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«Nel Pd non prevalga linea anti-Bersani. Il Pdl costruisca leadership collegiale» – da “Il Punto” del 16/11/2012

mercoledì, novembre 21st, 2012

Colloquio con Michele Prospero, docente di Scienza politica e filosofia del diritto alla “Sapienza” di Roma ed editorialista de “l’Unità”.

Professore, mesi fa lei si chiedeva se quelle del centrosinistra fossero primarie o «una sfilata». È riuscito a dare una risposta al suo interrogativo? 

«A quel tempo c’erano alcuni fattori di disturbo, fra cui le “bordate” di Renzi ad esponenti del suo stesso partito e il fatto che Vendola appoggiasse i referendum dell’Idv, che rendevano instabile la tenuta degli equilibri fragili del centrosinistra. Queste primarie sono una competizione esplicita, con toni e metafore per certi versi sopra le righe. La preoccupazione era che la diversità di cultura politica fra i candidati fosse così pronunciata da farle diventare uno strumento inefficace, perché quando fra chi partecipa c’è eccessiva distanza il meccanismo entra in crisi».

A seconda di chi la spunterà il centrosinistra andrà in una direzione o in un’altra. Se vince Renzi il rischio è la disgregazione…

«Questo pericolo c’è, perché i sostenitori di Renzi sono quelli che più di altri hanno sposato l’agenda Monti e disdegnano una politica delle alleanze. Il sindaco di Firenze si muove in maniera oscillante: aveva addirittura aperto ad una possibile cessione delle “chiavi del potere” all’attuale premier in caso di successo. Adesso invece Renzi sta segnando un distacco dall’esperienza tecnica e pare scettico su ogni ipotesi di accordo. Il rischio è che prevalga una linea ostile a quella che ha tenuto finora Bersani – il quale ha garantito una centralità sistemica al Pd attraverso la proposta di un’intesa fra i progressisti aperta ai moderati – che è l’orizzonte entro cui giocare la partita. Se si scatenano conflitti che lacerano questo terreno le strade sono due: ricreare l’Unione oppure riesumare la vocazione maggioritaria».

Per quanto riguarda il cambio delle regole, c’è il sentore che Bersani abbia aperto le porte a Renzi ma poi lo abbia ingabbiato… 

«A differenza della precedente tornata questa è una contesa accesa e ci sono preoccupazioni di tenuta. Le regole sono necessarie, e bisogna fare in modo che si avvicinino il più possibile a quelle delle elezioni, che siano cioè ritagliate sul corpo elettorale reale. Quelle decise per queste primarie sono in sintonia con i pronunciamenti della Corte suprema americana, la quale ha stabilito che un partito ha diritto a chiedere un elenco pubblico dei votanti e che la partecipazione senza appartenenza è illegittima. Fare primarie “aperte” in Italia vuol dire rendere i partiti entità scalabili rischiando di andare incontro ad un blocco unico, totalitario».

Nel Pdl, dove Alfano si è “ribellato” a Berlusconi, le primarie hanno senso oppure, in caso di fallimento, si rischia di andare alle elezioni senza un partito di area? 

«Le primarie potrebbero essere un fiasco e ciò potrebbe comportare il collasso definitivo del Pdl. Però senza un grande partito di centrodestra la democrazia italiana non funziona. Detto ciò, Alfano ha fatto bene a sfidare il Cavaliere: un partito come il Pdl non può sopravvivere se non rompe in maniera esplicita con il capopadrone. Il problema è che una lotta simile andava impostata prima, come ha fatto Maroni con Bossi, perché non ci sono uscite negoziali dal partito personale. C’è da augurarsi che il segretario riesca nel suo obiettivo, è interesse nazionale quello di avere un partito di centrodestra di stampo europeo».

C’è oggi una figura che potrebbe ridare smalto al Pdl? 

«All’interno del partito c’è già una rete di politici spendibili: penso ai tanti giovani (Fitto), agli amministratori che sono emersi in questi anni, oppure a Galan. Quella che va ricostruita è una leadership collegiale: le velleità personalistiche vanno messe da parte. E poi Alfano deve evitare di commettere un errore, cioè quello di accodarsi a Casini sulla legge elettorale. I loro interessi non coincidono. Il segretario deve contrattare un sistema di voto che consenta di mantenere l’ossatura bipolare».

