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Camera, tre anni di legislatura a rapporto: più sedute, meno tempo per le leggi, esplode il ricorso al voto di fiducia

giovedì, dicembre 17th, 2015

È quanto emerge in un volume presentato dalla presidente Laura Boldrini. Che traccia un bilancio dell’attività svolta a Montecitorio. Mettendola anche a confronto con le performance del passato. Cresciuta l’attività di sindacato ispettivo con interpellanze e interrogazioni. Certificato anche l’abuso del ricorso ai decreti. Soprattutto da parte del governo Renzi

boldrini675Lavoriamo poco? Venite a vedere le carte. Pare di sentirli, i parlamentari sempre sotto accusa per “fannullismo” e poca voglia di lavorare. Soprattutto dopo le critiche per i troppi giorni di vacanza che si sono assegnati per l’esame della legge di Stabilità e il ponte dell’Immacolata. Sembra di vederli gridare ad alta voce i loro meriti. E lo fanno attraverso il presidente della Camera, Laura Boldrini. Che, l’attivismo degli inquilini di Montecitorio, lo ha fatto addirittura raccogliere in un volume (“Cifre e fatti. L’attività della Camera dei deputati a 33 mesi dall’inizio della legislatura”). Con numeri e percentuali, per tracciare un bilancio di tre anni di attività parlamentare. Periodo nel quale, certificano i dati ufficiali presentati nel corso della cerimonia di saluto della Boldrini alla stampa parlamentare, l’Aula di Montecitorio si è riunita per un numero di sedute superiore rispetto allo stesso periodo della passata legislatura: 536 contro 423. Anche se in confronto ad essa la distribuzione delle ore tra le varie attività ha visto una flessione del tempo dedicato a quella legislativa ed un corrispondente aumento di quello impiegato per attività di indirizzo e controllo. Non solo: i dati presentati attestano anche il ricorso sfrenato ai decreti legge da parte del governo. Per non parlare di un altro record che il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, ha ormai ipotecato: quello dei voti di fiducia. Ai quali l’esecutivo in carica si è affidato ben 34 volte da febbraio 2014, da quando cioè è entrato in carica al posto di Enrico Letta. Doppiato dal suo “rottamatore”, insieme persino a Silvio Berlusconi.

RISPONDERE PREGO – Numero di sedute a parte, sinora l’Aula si è riunita per un totale di 2.889 ore e 56 minuti, 694 ore in più rispetto alla passata legislatura (2.195 ore e 15 minuti). Di queste, 1.741 ore sono state dedicate all’attività legislativa,736 ore a quella di indirizzo e controllo. Mentre le restanti 364 sono state impiegate per altre attività. A confronto con lo stesso periodo della sedicesima legislatura, aumenta notevolmente il numero di interpellanze e interrogazioni, sia a risposta scritta sia orale. Le interpellanze passano da 945 a 1.196, di cui 833 concluse (69,65%) e 363 da svolgere; le interrogazioni a risposta orale da 1.424 a 1.892, di cui 1.241 concluse (65,59%) e 651 ancora da svolgere. Un vero e proprio boom è quello che fanno registrare, invece, le interrogazioni a risposta in commissione: erano 4.101 nello stesso periodo della precedente legislatura, sono 7.186 oggi, ma la maggioranza di queste (3.758) sono ancora da svolgere. Fanno registrare un segno più anche le interrogazioni a risposta scritta, cresciute da 10.586 a 11.392. Peccato però che, secondo i numeri del dossier, fino a questo momento la maggior parte degli interroganti sia rimasto a bocca asciutta, visto che ben 8.903 sono ancora senza risposta. Mentre quelle concluse sono 2.489 (21,85%). In definitiva, sono stati presentati 21.666 atti di sindacato ispettivo, ma solo 7.991 hanno visto il loro iter completato con una risposta (il 36,88%contro il 41,55% della XVI legislatura). Cresciuto anche il numero e la durata delle sedute delle 14 commissioni permanenti, riunitesi 11.066 volte per un totale di 6.096 ore contro le 10.322 volte della XVI, impegnata per 5.292 ore.

GOVERNO FAMELICO – Sempre secondo il dossier, nei primi 33 mesi di legislatura sono state finora approvate dalle due Camere 186 leggi: 74 di ratifica, 58 di conversione, 10 di bilancio, 3 collegate alla manovra di finanza pubblica, 6 europee (e di delegazione europea) e 35 di vario argomento. Ma l’aspetto più importante riguarda la fase dell’iniziativa. Da chi sono stati infatti proposti i provvedimenti? Ben 154 di quelli sinora approvati (l’82,7%) sono stati promossi dal governo, mentre soltanto 30 (il 16,1%) portano la firma di uno o più parlamentari e 2 sono i testi di iniziativa mista (l’1%). Un dato che fa il paio con il ricorso smodato ai decreti legge. Sono 69 quelli presentati dai due governi che si sono avvicendati nel corso dell’attuale legislatura: quello di Enrico Letta e quello di Matteo Renzi. Ma se il primo si è dovuto fermare a 25, complice il fatto di essere stato scalzato dall’ex sindaco di Firenze, quest’ultimo ha quasi raddoppiato i numeri del predecessore presentando finora 44 decreti legge. Di questi, 31 sono stati convertiti con modificazioni, dice il dossier presentato dalla presidente Boldrini, 2 sono stati convertiti tali e quali, 7 sono decaduti e 4 sono in corso di conversione.

Twitter: @GiorgioVelardi

(Articolo scritto il 16 dicembre 2015 per ilfattoquotidiano.it)

Contributi ai gruppi parlamentari: da Camera e Senato 106 milioni di euro incassati in due anni

giovedì, dicembre 3rd, 2015

Sono le cifre contenute nell’ultimo dossier Openpolis. Che ha analizzato i bilanci di tutte le forze presenti in Parlamento. Partito democratico primatista con 38 milioni. Seguito da Movimento 5 Stelle con 13. Ecco come sono stati spesi i soldi

camera_675Centosei milioni 700 mila euro di contributi stanziati ai gruppi parlamentari nei primi due anni di legislatura. Con il Partito democratico (Pd) a fare la parte del leone incassando, fra Camera e Senato, 38,5 milioni. E il Movimento 5 Stelle (M5S) ad occupare il secondo gradino del podio con 13,4 milioni. Sono questi i numeri resi noti dall’ultimo dossier di Openpolis dal titolo “Paga pantalone”. Uno studio che ha come oggetto proprio il contributo che le varie forze che siedono in Parlamento ricevono per le loro attività istituzionali e il loro funzionamento. “Una cifra in crescita – scrive l’osservatorio nel report – che ha raggiunto i 50 milioni di euro all’anno”. Da non confondere, però, con il finanziamento pubblico ai partiti. Il quale, secondo quanto previsto dalla legge varata due anni fa dal governo di Enrico Letta, sarà definitivamente abolito dal 2017.

PD PIGLIATUTTO – Per sopravvivere nei prossimi tre anni, comunque, i partiti potranno fare affidamento proprio sui contributi di Camera e Senato, calcolati sulla base della loro composizione. Ovvero: più è grande il gruppo e più soldi riceverà. Insomma, Matteo Renzi può dormire sonni tranquilli, visto che “il crescente numero di parlamentari iscritti al Pd” in entrambi i rami del Parlamento “non farà che aumentare il contributo che riceve il gruppo, un incremento tendenziale ad oggi pari a 1,3 milioni di euro all’anno”, scrive Openpolis. Ma in che modo i dem spendono i soldi che arrivano loro? Le uscite maggiori si registrano alla voce stipendi: 5,6 milioni di euro alla Camera nel 2013, cresciuti a 7,5 milioni nel 2014 (il 70,3% del bilancio), e 1,9 milioni al Senato, che hanno superato i 3 milioni lo scorso anno (67,4%). Aumentati anche i costi per le consulenze, passate da 205 mila a 329 mila euro dal 2013 al 2014 solo a Montecitorio. E che dire della comunicazione? Se a Palazzo Madama (dove il Pd conta 112 senatori) sono stati spesi ‘solo’ duemila euro in più, alla Camera la cifra è esplosa passando da 257 mila a 1,9 milioni di euro. Non è un caso, dunque, che i 4,3 milioni di euro di avanzo del 2013 siano crollati a 486 mila euro nel 2014. Mentre al Senato la cifra si è dimezzata di circa il 50%: da 2 a 1,1 milioni.

