popolazione maschile, con le celle che, pensate come singole, ospitano fino a 6 detenuti disposti su due letti a castello a tre piani. A Melfi (Potenza), oltre al sovraffollamento (206 per cento), il problema riguarda la carenza di fondi per il funzionamento ordinario della struttura. Basti pensare che la sala d’attesa per i familiari dei carcerati era una struttura esterna che versava in condizioni disastrose, e che l’amministrazione ha dovuto chiudere. Ma sul taccuino vanno annotati anche i casi di Genova (Marassi), Civitavecchia, Teramo, Roma Rebibbia, Cuneo e Bolzano. E menomale che mesi fa il ministro aveva detto senza mezzi termini che «dallo stato delle carceri si misura il livello di civiltà di un Paese». Niente di nuovo sotto il sole.

Twitter: @GiorgioVelardi