C’è il rischio che tutto sia reso vano dal Monti-bis?

«Non credo ci sia la possibilità di uno scenario simile: Bersani dovrebbe farcela. Non regge un governo di larghe intese. Credo che in vista della riforma elettorale sia più efficace assegnare il premio al partito più grande che alla coalizione. Comunque, una soglia elevata come quella del 42,5 per cento per conseguire il premio riproporrebbe la centralità dei “cespugli”, delle piccole formazioni che cercano di aggregarsi in vista del voto».

Twitter: @GiorgioVelardi 

Questioni Primarie – da “Il Punto” del 16/11/2012

martedì, novembre 20th, 2012

Il 25 novembre tocca agli elettori del centrosinistra, poi sarà la volta di quelli del Popolo della Libertà. Le consultazioni per scegliere il candidato premier dei due schieramenti rischiano però di essere un grande “bluff”: l’impianto della nuova legge elettorale favorisce la riconferma del Professore a Palazzo Chigi e frena l’avanzata di Grillo 

E pensare che qualcuno, fra cui un big del Pdl come Gaetano Quagliariello, avrebbe voluto che fossero «regolate per legge». Le primarie uniscono, dividono, fanno litigare i duellanti. Portano a paragoni roboanti fra l’Italia e gli Stati Uniti, due realtà lontane anni luce messe sullo stesso piano nell’avanspettacolo pre-elettorale di casa nostra. Rischiano, in particolare, di essere un grande bluff, a sinistra come (e peggio) a destra. Regole arzigogolate, candidati variopinti, programmi latitanti. Ma soprattutto l’ombra di Mario Monti che aleggia sulle teste dei vari Bersani, Renzi, Alfano, Santanchè… Il Professore, visto l’impianto della nuova legge elettorale che tanto fa irritare il Partito democratico e gongolare Casini, ha recentemente fatto sapere che se alle prossime elezioni «mancasse una maggioranza in grado di governare» lui sarebbe disposto a continuare. Numeri alla mano, la grande coalizione (Pd, Pdl e Udc) è l’unica formula che darebbe certezza di governabilità al Paese e che frenerebbe l’avanzata del Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo, che dopo la Sicilia punta al colpo grosso in Parlamento.