RISCHI A 5 STELLE – La medaglia d’argento, come detto, va al M5S. In questo caso, però, l’emorragia subita in termini di espulsioni e uscite volontarie (35 parlamentari hanno finora lasciato il Movimento) rischia di portare ad una “perdita tendenziale all’anno” che, calcola Openpolis“sarebbe pari a 2 milioni di euro”. Come per il Pd, anche il movimento di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio spende una fetta cospicua dei suoi bilanci parlamentari per le spese del personale, passate da 867 mila a 2 milioni di euro a Montecitorio (la cifra comunque più bassa rispetto a tutti gli altri gruppi) e da 1 a 1,5 milioni al Senato. Lo stesso discorso vale per le consulenze: i 189 mila euro del 2013 sono diventati 479 mila nei dodici mesi successivi alla Camera, mentre al Senato i 58 mila sono cresciuti attestandosi a 143 mila. Uscite sostanziose che, nonostante tutto, hanno permesso ai grillini di chiudere entrambi gli anni di legislatura con un avanzo di gestione: 961 mila euro nel 2014 alla Camera (erano 1,75 milioni l’anno precedente) e 305 mila 800 euro a Palazzo Madama (quasi 1,1 milioni nel 2013).

SILVIO IN ROSSO – Chi non se la passa per niente bene, invece, è Forza Italia (FI). Il partito di Silvio Berlusconi, che alle elezioni del 2013 si era presentato sotto l’egida del Popolo della Libertà (Pdl), è fra quelli che ha subito le perdite maggiori da inizio legislatura, causate in particolar modo dalla scissione del Nuovo centrodestra (Ncd). Ciò ha comportato “una tendenziale contrazione del contributo ricevuto pari a 5 milioni di euro”, scrive l’osservatorio. Quello che balza all’occhio, leggendo i bilanci di FI, sono i costi dei dipendenti rapportati al numero di deputati e senatori (95 in totale) di cui dispone oggi il partito. “Fra tutti – fa notare Openpolis – il gruppo di Forza Italia alla Camera risulta essere quello che maggiormente sente il peso del personale: incide infatti per l’85% delle entrate” (a Palazzo Madama la percentuale scende al 67%). Ma se proprio a Montecitorio alcune voci di spesa sono diminuite, per esempio le consulenze, andate incontro a 5 mila euro di tagli (da 327 mila a 322 mila euro), è al Senato che i costi sono lievitati. Le consulenze stesse sono passate da 32 mila a 249 mila euro; le collaborazioni da 36 mila a 389 mila euro; le somme impegnate per gli studi da appena 100 euro a 147 mila 900 euro. Non c’è quindi da stupirsi del fatto che, mentre a Montecitorio l’avanzo di FI sia di 298 mila euro nel 2014, a Palazzo Madama il rosso si attesti a 319 mila 192 euro. Ammortizzato solo grazie agli oltre 2 milioni di euro di avanzo del 2013. Insomma, tempi non facili per il Cavaliere.

OCCHIO AI BILANCI – E gli altri gruppi, come se la passano? Nei primi due anni di legislatura, la Lega Nord ha potuto usufruire di 4,6 milioni di euro di contributi: una percentuale molto alta è stata spesa in comunicazione (oltre l’11% a Montecitorio e il 12% a Palazzo Madama). Certo è, però, che bisogna stare attenti ai conti: infatti nel 2014 il Carroccio ha fatto registrare un disavanzo di 125 mila euro alla Camera e di 312 mila euro al Senato, anche in questo caso ammortizzati grazie agli avanzi degli anni precedenti. Lo stesso discorso vale per Sinistra Ecologia Libertà (Sel). Il partito di Nichi Vendola, il cui gruppo è presente solo a Montecitorio, ha ricevuto quasi 3 milioni di euro in due anni. Si tratta di “uno dei gruppi che ha potuto sopportare una chiusura di 2014 in negativo – rileva Openpolis – grazie all’avanzo di bilancio ereditato nel 2013” (182 mila 300 euro). Poi c’è Scelta Civica, che alla Camera conta 23 deputati (al Senato è completamente sparita) e che, come nei casi già citati, deve stare attenta al portafogli. Primo perché le uscite dal gruppo (22) hanno portato una perdita tendenziale di 1,1 milioni di euro l’anno; secondo perché nel 2014 la differenza fra entrate e uscite ha fatto registrare un rosso di 166 mila 900 euro. E Area popolare, fusione fra Ncd e Udc? È il gruppo che ha guadagnato maggiormente dai cambi di casacca: 3 milioni 980 mila euro (+67%).

Twitter: @GiorgioVelardi

(Articolo scritto il 3 dicembre 2015 per ilfattoquotidiano.it)

Trasformisti – Storia dei cambi di casacca in Parlamento fra Prima e Seconda Repubblica

giovedì, giugno 25th, 2015

PARLAMENTONel suo ultimo libro, I dilettanti, Pino Pisicchio, ex sottosegretario dei governi Ciampi e Amato, oggi presidente del Gruppo Misto alla Camera, li definisce «i transumanti». Ma c’è anche chi, spregiativamente, li chiama «voltagabbana» o «trasformisti». Etichette a parte, quello dei parlamentari che decidono di cambiare casacca è un fenomeno che, nell’arco delle diciassette legislature, ha registrato notevoli tassi di crescita. Quella attualmente in corso, addirittura, ha già fatto segnare il record di deputati e senatori passati da uno schieramento all’altro: 210, 103 a Montecitorio e 107 a Palazzo Madama. Numeri monstre, se si considera che mancano ancora tre anni alla conclusione naturale del quinquennio e che, fra il 2008 e il 2013 – periodo segnato dalla “staffetta” a Palazzo Chigi tra Silvio Berlusconi e Mario Monti –, gli inquilini del Parlamento che si sono spostati dal gruppo di appartenenza iniziale sono stati 179 (121 alla Camera e 58 al Senato).

C’era una volta la fedeltà. Si tratta di un modus operandi quasi del tutto sconosciuto nella Prima Repubblica, il periodo storico compreso, in Italia, fra il 1948 il 1994. Dice Pisicchio: «Il controllo esercitato dagli elettori con il voto di preferenza e la forte tenuta dei partiti riuscivano a scoraggiare i cambi di casacca. O a renderli inutili: le articolazioni interne dei partiti, le correnti, l’impianto democratico che ne reggeva la dialettica sulla base del principio proporzionalistico, e, infine, le forti barriere ideologiche che demarcavano le appartenenze, rappresentavano elementi di contenimento e di dissuasione più che sufficienti. Semplicemente – conclude – non facevano sorgere il bisogno di mobilità parlamentare». Non è dunque un caso se, nel corso delle prime undici legislature, alla Camera il numero dei deputati appartenenti al Gruppo Misto (nel quale vengono inseriti coloro che non sono iscritti a nessun’altra componente) abbia oscillato fra le 8 e le 24 unità.

E poi arriva Tangentopoli. Se nelle ultime due legislature della Prima Repubblica la percentuale di «transumanti» era quindi compresa fra il 4% e il 6%, con l’avvento della Seconda il trend è notevolmente cambiato. Perciò “Tangentopoli” (1992) non ha solo spazzato via un’intera classe politica, ma ha segnato un passaggio fondamentale sul fronte della democrazia interna ai partiti. Con la «discesa in campo» di Silvio Berlusconi e la vittoria di Forza Italia alle elezioni del ’94, in Italia nasce un nuovo fenomeno: il partito personale. Scrive Mauro Calise nel libro Il partito personale: «La differenza principale consiste nel fatto che l’apparato collegiale, di tipo organizzativo e ideologico, con il quale operavano i partiti della Prima Repubblica è stato, in gran parte, smantellato e sostituito con un apparato personale. I partiti stanno diventando macchine personali al servizio di questo o quel leader politico. È un fenomeno trasversale, che riguarda destra e sinistra».