QUI LARGO DEL NAZARENO - «Riscrivi l’Italia». Così recita il manifesto che chiama gli elettori del centrosinistra alle urne in vista delle primarie che si svolgeranno il prossimo 25 novembre (con eventuale ballottaggio il 2 dicembre). Più che l’Italia, però, la sfida che mette di fronte Pier Luigi Bersani, Matteo Renzi, Nichi Vendola, Laura Puppato e Bruno Tabacci rischia di riscrivere la geografia del centrosinistra. A seconda di chi vincerà la competizione quest’area politica potrebbe rimanere com’è, virare più al centro e meno a sinistra e viceversa, addirittura esplodere. In quest’ultimo caso il “bombarolo” si chiamerebbe Matteo Renzi. La possibile vittoria del sindaco di Firenze preoccupa non poco la segreteria di Largo del Nazareno. «Non succede, ma se succede…», dicono alcuni fra i volti noti del partito (fra cui il giuslavorista Pietro Ichino, che sul suo sito Internet ha pure pubblicato i «nove motivi per votare Matteo Renzi alle primarie») che hanno deciso di appoggiare la candidatura del «rottamatore». Che qualche personale successo l’ha già ottenuto: i vari Veltroni, Treu, Parisi e Turco hanno fatto sapere che non si ricandideranno. D’Alema, esperto di tattica, ha invece preso tempo: «Se vince Bersani lascio la poltrona, ma se dovesse spuntarla Renzi sarà scontro politico». Il che vuol dire una guerra intestina fra le varie correnti in cui il partito naviga da tempo: sarebbe l’ennesimo suicidio del Pd, ma non ci stupiremmo. Con il ticket Bersani-Vendola si andrebbe sul sicuro. Il leader dei democratici e quello di Sel viaggiano sulla stessa lunghezza d’onda e a testimoniarlo c’è pure la “Carta d’intenti” che hanno sottoscritto (insieme al socialista Nencini) ad inizio ottobre. Un patto vincolante fondato su 10 parole chiave – fra cui Europa, democrazia, lavoro, uguaglianza – che punta ad andare «oltre Monti» e che è, per dirla con il governatore della Puglia, «alternativa ai pensieri conservatori di Casini». Per “Matteo”, che l’ha subito bollata come «generica», si tratta di uno dei tanti bocconi amari mandati giù in questi mesi. Oltre al caos delle regole – il primo cittadino toscano non ha digerito l’impossibilità di esprimersi per i 16-17enni, malgrado questi avessero votato nel 2009 – il “tiro mancino” che Bersani gli ha giocato rischia, in caso di vittoria, di portarlo all’isolazionismo. «Né con Casini né con Vendola», ha precisato Renzi in un’intervista ad Avvenire prima di compiere una parziale retromarcia, resa necessaria dall’aver capito che l’Italia non è l’America di Obama e che la strategia di Veltroni del 2008 («Corriamo soli») si è rivelata fallimentare. Ma della contesa fanno parte anche Laura Puppato e Bruno Tabacci. Meno esposti degli altri tre contendenti, per la corsa alla premiership ci sono anche loro. Entrambi rappresentano l’ala cattolica del centrosinistra, quella che per intenderci “sposerebbe” Casini e “divorzierebbe” da Vendola. Puppato, unica donna in corsa, pone al centro del suo programma la Green e la Blue economy, e al tempo stesso non chiude le porte ai matrimoni gay («Sono una cattolica adulta e dunque penso che lo Stato debba essere laico e garantire a tutti i diritti civili») e all’alleanza con l’Udc («Non vedrei affatto male un’intesa con i centristi, ma vorrei che da parte loro ci fosse chiarezza»). Infine c’è l’assessore milanese, ex Dc, poi Udc e ora Api, per cui è necessario «apportare delle modifiche alla “Carta d’intenti”» inserendo alcuni punti dell’ormai nota «agenda Monti». Uno degli ultimi sondaggi di Swg vede Bersani in vantaggio di ben 14 punti percentuali su Renzi (41% contro 27, con Vendola al 15), che potrebbe giocarsela ai “tempi supplementari“. Difficile, ma non impossibile, una rimonta al fotofinish.

QUI VIA DELL’UMILTÀ - In casa Pdl le primarie stanno diventando un affare di Stato. Berlusconi non le vuole – e stavolta non sono “retroscena” di «certa stampa» – ma si faranno. L’ufficio di presidenza dello scorso 8 novembre è stato uno spartiacque storico per il partito. Per la prima volta Alfano è andato contro il padre-padrone e ha imposto la sua linea. «Basta diktat del Cavaliere, è il momento che io assuma il controllo», avrà pensato nella sua testa “Angelino” prima di parlare chiaro e tondo ad alta voce: «Mi prendo la responsabilità delle primarie. O decidiamo oggi o saremo dei barzellettieri (o “barzellettati”, come da chiarimento postumo dell’entourage del segretario, ndr). Qual è l’alternativa? – ha domandato l’ex ministro della Giustizia – Inseguire qualche gelataio o qualche leader di Confindustria?» (ovvi i riferimenti al patron di Grom Guido Martinetti e al presidente della Ferrari Montezemolo). Quindi avanti tutta con un meccanismo con cui il Pdl non ha mai fatto i conti e che rischia di portarlo alla definitiva liquefazione. Su questo punto Berlusconi è stato chiaro: «Non si tratta di un procedimento salvifico, anzi usciranno allo scoperto le nostre faide interne, quelle che hanno schifato i nostri elettori. Ho commissionato dei sondaggi e non sono buoni». Ad oggi, secondo una rilevazione di Datamonitor anticipata domenica da il Giornale, solo il 5,4% dell’elettorato del Pdl voterebbe alle primarie. Una catastrofe, anche se è ovvio che il loro valore sia limitato dal momento che sullo sfondo ci sarà sempre lui, il Cavaliere, che – tanto per dirne una – nominerà i 5 garanti che dovranno vigilare sul regolare svolgimento della competizione. Insomma, in un modo o nell’altro chiunque vincerà dovrà chiamarlo in causa prima di prendere una decisione. Cambiare tutto per non cambiare nulla. Ma oltre ai problemi politici ci sono quelli di budget: il Pdl pare avere le casse vuote – sarebbero addirittura a rischio gli stipendi dei dipendenti –, dunque  quelle che si svolgeranno saranno primarie low cost, con i votanti costretti a versare fra i 2 e i 3 euro. Per ora, comunque, le candidature sono sette: Angelino Alfano, Daniela Santanchè, Giancarlo Galan, Alessandro Cattaneo (il sindaco «formattatore» di Pavia), Guido Crosetto e il leader dei “Moderati italiani in rivoluzione” Gianpiero Samorì, possibile outsider “benedetto” da Berlusconi e amico di Marcello Dell’Utri e Denis Verdini. Per il Cavaliere potrebbe essere il “Papa straniero” che va cercando da mesi, o il «dinosauro» da estrarre dal cilindro.

IL FANTASMA DI MONTI - Poi c’è la terza via, quella del «è tutto inutile». Perché se è vero che i partiti sono in fermento per ripulire e democratizzare le liste, dall’altra quanto accade in Parlamento sul versante della legge elettorale potrebbe consegnare agli italiani il famigerato scenario del «Monti dopo Monti». Ad oggi, nessuna delle possibili coalizioni raggiungerebbe la soglia del 42,5% utile a prendere il premio per governare. Dunque solo la riproposizione della «strana maggioranza» che oggi sostiene il governo del Professore (e del presidente della Repubblica) consentirebbe di arginare l’avanzata della cosiddetta “antipolitica” di Beppe Grillo e del suo Movimento 5 Stelle. Il Pd non ci sta, ma al suo interno qualche franco tiratore non disdegnerebbe la prosecuzione dell’esperienza tecnica. Stessa cosa accade nel Popolo della Libertà. Poi c’è l’Udc, di cui il pensiero si conosce da tempo. Insomma, alla fine per gli italiani queste primarie rischiano di diventare la più grande presa in giro della Seconda Repubblica.

Twitter: @GiorgioVelardi

Il salto del Grillo – da “Il Punto” del 2/11/2012

lunedì, novembre 5th, 2012

Crocetta conquista Palazzo d’Orleans grazie ai voti dell’Udc, che rimescolano le carte in ottica nazionale. Ma a fare notizia è il boom del Movimento 5 Stelle. A picco il Pdl. Biancofiore: «La classe dirigente del partito si faccia da parte»