Via alla transumanza. Perciò a cominciare dalla XII Legislatura, che pure ha avuto durata breve, appena due anni, per via della caduta del governo guidato proprio da Berlusconi (poi sostituito da un esecutivo tecnico con a capo Lamberto Dini), il fenomeno dei cambi di casacca è diventato una prassi consolidata. Fra il 1994 e il ’96 il 19,24% dei parlamentari sono passati da un gruppo all’altro. Percentuali in crescita se prendiamo in esame la Legislatura successiva (1996-2001). In questo caso, il 21,16% di deputati e senatori ha deciso di “traslocare”. Solo alla Camera, in quegli anni, il Misto ha registrato una considerevole impennata nel numero dei propri aderenti: 94, il 15% dell’intera rappresentanza. Certo, in molti ricordano quanto scritto nella nostra Costituzione all’art. 67, secondo il quale «ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato». Eppure ciò non è sufficiente a spiegare la complessità del fenomeno.

Cambi e ricambi. Basti pensare, ricordando le parole di Calise, a quanto è accaduto nella XVI Legislatura. Dove la “guerra” interna al centrodestra, che pure alle elezioni del 2008 aveva ottenuto ottimi risultati – solo alla Camera, grazie al “Porcellum”, la coalizione con a capo Berlusconi poteva contare su 336 deputati contro i 246 del centrosinistra –, ha portato alla scissione del Popolo della Libertà (Pdl) e alla formazione di Futuro e Libertà per l’Italia (Fli). Un partito guidato dal numero uno di Montecitorio ed ex leader di Alleanza Nazionale, Gianfranco Fini, nato dopo il durissimo scontro andato in scena il 22 aprile 2010 alla direzione nazionale del Pdl. «O fai l’uomo politico o il presidente della Camera», disse Berlusconi a Fini. «Sennò che fai, mi cacci?», rispose lui. La rottura, insanabile, ha visto l’uscita dal Pdl di 70 deputati e 27 senatori. Stretto fra un congiuntura economica sfavorevole e il pressing delle opposizioni, a novembre 2011 Berlusconi ha rassegnato le dimissioni.

Espulsioni e mal di pancia. Come detto, comunque, è la legislatura attualmente in corso ad aver fatto registrare il record assoluto dei cambi di casacca: oltre 10 al mese. Anche stavolta i motivi sono disparati. C’è stata, ad esempio, l’ennesima scissione nel centrodestra: l’implosione del Pdl ha visto il ritorno in vita di Forza Italia, con Berlusconi ancora alla guida, e la nascita del Nuovo centrodestra capitanato da Angelino Alfano. Senza dimenticare la recente creazione, al Senato, del gruppo Conservatori e Riformisti che fa riferimento a Raffaele Fitto. Che dire, poi, dell’arrivo sulla scena del Movimento 5 Stelle? Fra espulsioni e abbandoni, la formazione di Beppe Grillo ha già perso 35 parlamentari. Alcuni dei quali transitati in altri gruppi a parte il Misto. Dopo l’avvento di Matteo Renzi, invece, il Pd si pone come «partito pigliatutto» accogliendo 24 nuovi deputati e senatori. Perdendo, però, uno dei leader della minoranza: Giuseppe Civati. E non è detto che sia finita qui.

Twitter: @GiorgioVelardi

Lettera aperta a Nanni Moretti (e a tutti gli intellettuali di “sinistra” rimasti in Italia) – di Mariaelena Prinzi

lunedì, maggio 4th, 2015

Nanni_MorettiGentile Sig. Moretti,

Non conoscendola direttamente non mi permetto inutili e fastidiose confidenze. Sono una giovane insegnante, ho poco più di trent’anni, sono cresciuta a Monteverde tra le “sue” vie e un tempo ero innamorata dei suoi film.

Ebbene sì, un tempo.

Ormai sono grande e dovrei sapere che nulla è per sempre, dunque nemmeno lei e la sua arte. Era il 1998 quando, con la sua consueta ironia, supplicava un D’Alema intrappolato in un televisore di dire qualcosa di sinistra. Ma purtroppo non accadeva nulla. E sempre in quella pellicola, con un tono tra il serio e il faceto, spiegava ad un incredulo giornalista francese “l’anomalia Berlusconi”. E poi è venuta l’epoca dei girotondi e de “Il caimano” (2006).

E poi? E ora?

Cosa sta facendo, signor Moretti? Capisco il suo impegno artistico per produrre film di qualità che, ahimè, ormai sono distribuiti anche nelle grandi multisala (mi conceda uno sfogo nostalgico per quei piccoli cinema in via d’estinzione che programmavamo film indipendenti) ma una parola, un mezzo girotondo, un tweet – ormai anche il Santo Padre li usa – potrebbe anche farlo. Le sarà giunta voce che alla Camera è in arrivo il disegno di legge sulla scuola presentato dai ministri Giannini, Madia e Padoan, che mina alla base il principio cardine dell’insegnamento: la sua libertà. Come sanciscono gli articoli 33 e 34 della Costituzione. Gli dia un’occhiata, così per scrupolo. Se dovesse concordare con quanto proposto, beh mi scuso in anticipo per il disturbo arrecatole. Ma se per sbaglio non dovesse essere… D’accordo, ci dica qualcosa.

E se poi le venisse voglia di commentare anche la legge elettorale appena passata alla Camera con la fiducia, che, come lei ricorderà, ha solo due precedenti nella nostra storia repubblicana – la legge Acerbo del 1923 e la legge Scelba del 1953 – e che, come avrà notato, è il 41esimo provvedimento a cui viene messa la fiducia, lo faccia. Vede, io sono cresciuta nell’“epoca del berlusconismo” e mi sono incredibilmente salvata. E ascoltavo con attenzione e interesse le sue critiche. Ma vede, tutto sommato è facile criticare chi si trova dall’altra parte della “barricata”; arduo è farlo con chi ci sta accanto o dice di esserlo.

Vengo al punto.

Se dovesse sentire l’irrefrenabile desiderio di dire qualcosa di sinistra, qualsiasi cosa, lo faccia. Perché vede purtroppo c’è stata una moria e, oltre al signor Bertinotti e al signor Cossutta, i comunisti sono spariti. E quei pochi che si definiscono ancora tali esitano, hanno paura di criticare. Eppure loro, al contrario della sottoscritta, la storia l’hanno vissuta e non studiata sui libri e sanno quale prezzo pagò il Pci per non aver rinnegato prontamente alcuni movimento violenti extraparlamentari che si definivano “di sinistra”.

Ma questa è un’altra storia. Mi scuso, probabilmente l’ho annoiata e, solo a fatica, è giunto a queste ultime righe. Ma l’ho dichiarato sin dall’inizio: sono soltanto una giovane insegnante. Magari un po’ sognatrice e logorroica, come tanti colleghi, ma nulla di più.

La saluto con le parole di Gaber, che magari lei avrà anche avuto la fortuna di conoscere: “Qualcuno era comunista perché credeva di poter essere vivo e felice solo se lo erano anche gli altri. Sì qualcuno era comunista perché con accanto questo slancio ognuno era come più di se stesso. No niente rimpianti (…), perché ormai il sogno si è rattrappito”.

E se fosse sparito?

Mariaelena Prinzi (Docente e Giornalista)

Europee, Berlusconi ha l’asso nella manica (e si chiama Matteo Renzi)

domenica, marzo 23rd, 2014

Berlusconi_3«I miei figli non saranno in campo alle Europee». Silvio Berlusconi lo ha assicurato sabato 22 marzo da Roma. Conoscendo l’ormai ex Cavaliere, non sappiamo se crederci o meno. Di certo è la prima volta – dopo voci di corridoio e retroscena sui giornali – che l’uomo di Arcore interviene direttamente sull’argomento. Lo fa dopo la conferma dell’interdizione dai pubblici uffici da parte della Cassazione. E infatti, dal palco dell’auditorium del Seraphicum dell’Eur (dove è andata in scena la prima conferenza dei club “Forza Silvio” del Lazio), egli non ha risparmiato nuovi attacchi alla magistratura, definita «un contropotere dello Stato».