Alla fine ha avuto ragione Pietro Barcellona, comunista fino al midollo, maestro di diritto e personalità di spicco a Catania, di cui ha parlato domenica scorsa il Fatto Quotidiano: «Vincerà il partito degli astenuti». Così è stato, perché il 52,6 per cento dei siciliani ha preferito fare altro piuttosto che recarsi alle urne per decidere chi, dopo Lombardo, avrebbe dovuto sedere a Palazzo d’Orleans. Certo è che il partito del non-voto è andato a braccetto con uno che invece un simbolo e un candidato in carne e ossa ce l’aveva: il Movimento 5 Stelle. «Cancelleri (aspirante governatore degli “attivisti 5 stelle”, ndr) potrebbe arrivare al 15 per cento», andava dicendo Beppe Grillo negli ultimi giorni di campagna elettorale. Si è andati oltre, anche se non abbastanza per battere Rosario Crocetta (centrosinistra), nuovo presidente della Regione. Per capire l’exploit basta comunque rileggere quanto Grillo e i suoi raccolsero nel 2008: 1,7 per cento, dieci volte di meno. Dalla Sicilia al Parlamento il passo sembra essere breve, anche se «è difficile proiettare questo dato su base nazionale», dice a Il Punto il direttore di IPR Marketing Antonio Noto. «Grillo ha avuto il merito di condurre una grande campagna elettorale, spendendosi in prima persona soprattutto negli ultimi quindici giorni. Secondo i nostri calcoli, questo fattore ha portato ad un incremento del 7/8 per cento in termini di voti». Quello del comico genovese può essere dunque il primo partito in Italia? «Tutto può succedere – risponde il sondaggista –. In questo momento il M5S non lo è ancora, però con un ritmo simile ciò che è accaduto in Sicilia potrebbe avvenire anche alle elezioni nazionali». Poi il direttore di IPR Marketing mette in luce un aspetto importante: «Grillo è passato dal web alle piazze, non attrae più solo gli internauti ma anche coloro che fanno politica attiva nei luoghi tradizionali. Oggi il suo movimento oscilla fra il 16 e il 20 per cento». Sembra essere questo uno dei motivi che ha spinto una buona fetta dei siciliani a votare per il suo Movimento. Come ci racconta Rosario, 33 anni, che parla di «un modo di fare politica nuovo, per alcuni versi rivoluzionario. Una politica partecipata da cittadini per i cittadini, dove ognuno vale uno. La Sicilia, come altre Regioni, convive da anni con sperperi e clientelismo. Conoscendo di persona Cancelleri ho avuto modo di capire la genuinità della sua persona nonché la pacatezza e la coscienziosità nell’affrontare la corsa alla Regione. Il tutto senza che nessuno documentasse ciò che stava avvenendo nelle piazze siciliane. Mi ha dato fiducia vedere una persona come me piuttosto che un inarrivabile uomo in auto blu – continua Rosario –. La “casta” dei politicanti ha avuto la propria occasione, fallendola. Perché dare ancora fiducia a chi ci ha portato allo scatafascio? I seggi raccolti saranno determinanti nella vita e nelle decisioni prese dal nuovo governatore e dalla sua giunta. Credo servirà a darsi una “regolata”», conclude. L’altra faccia della medaglia è quella del Pdl, su cui sembrano essere definitivamente scorsi i titoli di coda. Pur sommando i voti raccolti dal partito e quelli presi dalla Lista Musumeci il crollo rispetto alle precedenti regionali è evidente e pesante. Lontano anni luce dal 33,5 per cento che il solo Popolo della Libertà raccolse quattro anni fa, quando Raffaele Lombardo doppiò la candidata del Pd Anna Finocchiaro. E, manco a dirlo, sul banco degli imputati è finito ancora una volta il segretario Angelino Alfano, che pure ha già formalizzato la propria candidatura alle primarie di dicembre. Daniela Santanchè vorrebbe la sua testa, mentre l’”amazzone” Michaela Biancofiore la pensa in maniera diversa. «Personalmente ho sempre messo in guardia Alfano dall’appoggiarsi sulla classe dirigente del Pdl. Questa sconfitta non può essere colpa sua, visto che è alla guida del partito da un anno – dice Biancofiore a Il Punto –. Certo è che lui poteva fare molto di più: aveva l’oro in mano e un partito genuflesso ai suoi piedi. Invece, forse per troppa educazione o per mancanza di coraggio, non ha avuto quella spinta innovatrice che ci voleva già all’epoca. Il decremento dei voti – prosegue ancora la deputata del Pdl – è iniziato il giorno dopo che siamo andati al governo: colpa di una dirigenza che si è imborghesita e che non riesce a cogliere la volontà dell’elettorato. In Sicilia tutto ciò è apparso chiaro: Musumeci più Miccichè insieme avrebbero raccolto oltre il 40 per cento dei voti. Una vittoria netta se non per i soliti personalismi che hanno portato all’allontanamento di Miccichè, prima sponsorizzato da Berlusconi e Alfano e poi fatto fuori da un giorno all’altro quando è intervenuto qualcuno, di cui non faccio nomi. Per preservare la propria poltrona c’è chi ci ha portati alla sconfitta. Le primarie? Ma le primarie di cosa? Dimettiamoci tutti e lasciamo che sia Berlusconi a decidere il da farsi». Poi ci sono i vincitori, che pure hanno le loro gatte da pelare. Perché Crocetta ha vinto grazie ai voti dell’Udc, che nell’economia del successo sono stati fondamentali. Un risultato che sconquassa i piani a livello nazionale? «L’Udc in Sicilia non è quello di Roma, così come il Pd siciliano è quello che si è alleato con Lombardo e nel quale non mi riconosco in modo così naturale. Questo risultato ci impone di ascoltare gli elettori: è un messaggio di malessere che deve portare ad una riforma radicale della politica» commenta Ivan Scalfarotto, dirigente del Partito democratico. «Al di là dei singoli casi, trovo che sia un risultato elettorale preoccupante per l’Italia – incalza Scalfarotto –. È il ritratto di un Paese difficile da governare, con i cittadini hanno voltato le spalle alla politica. Bisognerà fare in modo che la nuova legge elettorale non produca frammentazioni, altrimenti sarebbe un disastro. Pensare ad un sistema proporzionale con premio al primo partito non ha senso. Ci vuole invece un maggioritario con premio di coalizione». Cosa accadrà a livello nazionale resta dunque un’incognita. Nell’isola, dopo l’esclusione di Claudio Fava, Sel ha sostenuto Giovanna Marano (Fiom), che non ha raccolto i risultati sperati. E anche l’Idv non è andata granché. Nel day after i dubbi restano annidati sul tavolo di Pier Luigi Bersani. Grillo è pronto a saltare molto più vicino di quanto il segretario del Pd possa immaginare.

Twitter: @GiorgioVelardi 

Se i rottamati diventano rottamatori – da “Il Punto” del 26/10/2012

martedì, ottobre 30th, 2012

Tanto spirò il vento della «rottamazione» che alla fine i rottamati si trasformarono in rottamatori. Succede anche questo nell’Italia che cammina (a rilento) verso la Terza Repubblica, o che forse torna (correndo) alla Prima. Fatto sta che a pochi mesi dalle elezioni, con una legge elettorale ancora in fase “embrionale” e senza uno straccio di programma di cui poter discutere, l’attenzione è catalizzata in toto su chi deve essere “pensionato” o “dimesso”. Nel Pd come nel Pdl. Fra i democrat il protagonista assoluto è Massimo D’Alema. Il premier del “ribaltone” (dopo la caduta del governo Prodi del 1998), poi parlamentare europeo, ministro degli Esteri, membro di svariate commissioni (fra cui quella della pesca), vicepresidente dell’Internazionale Socialista e numero uno del Copasir. Da quasi 25 anni in Parlamento. Aveva pensato di non ricandidarsi, D’Alema. «Ne avevamo perfino parlato io e Bersani, un paio di mesi fa – ha rivelato lui –. Gli avevo detto: ragioniamo, troviamo un modo per un mio impegno diverso… Valutiamo assieme l’ipotesi che io non mi ricandidi al Parlamento. Ma ora no. Così, per quanto mi riguarda, no. Poi, naturalmente, parlerà il partito». Frasi pronunciate prima del “passo indietro” – o “autorottamazione” – di un altro pezzo da novanta del Partito democratico: Walter Veltroni. Il suo annuncio di non ricandidarsi ha provocato un effetto a cascata che finora ha portato con sé i vari Castagnetti, Turco, Treu, Parisi… Ma non D’Alema. O almeno non ufficialmente. Perché, ha detto il lider Maximo nel salotto televisivo di “Otto e mezzo” su La7, «se vince Bersani metterò a disposizione il mio posto in lista e non chiederò deroghe, ma se vince Renzi ci sarà uno scontro politico». Parole che portano a formulare tre domande. La prima: perché il Pd, in un momento di totale violazione delle regole da parte di una certa politica, crea scorciatoie per violarne una che fra l’altro è nel suo Statuto, e che prevede il limite dei tre mandati – cioè 15 anni in Parlamento – per i suoi deputati e senatori? La seconda, consequenziale: perché inserire quella norma nel regolamento del Pd, vista la presenza (già al tempo) di alcuni “fuoriquota”? Infine: cosa farà D’Alema in caso di vittoria (difficile, ma non certo impossibile) di Renzi? Darà veramente vita ad una nuova creatura di sinistra, dal sapore europeo e in combinata nordica con Vendola – come ipotizzato sette giorni fa da il Fatto Quotidiano – con il serio rischio di far esplodere il Partito democratico? Quesiti ai quali il presidente del Copasir dovrebbe rispondere facendo chiarezza. Sull’altra sponda del Tevere le acque sono sempre più agitate. “Colpa” di Daniela Santanchè. Quella che il 25 marzo del 2008 rivolgeva un appello alle donne italiane: «Non date il voto a Silvio Berlusconi, perché ci vede solo orizzontali e mai verticali». Al tempo, la ”pasionaria” azzurra militava ne La Destra di Storace. Poi è tornata all’ovile, è stata nominata sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e dopo la caduta dell’esecutivo guidato dal Cavaliere è diventata una delle maggiori oppositrici di Monti. Ma anche della nomenklatura del suo partito. Che, ha tuonato lei pochi giorni fa, dovrebbe dimettersi in blocco. Sarebbe difficile riepilogare tutte le reazioni dei suoi colleghi di partito. Basta quella del segretario Alfano, che ha definito il suo atteggiamento «sfascista» (e menomale che c’era la “s” davanti alla “f”…). Anche lei, da possibile rottamata – o “formattata”, per dirla con i giovani di centrodestra – vuole salvarsi rilanciando. Ma senza disporre di assi nella manica.