Non sappiamo, come detto, se Marina e Barbara (Pier Silvio se n’è già tirato fuori) saranno realmente fuori dalla corsa per il rinnovo del Parlamento europeo – le elezioni si svolgeranno il prossimo 25 maggio. A questa situazione si può comunque dare una doppia lettura.

La prima, forse la più ovvia, è che quella di Berlusconi sia una boutade, un voler gettare fumo negli occhi di chi, negli ultimi mesi e settimane, ha indicato nei suoi figli l’unica via per cercare di stare al passo con il Pd di Matteo Renzi, il 38enne che nel giro di pochi anni si è preso tutto, compreso Palazzo Chigi. In Forza Italia sono molti quelli che vedono Marina e Pier Silvio come i successori naturali del padre Silvio. La prima, per il momento, ha sempre rispedito l’invito al mittente; il secondo, viaggiando sulla stessa lunghezza d’onda, non sembra intenzionato a lasciare l’azienda di famiglia (Mediaset) per gettarsi nell’agone politico. Pare comunque ovvio che, nel giorno del “giudizio”, difficilmente i due potranno tirarsi indietro. Barbara è invece più staccata soprattutto fra chi, come i vari Brunetta e Romani, non vede nella dynasty familiare di B. la soluzione per poter ridare lustro ad una creatura creata ad immagine e somiglianza dell’ex premier. Fattore che è stato, dal 1994 ad oggi, la delizia ma anche – e soprattutto – la croce del centrodestra italiano.

Il rovescio della medaglia è una strategia molto più certosina, che vuole Berlusconi “consapevolmente perdente” alle elezioni Europee a vantaggio del Pd Matteo Renzi. Il motivo? Entrare – anzi meglio: rientrare – nella maggioranza di un governo a trazione Pd dopo il 25 maggio. Da un lato, ciò permetterebbe a Forza Italia di recuperare punti agli occhi di un elettorato che dopo Berlusconi vede ben poco, e che potrebbe (in casi non troppo estremi) virare sul M5S di Beppe Grillo; dall’altro, questo scenario permetterebbe all’ex Cav. di ingabbiare il «traditore» Alfano e il Nuovo centrodestra, il partito nato dopo l’implosione del Pdl. Su Berlusconi pesa come un macigno la condanna per i diritti Tv Mediaset. Il 10 aprile, giorno in cui egli saprà dove sconterà la sua pena, si avvicina. L’orologio scorre. Già in settimana, da Arcore, potrebbe uscire la strategia definitiva. Non è da escludersi l’ennesimo colpo di teatro.

Twitter: @GiorgioVelardi

Evasione fiscale, da che pulpito viene la predica…

domenica, ottobre 27th, 2013

Soldi_evasioneIn Tv, all’ora di pranzo (tanto per farti andare il boccone di traverso), parlano di evasione fiscale e lavoro nero. Lo fanno invitando gli esponenti di quei partiti che hanno “depenalizzato” il falso in bilancio, emanato condoni a manetta – 7 dal 1973 ad oggi (due dei quali da parte dei governi Berlusconi, 2003 e 2009, con Tremonti ministro dell’Economia) – e permesso il rientro dei capitali dall’estero (il cosiddetto “scudo fiscale”) a fronte del pagamento di una somma del 5% a titolo di imposte, interessi e sanzioni. Insomma: hanno fatto il solletico agli evasori, a cui questa situazione è piaciuta non poco. L’Agenzia delle Entrate, quella che se un contribuente in regola commette un errore anche solo nel compilare un modulo ti manda a casa la letterina di rimbrotto (con richiesta di pagamento di mora annessa), dice di non avere «gli strumenti adeguati» per combattere fenomeni di questo tipo. Certo. Sarà che forse l’Italia è popolata di tanti Denis Verdini (Pdl) – «Sì, ho preso dei soldi in nero. Ma è una cosa normalissima, si fa così nella vita», ha dichiarato pochi giorni fa davanti alle telecamere di “Report” – e di tanti che i “Verdini” di turno non li vogliono vedere. Chissà perché…

Il gioco dell’oca

sabato, aprile 20th, 2013

NapolitanoGame over. O meglio: è solo l’inizio. Quello del secondo mandato di Giorgio Napolitano al Quirinale, prima volta nella storia della Repubblica italiana. L’uomo del Colle ha detto sì a chi gli chiedeva di restare al suo posto per altri 7 anni. Questa mattina il capo dello Stato ha incontrato le delegazioni dei maggiori partiti, tranne il Movimento 5 Stelle che compatto voterà fino all’ultimo Stefano Rodotà.

Niente Marini, niente Prodi, niente D’Alema e niente Amato, figura molto vicina a Napolitano che il presidente uscente si pensava potesse consigliare a chi lo ha raggiunto al Quirinale. Qualche ora per decidere, poi l’annuncio: «Sono disponibile, non posso sottrarmi alla responsabilità». La sesta votazione risulta quasi superflua, “Re Giorgio” sarà ancora l’inquilino del Colle. Ma è una scelta che divide e che, a conti fatti, rende la situazione stagnante come non mai.

Un capo dello Stato diverso avrebbe portato, al 99%, ad un superamento dell’attuale impasse in cui le forze politiche sono piombate dopo le elezioni del 24 e 25 febbraio. In questo modo, invece, il rischio è quello di ritrovarsi al punto di partenza, come nel gioco dell’oca. La scelta di ricandidare Napolitano provoca un altro – l’ennesimo – terremoto nel centrosinistra. Se il Pd questa volta sembra essere stranamente unito (anche se il sindaco di Bari Michele Emiliano cinguetta: «Approfittando dell’amore x l’Italia del nostro vecchio ed amato Presidente stanno facendo un inciucio Pd-Pdl che fa orrore: votate Rodotà»), la coalizione “Italia bene comune” si è squagliata come neve al sole. Lo ha fatto capire apertamente, malgrado il pizzico di politichese che lo contraddistingue, Nichi Vendola (Sel), che a metà pomeriggio in una conferenza stampa a Montecitorio ha parlato di un «Berlusconi vero vincitore della partita per il Quirinale», rigettando l’ipotesi delle larghe intese («Noi saremo all’opposizione», ha detto il governatore della Puglia) e lodando l’atteggiamento del Movimento 5 Stelle (con cui condivide la candidatura di Rodotà).

Ma a destare ancora più scalpore, visto che il suo nome è da settimane in cima alla lista delle figure che potrebbero rinnovare il centrosinistra, è il tweet che il ministro per la Coesione territoriale Fabrizio Barca, neo tesserato del Pd, invia intorno alle 15.00. «Incomprensibile che il Pd non appoggi Stefano Rodotà o non proponga Emma Bonino», scrive. Chiaro. Preciso. Destabilizzante.

Il prossimo futuro appare chiaro: si viaggia col vento in poppa verso le larghe intese. Ora resta da capire chi sarà il capitano di un governo che durerà il tempo di mettere in pratica i dettami dei dieci saggi, in primis la modifica della legge elettorale. Poi si tornerà a votare. E nel giorno del suo 64esimo compleanno, per Massimo D’Alema potrebbe arrivare un regalo inatteso: la guida del nuovo esecutivo.

Twitter: @GiorgioVelardi

Le cause della caduta di Bersani

sabato, aprile 20th, 2013

bersani«È troppo per me». Quattro parole che pesano come un macigno. Pierluigi Bersani le pronuncia al termine dell’ennesimo tonfo, Prodi bocciato dopo Marini, che testimoniano la fine di un Pd passato dall’essere acronimo di “Partito democratico” a “Psicodramma democratico”.

Il segretario (dimissionario) dei democratici si ritrova isolato, con pochi fedelissimi rimasti a consolarlo. Serve a poco. Bersani non ha più un partito che lo sostenga, correnti le cui onde si muovono in ordine sparso, pugnalato persino da quelli che gli avevano giurato amore eterno e che sarebbero stati al suo fianco comunque sarebbe andata. La quadra perfetta la trova Fausto Raciti, classe ’84, appartenente alla pattuglia dei “giovani turchi” e alla prima esperienza parlamentare, che in un’intervista a La Stampa sintetizza così quanto accaduto fra giovedì e venerdì: «Siamo il peggior gruppo parlamentare della storia, un covo di irresponsabili. E – chiosa tranchant – non è colpa dei giovani».

E allora, viene da chiedersi, chi ha condotto il Pd a cadere sul ciglio del burrone nel quale è caduto? Bersani non ha fatto tutto da solo, certo, ma il segretario ha sulle proprie spalle le colpe peggiori. Sono almeno 4 i motivi che hanno portato il Pd – uscito «non vincente» dalle elezioni, poi in balia del Movimento 5 Stelle e infine auto-impallinatosi nel corso dell’elezione del nuovo capo dello Stato – a vivere una situazione ai limiti dell’irrealtà:

1- L’aver sopravvalutato la forza di Scelta Civica. C’è chi pensa, pensiero condivisibile, che Bersani la partita l’abbia persa ancor prima che si giocasse. In fase di riscaldamento, ovvero le primarie. Vinta la corsa alla premiership con Matteo Renzi, forte di un Pd spostato a sinistra – prova ne è, o ne era, l’asse fra Bersani e Nichi Vendola – il partito ha cercato a tutti i costi il dialogo con i “montiani”. Scelta che si è rivelata suicida, un po’ perché il governo tecnico guidato dall’ex Commissario europeo era (ed è) visto col fumo agli occhi dagli italiani – complice la «paccata» di tasse imposte nell’ultimo anno e mezzo – e un po’ perché “sposarsi” con Monti e co. avrebbe voluto dire rinunciare ad una parte di quelle tematiche da sempre care all’elettorato di sinistra (diritti civili in primis, ma anche la politica economica ne avrebbe pesantemente risentito). Poi è accaduto quello che non ti aspetti e cioè che Scelta Civica alle elezioni racimoli solo l’8,30% alla Camera e il 9,13% al Senato, contro l’oltre 15% in entrambe le Camere pronosticato dai più illustri sondaggisti. A Palazzo Madama, dove il centrosinistra è in minoranza, i 20 senatori “montiani” si rivelano ininfluenti. Il delitto perfetto non c’è stato, si sono lasciate tracce sul terreno che risulteranno fatali, come si è visto, al segretario del Pd;

2- L’aver sottovalutato il Movimento 5 Stelle. Prima era un «fascista», poi – dopo l’ecatombe alle elezioni – Beppe Grillo è diventato, nei desiderata del segretario, il primo interlocutore per il Pd. «Il Movimento 5 Stelle ci dica cosa vuole fare», affermava Bersani pochi giorni dopo le votazioni. Eppure i “grillini” erano stati chiari fin da subito: nessun accordo con nessuno, tantomeno con B&B. Detto, fatto. L’incontro in diretta streaming fra i due capigruppo del M5S, Vito Crimi e Roberta Lombardi – la quale, ad un certo punto, se n’è uscita dicendo: «Mi sembra di essere a Ballarò» – è passato alla storia come un’umiliazione bella e buona per “Pier”. Tanto che Renzi, ormai destinato ad essere il futuro del Pd, lo ha detto chiaro e tondo in un’intervista al Corriere della Sera trovando più consensi che dissensi dalle parti di Largo del Nazareno. Ciliegina sulla torta è stata la scelta del nuovo capo dello Stato. Grillo propone l’ex garante della privacy Stefano Rodotà, l’elettorato del Pd gradisce e con lui anche una parte dei parlamentari piddini. Bersani, invece, vede Berlusconi e sceglie Marini, poi ne esce con le ossa rotte e vira su Prodi. Sappiamo com’è andata. Errare è umano, perseverare è diabolico;

3- L’aver sottovalutato Berlusconi. Si badi bene: non il Pdl, ma Berlusconi. Bersani doveva «smacchiare il giaguaro» e alla fine, scherzo del destino, il giaguaro lo ha divorato. Un Popolo della Libertà senza il Cavaliere sarebbe stato destinato all’irrilevanza. Ma Berlusconi è Berlusconi e poco ci puoi fare. Soprattutto se rinunci a fare la campagna elettorale, com’è accaduto a Bersani, e se quelle poche volte in cui ti presenti di fronte al pubblico (televisivo) ti limiti a dire che per far ripartire un’Italia dal motore ingolfato serve «un po’ di lavoro». Mentre il segretario Pd cercava, come detto, l’appoggio dei 5 Stelle, l’ex premier spingeva per un “governissimo” che gli avrebbe permesso comunque di governare (pur con tutti i limiti del caso) e radunava le truppe. A Bari, sette giorni fa, la presenza dei militanti era importante. E i sondaggi – da prendere con le molle dopo quanto accaduto a fine febbraio – danno la coalizione di centrodestra in vantaggio (in certi casi) addirittura del 4% sul centrosinistra. Se Renzi non scende in campo la probabilità è quella che Berlusconi, più che il nonno, faccia nuovamente il premier;

4- Non aver ascoltato gli elettori. È la colpa più grave imputabile a Bersani. Già dalle primarie si era capito che il segretario avrebbe violato il patto con la sua gente, quella che lo aveva votato per due volte alle primarie perché Renzi era «democristiano» e – colpa più grave – «berlusconiano». Recarsi “col cappello in mano” da Monti non è piaciuto all’elettorato del Partito democratico, andato ad ingolfare le fila del Movimento 5 Stelle condannandolo al pubblico ludibrio. Il resto è storia. Le contestazioni dinanzi al Teatro Capranica, a Roma, la sera in cui l’assemblea del Pd decideva per la candidatura di Franco Marini al Colle sono la punta dell’iceberg contro cui un partito che sembrava inaffondabile si è invece scontrato andando giù come una bagnarola.

Twitter: @GiorgioVelardi    

Una politica da Oscar – da “Il Punto” del 25/01/2013

lunedì, febbraio 4th, 2013

Colloquio con il leader di “Fare”. «L’Agenda Monti ha ridato vigore a Berlusconi, mentre Bersani ha accettato la contrapposizione fra due armate che in diciotto anni hanno prodotto risultati terribili. Il Professore? Il suo è un programma non impegnativo, che indica delle linee senza prendere posizioni concrete»

Giannino_blogMi perdoni per il ritardo, ma in queste settimane sto facendo più o meno la vita di un topo in trappola». A parlare è Oscar Giannino, uno dei più autorevoli giornalisti economici italiani e – da qualche mese a questa parte – leader di “Fare”, il movimento con cui si candida a guidare l’Italia. Una corsa solitaria, la sua, che rende la sfida difficile. Però, dice Giannino nel corso del colloquio con Il Punto, «noi rimarremo in campo qualunque sia il risultato. Se la Seconda Repubblica non sarà superatala sfida resterà aperta».

Il 24 e 25 febbraio gli italiani tornare alle urne. Ci sono Berlusconi, Bersani, Casini, Fini, Montezemolo… Giannino, siamo davvero nel 2013?

«No, perché questa è la classica campagna elettorale da Seconda Repubblica. Mi auguro che le conclusioni siano migliori delle premesse e che questa logica si riesca a superare. Purtroppo l’Agenda Monti – nelle forme in cui è stata costruita e presentata – ha ridato vigore a Berlusconi, che ha guadagnato il 7% tornando a riproporre per la sesta volta le stesse cose. Anche Bersani, malgrado l’aplomb iniziale, ha accettato la contrapposizione fra due armate che in diciotto anni hanno prodotto i risultati terribili che vediamo attraverso i dati dell’economia reale».

Poi ci sono Grillo, Ingroia e lei, che ha detto di non volere un accordo con i moderati ma con gli indignati. Quanti sono, a suo avviso, coloro che compongono questa categoria?

«In tutto il corso della storia repubblicana, serie storiche alla mano, non abbiamo mai avuto una percentuale di indecisi o potenziali astenuti elevata come adesso: 40% nel primo caso, 35 nel secondo. Quello di scontenti, delusi e arrabbiati è un oceano vastissimo. Il primo dato che io osservo per misurare la sofferenza dell’Italia è quello relativo al numero di famiglie che dichiarano di dover mettere mano ai risparmi per poter andare avanti. L’ultimo dato fornito dall’Istat, che risale allo scorso novembre, parla del 32,8% di nuclei costretti ad attingere dai loro accantonamenti. Eppure nel 2008, quando iniziò il governo Prodi, eravamo fermi al 12%, e nel novembre del 2011 al 22. Pensare che nel nostro Paese non si possa assistere a scene come quelle viste nelle piazze di Spagna e Grecia è un errore. Ci sono punti di rottura oltre i quali non può che esplodere una protesta cieca».

Non è un mistero che il suo movimento sia stato molto vicino a Italia Futura di Montezemolo. Poi avete “divorziato” e lei ha commentato: «Mi sono sentito come un clandestino a bordo. Forse non siamo stati abbastanza allineati». A cosa?

«Da ottobre – quando ci hanno messo alla porta – fino alla presentazione delle liste montiane, ho toccato con mano un programma troppo vincolante nei numeri da una parte, e la mancanza di idee taglienti dall’altra. Si è seguita l’impostazione di Montezemolo e dei suoi di essere monopolisti nella selezione dei componenti della società civile».

E Monti?

«Con lui ho un buon rapporto e lo manterrò, perché bisogna distinguere fra politica e stima personale. L’ho incontrato una volta che le liste erano state chiuse e gli ho detto che se l’ex direttore generale di Confindustria Galli, quello di Confcommercio Taranto e il segretario generale della Cisl Santini si candidano col Pd, forse l’errore è stato quello di affidare a Sant’Egidio e Montezemolo la decisione di chi dovesse entrare o meno in lista. Lo dico perché pensavo che ci mettessimo finalmente la Seconda Repubblica alle spalle; ma per fare ciò ci sarebbe stato bisogno di un appello molto ampio alla società civile, come fece de Gaulle in Francia a cavallo fra la Quarta e la Quinta Repubblica. Questa cosa nell’Agenda Monti non c’è stata».

Restiamo sull’Agenda: qual è l’aspetto peggiore di questo documento, criticato anche da persone vicine a Monti come Passera e Giavazzi?

«Mi preoccupa il fatto che sia un programma non impegnativo, che indica delle linee senza prendere posizioni concrete. L’Agenda non precisa – per esempio – di quanti punti di Pil verranno tagliate la spesa pubblica e le imposte, oppure cosa si intende fare riguardo le dismissioni. La parte più concreta mi sembra quella che riguarda il mercato del lavoro, scritta da Pietro Ichino. Il resto è qualcosa di fumoso, non c’è stato quel cambio di marcia che mi sarei aspettato da Monti una volta terminato il periodo di governo al fianco della “strana maggioranza”».

La corteggiano Corrado Passera, Fratelli d’Italia e il Pd. Lei però corre da solo. Una scelta coraggiosa…

«Il nostro obiettivo è quello di andare oltre il dualismo fra berlusconiani e anti-berlusconiani. Questo per noi è solo il primo passo: più avanti spero che persone come Corrado Passera, Emma Marcegaglia, Luigi Abete e tanti altri pezzi della società civile diventino risorse attive per l’Italia. Noi rimarremo in campo qualunque sia il risultato, restando un cantiere in cui invitare le persone a pensare a come poter cambiare le cose. Se la Seconda Repubblica non sarà superata la sfida resterà aperta».

La sua decisione passa anche attraverso un’operazione di “liste pulite”, come testimonia il caso di Giosafat Di Trapani in Sicilia…

«È stata una scelta inevitabile. La gente si arrabbia – a ragione – quando legge le storie di tesorieri che sperperano denaro pubblico o di consiglieri regionali che guadagnano “legalmente” il 50% in più del presidente degli Stati Uniti. Le “liste pulite” sono solo il punto d’inizio di una nuova etica che occorre per questo Paese. Tornando al caso che ci riguarda, Giosafat Di Trapani (presidente della piccola impresa di Confindustria e candidato numero tre alla Camera per la Sicilia 1 di “Fare”, ndr) lotta da 25 anni contro il racket e la mafia, ma non ci ha parlato di una sua condanna in primo grado per favoreggiamento al figlio di Ciancimino (1992, ndr) poi finita in prescrizione in secondo. L’ho chiamato e ci siamo trovati d’accordo nel non candidarlo».

Ipotizziamo che lei vinca le elezioni. Quale sarebbe il suo primo provvedimento da capo del governo?

«Il nostro è un programma impegnativo, che prevede – fra le altre cose – l’abbattimento del debito attraverso le dismissioni e il rientramento della spesa pubblica. Bisogna innanzitutto superare un ostacolo, rappresentato dai vertici della Pubblica amministrazione. Nel dire sì o no alle decisioni che vengono prese in questo Paese la mano della parte “tecnica” è molto forte. Va abbandonata la concezione che lo Stato non debba cedere niente. Una premessa a tutti i provvedimenti è quella di sostituire un bel po’ de gli alti dirigenti pubblici. Attenzione: ciò non va fatto in base al partito di appartenenza, ma riportando in patria nostri connazionali che hanno collaborato alla ristrutturazione del debito di economie estere in difficoltà e che conoscono la selva amministrativa e le complicazioni del bilancio italiano. A questo potere opaco, di cui la politica si occupa poco, vanno cambiati indirizzi e facce».

«La classe politica ha fallito, tranne limitate eccezioni personali», ha detto lei. Renzi poteva dare una scossa?

«Se Matteo non avesse accettato la regola delle primarie chiuse con cui il partito lo ha fregato, ma avesse chiesto che le stesse fossero state aperte come quelle del 2006, sarebbe stato la vera grande novità della politica di casa nostra. Di conseguenza si sarebbero verificate tre cose. Primo: Renzi avrebbe vinto e sarebbe stato il primo leader del Pd a rompere la continuità di una leadership scelta dall’oligarchia in diretta continuità con il Pci; secondo: noi avremmo aperto un cantiere insieme ai democratici per un programma comune; infine, credo che l’effetto-Renzi avrebbe disallineato l’intera offerta politica italiana creando un orizzonte che avrebbe consegnato Berlusconi al passato. Il Pd ha perso una grande occasione, personalmente mi auguro che lui continui per la sua strada anche in futuro».

Maroni le ha inviato un sms prima di andare ad Arcore da Berlusconi e le ha scritto: «Vado a rompere con lui». Poi è accaduto il contrario…

«Maroni si è reso protagonista del cambiamento all’interno della Lega, cosa che io apprezzo molto. Prima che ricucisse con Berlusconi abbiamo parlato più volte e, anche in vista del voto in Lombardia, gli ho chiesto se andasse avanti con il suo progetto tenendo duro contro il Cavaliere. Fino a poche ore prima che andasse ad Arcore – siccome i mal di pancia nella Lega erano fortissimi – mi ha detto che malgrado le difficoltà avrebbe provato a rompere. Poi, come ha detto lei, le cose sono andate diversamente…».

È deluso da questo atteggiamento?

«L’errore commesso è stato grave: non so se il Carroccio vincerà in Lombardia ma, al di là di questo, lo sbaglio si riferisce ai temi cari alla Lega e al popolo del Nord. Soggetti ai quali Berlusconi, in diciotto anni,non ha dato nulla. È innegabile, quindi, che la decisione di Maroni mi abbia deluso».

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Rincontrarsi ad Arcore – da “Il Punto” del 18/01/2013

giovedì, gennaio 24th, 2013

Pdl e Lega di nuovo insieme. Ma i nodi da sciogliere sono molti. Mentre i militanti del Carroccio se la prendono con Maroni per il passo indietro compiuto, la partita nazionale si intreccia sempre di più con quella regionale

SECURITY: MARONI, OPEN WI-FI CONNEXCTIONS STARTING JANUARY 1La notte porta consiglio. Un vecchio adagio che Silvio Berlusconi e Roberto Maroni hanno applicato alla lettera all’una e trenta del sette gennaio scorso, quando ad Arcore hanno deciso di ricostruire l’asse del Nord. Pdl e Lega di nuovo insieme. Come nel ’94, nel 2001, nel 2006 e nel 2008. Sembrano lontani i tempi in cui Bossi dava del «suino Napoleon» e addirittura del «nazista, nazistoide, paranazistoide» al Cavaliere (1995). Il quale non esitava a replicare con epiteti non meno teneri: «Bossi è un Giuda, un ladro di voti, un ricettatore, truffatore, traditore, speculatore». Sono passati quasi vent’anni. Sembrano secoli. Ora alla guida del Carroccio c’è Maroni, l’uomo che il 27 gennaio 2012, con la ramazza in mano, annunciava che «se Berlusconi ora appoggia Monti poi quando si andrà alle elezioni non può chiedere alla Lega di fare accordi perché qualche problema c’è». L’uomo, si sa, dimentica in fretta. E il segretario leghista non è stato da meno. «Andare da soli avrebbe dato soddisfazione ai malpancisti, dopodiché il 26 febbraio la Lega si sarebbe dovuta interrogare per capire le cause della propria sconfitta. È un’occasione storica per realizzare il nostro grande sogno, e io non me la voglio far scappare», ha dichiarato l’ex ministro dell’Interno commentando il nuovo apparentamento col Pdl.

TUTTO SULLA LOMBARDIA - L’occasione a cui fa riferimento il successore di Umberto Bossi è la guida della Regione Lombardia. La stessa che negli ultimi diciassette anni è stata nelle mani di Roberto Formigoni, schiacciato dal peso delle inchieste che dal 2010 hanno investito il Pirellone (da Nicole Minetti a Domenico Zambetti, passando per Davide Boni e Filippo Penati) e costretto alle dimissioni nell’ottobre del 2012. Dopo la guerra di posizione con l’ex sindaco di Milano Gabriele Albertini, poi confluito nella lista civica di Monti, Maroni è diventato il candidato unico del centrodestra. I suoi obiettivi sono precisi: costituire la macroregione del Nord (con Piemonte e Veneto) e trattenere il 75% delle tasse sul territorio. Uno “strano” progetto, quello dell’ex numero uno del Viminale, visto che a settembre fu lo stesso Formigoni – dal palco della festa provinciale della Lega Nord di Brescia – a ipotizzare la formazione della macroregione e dell’euroregione. «Si tratta di una finta o poco più di una finta», tagliò corto “Bobo”, perché «la Costituzione dice che le Regioni possono solo fondersi» (secondo quanto prevede l’art. 132). «Maroni è stato pragmatico, per lui l’accordo col Pdl era vitale per avere una qualche chance di vittoria in Lombardia», è il giudizio di Alessandro Campi, politologo e direttore della Rivista di Politica. «Il segretario leghista ha dettato le sue condizioni, fra cui la garanzia che Berlusconi non sarà il candidato premier del centrodestra». Una promessa che sarà mantenuta in caso di vittoria, visto che la Lega ha indicato Tremonti? «A quel punto il leader del Pdl farà sicuramente il presidente del Consiglio», risponde Campi, che definisce «preoccupante il rilancio dello storico progetto secessionista della Lega», anche se «in una forma apparentemente soft». Se il Carroccio dovesse vincere in Lombardia «si porrebbero dei problemi molto seri rispetto alla tenuta della struttura istituzionale del Paese», conclude. Oltre che preoccupante, il progetto di formazione della macroregione del Nord appare di difficile realizzazione. Questo perché andrebbe modificata la Costituzione, il che richiederebbe una larga maggioranza a disposizione. I sondaggi, malgrado la quotidiana rimonta di Berlusconi, vedono la coalizione di centrodestra indietro rispetto a quella di centrosinistra. Ma la vittoria di Pdl e Lega in Lombardia renderebbe “instabile” il successo di Bersani e Vendola, visto che per colpa del “Porcellum” questa Regione assegna 49 seggi sui 315 totali al Senato. E Maroni, secondo le ultime rilevazioni, è in vantaggio su Umberto Ambrosoli, figlio di Giorgio (l’avvocato assassinato nel 1979) e vincitore delle primarie del Pd.

ALLA FACCIA DELLA BASE - Un accordo che sembra però scontentare i leghisti “duri e puri”. Ad ottobre avevamo incontrato alcuni di loro a Milano durante la “gazebata” organizzata dal Carroccio (la stessa che, in Lombardia, vide Maroni vincitore indiscusso delle “primarie fai da te” per la corsa al Pirellone). Alla nostra domanda su cosa ne pensassero di un possibile nuovo accordo con il partito dell’ex premier, molti ci avevano risposto così: «Diciamo basta all’alleanza col Pdl. Meglio perdere ma conservare l’onore che vincere con questi qua». Commenti che abbiamo ritrovato, sia nella forma che nella sostanza, consultando in questi giorni i principali forum dei militanti. Su Giovani Padani, per esempio, LoSpada scrive: «Siete pronti, cari leghisti, ad una nuova fantastica alleanza col Pdl “per il bene del Nord”? Mamma mia che tristezza!!». Mentre per un altro utente, padanus, «Berlusconi è finito, ha deluso troppo, ci ha preso in giro per anni e noi fessi a credere in lui, compreso il sottoscritto e la tantissima gente con cui parlo qui nel Veneto». Non è finita qui. Perché spostandoci sul forum della Lega Nord di intopic.it scopriamo seguaci ancora più irritati dal nuovo sodalizio fra Berlusconi e Maroni. «Anche questa volta avete dimostrato il vostro spessore morale. Spero proprio che gli italiani e soprattutto i lombardi non si dimentichino di quello che siete riusciti a combinare nella scorsa legislatura», dice Luigi. «Hanno stretto l’accordo. Vergogna!», è invece il commento di Gab, a cui risponde Lucio1: «Basta ricordarsene quanto ci saranno le elezioni». C’è, dunque, il rischio dell’effetto boomerang e di una nuova disaffezione della base leghista? «È probabile», afferma a Il Punto Antonio Noto, direttore di IPR Marketing. «Nel momento in cui si è formato il governo Monti la Lega ha fatto capire che non ci sarebbe potuta più essere un’alleanza con il Pdl. E su Berlusconi, oltre al giudizio politico, pesa quello sulla persona. Per gli attivisti – conclude il sondaggista – questo è sicuramente un colpo al cuore, che si accompagna alla confusione enorme che riguarda la mancanza di un candidato premier certo della coalizione. Non ho mai visto una situazione del genere».

STORACE CANDIDATO – Ma da Nord a Sud i nodi da sciogliere prima del voto di fine febbraio sono numerosi. Al Centro, solo pochi giorni fa, è stato risolto il problema riguardante la corsa per il controllo di un’altra Regione chiave, il Lazio, dopo la fine anticipata dell’era Polverini. Mentre il centrosinistra ha comunicato da tempo il nome del proprio candidato, l’ex presidente della Provincia di Roma Nicola Zingaretti, nel centrodestra la lotta fra correnti ha creato stordimento nell’elettorato. Alla fine, malgrado la componente del partito vicina al segretario Angelino Alfano avesse proposto Beatrice Lorenzin, la scelta è ricaduta sul leader de La Destra Francesco Storace. Nei sondaggi l’ex ministro della Sanità è in ascesa, ma una parte del partito – in primis la costola laziale – gli avrebbe preferito l’ex capo della Segreteria tecnica di Paolo Bonaiuti. Una decisione difficile, tanto che negli ultimi giorni Berlusconi pare abbia fatto commissionare un sondaggio in cui sono stati inseriti anche i nomi della governatrice uscente Renata Polverini, del rettore dell’Università La Sapienza Luigi Frati, del presidente della Lazio Claudio Lotito, del vicesindaco di Roma Sveva Belviso e del magistrato Simonetta Matone. Alla fine, però, si è scelto di rompere gli schemi. Qualcosa di nuovo sotto il sole.

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«Fratelli d’Italia una scelta di dignità. Monti? Ha fatto vedere chi è veramente» – da “Il Punto” del 18/01/2013

mercoledì, gennaio 23rd, 2013

Guido CrosettoC’è una data che fa da spartiacque nella carriera politica di Guido Crosetto: il 6 dicembre 2012. Giorno in cui, ospite di “Omnibus” su La7, l’ex sottosegretario alla Difesa esce di scena a puntata in corso. «Non ho più niente da dire e non voglio continuare a parlare del vuoto», afferma prima di lasciare lo studio. «Alle parole ho preferito i fatti, e nelle settimane successive me ne sono andato dal Pdl», dice contattato da “Il Punto”.

Dopo la fuoriuscita dal Pdl, insieme a Giorgia Meloni e Ignazio La Russa, è nato Fratelli d’Italia. Qualcuno l’ha definita «il Renzi del centrodestra». Si sente così?

«No, mi sento una persona normale che ha voglia di un centrodestra normale. E che pensa che ci sia “l’altro modo” di essere di centrodestra. Quello che avrebbe dovuto essere il Pdl, un partito che anche grazie alle bordate mie e di Giorgia (Meloni, ndr) sta cercando di cambiare rotta. Oltre alla necessità di mettere in lista persone che rappresentino il territorio, ci sarebbe bisogno di un progetto politico chiaro e di una maggiore democrazia interna».

I detrattori del suo movimento hanno sottolineato l’assenza di un orizzonte politico…

«Noi siamo di centrodestra, non rinneghiamo la nostra posizione politica. Nel Pdl sia io che la Meloni e La Russa avremmo avuto i primi posti nelle rispettive Regioni, ma abbiamo preferito fare una scelta di dignità. A differenza di altri, che prima si fanno eleggere e poi fondano i partiti, noi tre abbiamo deciso di giocarci la nostra scommessa prima».

Siete comunque in coalizione con il Pdl…

«Guardiamo al Pdl ma siamo alternativi al Pdl. Se il partito ha perso il 20% dei consensi un motivo ci sarà. Noi dobbiamo essere un riferimento credibile per i moderati italiani, da quelli che hanno votato Renzi alle primarie del Pd a quelli che una volta sceglievano Alleanza nazionale».

La Russa ha parlato di un «4% certo» e di una «potenzialità del 14%». Secondo lei dove potete arrivare?

«È un problema che non mi sono posto. Mi sono preso delle responsabilità e sono cosciente del fatto che potrei non essere eletto. Ma non è ciò che mi interessa. Piuttosto, intendo concentrarmi sul progetto».

Nel frattempo, per rendere possibile l’apparentamento in Lombardia, Maroni vi ha chiesto di cambiare nome: «Optino per il solo “Centrodestra nazionale” o lo mutino in “Fratelli di Lombardia”. In caso contrario, valuteremo il da farsi». Cosa farete?

«Dovremmo utilizzare “Fratelli d’Italia per la Lombardia”. Credo comunque che il problema non sia semantico. Quando si decide di correre insieme lo si fa sulla base dei programmi, delle persone e delle scelte. Sia io che Giorgia Meloni conosciamo bene Maroni con il quale, anche in tempi non sospetti, abbiamo condiviso molte battaglie. Nell’anno di governo tecnico sono stato uno dei pochi a votare con la Lega contro Monti. È più facile che “Bobo” si trovi d’accordo con me che con molti del Pdl…».

È rimasto sorpreso dal dietrofront del segretario leghista? Ad un certo punto il rapporto fra Pdl e Carroccio sembrava inconciliabile…

«No, perché c’è la necessità di rappresentare un elettorato con delle idee diverse. In questo senso mi fa piacere che il Pdl si stia “convertendo” alle battaglie che ho portato avanti contro la politica del governo Monti».

Di recente lei ha manifestato una certa simpatia per Oscar Giannino, arrivando ad indicarlo come il possibile candidato premier del vostro movimento. Ha ricevuto risposta?

«Oscar è mio amico da anni, mi dispiace vederlo fuori del centrodestra. Bisogna unire le idee senza farsi dividere da Berlusconi: il centrodestra deve esistere oggi e dopo il Cavaliere. Lui, per ora, ha deciso di portare avanti una battaglia solitaria».

Cosa pensa della “salita in politica” di Monti?

«Me lo aspettavo, personalmente non l’ho mai considerato un “tecnico”. L’errore commesso è stato quello di dare troppo potere ad una persona da cui non si avevano garanzie di reiterata imparzialità. Ha solo fatto vedere chi è veramente».

(A fine intervista domando a Crosetto se ha visto la puntata di “Servizio Pubblico” alla quale è stato ospite Berlusconi. Mi risponde: «L’ho sentito dopo la trasmissione. Gli ho detto: “I coglioni non sono una cosa che si comprano al supermercato. Hai dimostrato di averli, ma non mi stupisce”»).

Twitter: @mercantenotizie

«Il mio nome è Minzolini. Onorevole Minzolini»

martedì, gennaio 22nd, 2013

CASA AN: MINZOLINI, DA GIORNALE E LIBERO INCHIESTA PURAIn corsa per uno scranno al Senato, nelle file del Pdl, c’è anche lui. Il «direttorissimo», «minzolingua», «scodinzolini», il creatore di un nuovo genere giornalistico: il «minzolinismo». Domenica, quando è stata annunciata la candidatura in Liguria di Augusto Minzolini, ex discusso direttore del “Tg1” la cui stella si è eclissata dopo il rinvio a giudizio per peculato da parte della Procura di Roma a causa delle spese pazze (oltre 60mila euro) sostenute con la carta di credito aziendale, il giornalismo italiano è andato in tilt. Il nome di Minzolini non era circolato prima, ed è arrivato come un fulmine a ciel sereno.

A parer mio, lo dico chiaro e tondo, la “colpa” della candidatura dell’ex numero uno del “Tg1” non è del Pdl. Piuttosto, è “merito” di un sistema distorto. Malato. In Italia i giornali e i telegiornali sono in mano ad editori impuri (eccezion fatta per pochi casi). Gente i cui interessi si legano a filo doppio alla politica, all’imprenditoria, ad affari di qualsiasi genere e natura. Minzolini viene dal servizio pubblico, dirà qualcuno. Certo, tutto giusto. Ma, altra aberrazione tutta nostra, sulla Rai la longa manus dei partiti è sempre pronta – e lo sarà finché non arriverà un terremoto di vaste proporzioni che sconquasserà l’attuale situazione – alla spartizione di incarichi, poltrone, direttori, giornalisti, opinionisti, ospiti… Sono pochi coloro che non hanno un “padrino” a cui, un giorno, dover rendere conto o restituire il favore. Ed ecco che il giornalismo muore. Perché non è più al servizio del cittadino, perdendo quindi la sua fondamentale funzione sociale, ma di “questo” o “quello”. È ciò che è successo con Minzolini. Niente più, niente meno. Bastava ascoltare la paradossalità degli editoriali del «direttorissimo» – come amava chiamarlo Silvio Berlusconi – per capire che il telegiornale della prima rete Rai avesse perso serietà, imparzialità, terzietà. Cosa peggiore: il senso della realtà.

E il mondo dell’informazione italiana cos’ha fatto? Non lo ha “emarginato”, lasciando che si squagliasse come neve al sole. Al contrario, ha creato il personaggio: Minzolini è diventato il protagonista di parodie, sketch, prese in giro, rubriche satiriche sui giornali. Lui ha cavalcato l’onda ed è rimasto al suo posto finché, come detto, non è arrivato il punto di rottura (il rinvio a giudizio per peculato). Oggi rischiamo – anzi, è quasi una certezza – di doverlo chiamare «Onorevole». E lui, dopo un periodo di parziale silenzio (a maggio la Rai lo ha comunque nominato direttore del coordinamento dei corrispondenti esteri), è tornato alla carica.

Andate in edicola e acquistate “il Fatto Quotidiano”, “la Repubblica” e “Il Messaggero”. Sul giornale di Travaglio e Padellaro troverete un’intervista a Minzolini in cui lo stesso dice che «Marcello (Dell’Utri, ndr) è stimabilissimo e colto», e che «se ho deciso di candidarmi devo ringraziare voi che per un anno mi avete messo il bavaglio» (quale?). Su “Repubblica” e “Il Messaggero” – dove sono presenti altri due colloqui con il «direttorissimo» – il ritornello è sempre lo stesso: «Adesso respiro, ero imbavagliato» e «comunque di candidarmi me l’hanno proposto loro, mica l’ho chiesto io». Insomma, è stato un premio. Alla faccia di quei giovani e meno giovani preparati che hanno perso il treno, e che rischiano di fare la muffa confinati in un angolo. Qualcuno, mai come adesso, dovrebbe assumersi le proprie responsabilità.

Twitter: @GiorgioVelardi