Twitter: @GiorgioVelardi

«Digiuno finché non si vota al Senato. Napolitano indichi la strada da seguire» – da “Il Punto” del 19/10/2012

giovedì, ottobre 25th, 2012

Dallo scorso 2 settembre il deputato del Pd Roberto Giachetti sta portando avanti un digiuno anti-Porcellum, dopo quello fatto dal 4 luglio al 9 agosto. Ora qualcosa si muove ma, dice lui, «il mio sciopero della fame è iniziato con l’obiettivo che ci fosse almeno un voto al Senato. Finché non arriva vado avanti».

Prima di tutto le chiedo come sta… 

«Sto come uno che digiuna da 41 giorni, i valori delle analisi sono un po’ al limite. Però dal punto di vista della convinzione mi sento più forte di prima».

Cosa pensa dello “scheletro” della riforma?

«Innanzitutto va mantenuta la promessa fatta agli elettori: superare il “Porcellum”. Si è passati dalle stanze dei partiti a quelle di una Commissione formale, ed è positivo. Però ci sono voluti nove mesi per mettere nero su bianco un testo che non fa mezzo passo avanti rispetto alle posizioni iniziali degli schieramenti. Senza alcun punto di incontro fra questi. C’è da riflettere».

Ci sono le preferenze…

«La loro eventuale reintroduzione mi preoccupa, perché ad oggi dimostrano di essere un elemento di corruzione praticamente accertato. Riproporle in un momento come questo significa vivere sulla luna. In più, le risorse che ci vogliono per portare avanti una campagna elettorale con le preferenze portano ad un grande sperpero di denaro. Ma c’è un altro punto che mi impensierisce…».

Mi dica… 

«Il premio di coalizione. La mia riflessione è viziata dall’essere contro l’impianto proporzionale, però domandiamoci quale lista o coalizione prenderebbe oggi il 40%, utile per il premio del 12,5%. Nel nostro caso, per arrivarci, dovremmo mettere insieme tutto e il contrario di tutto. Per poi ritrovarci, dopo pochi mesi, di nuovo alle urne. Il presidente Napolitano dovrebbe inviare un messaggio formale alle Camere indicando la strada da seguire».

Lei è un “renziano”. Perché lo “zoccolo duro” del Pd ha così paura del sindaco di Firenze? 

«Perché da quanto questa classe dirigente è sulla scena non ce l’ha fatta a cambiare il Paese. Ad un certo punto arriva l’esigenza di passare la mano. E Renzi ha trovato la chiave di volta del problema. D’Alema? È una persona intelligente. Mi sarei aspettato che dicesse: “Aiuto la nascita di una nuova dirigenza e faccio un passo indietro”. Invece accade il contrario. Il voto da dare alla nostra epoca non è, a mio avviso, positivo».

Twitter: @GiorgioVelardi

Il fallimento delle fusioni a freddo – da “Il Punto” del 5/10/2012

lunedì, ottobre 8th, 2012

C’erano una volta Pdl e Pd. I due partiti che alle ultime elezioni politiche (2008) raccolsero, sommandoli, il 71 per cento dei voti degli italiani. Soggetti nati per evitare l’ingresso in Parlamento di “partitini” e ali estreme (colpevoli di minare l’italica ossessione bipolare) e per dare l’idea di solidità, indivisibilità, uguaglianza di vedute. È accaduto l’esatto contrario. Non solo sotto il profilo numerico – dopo il caso-Lazio le due formazioni raccolgono insieme circa il 45,5 per cento dei consensi – ma soprattutto sotto quello programmatico. Alzi la mano chi ha capito quali siano, ad oggi, le proposte di Pdl e Pd in vista del ritorno alle urne (e faccia lo stesso anche chi ha compreso la linea di Casini, al di là del «Monti dopo Monti»). Da una parte, quella del Pdl, le stravaganti esternazioni di Berlusconi stanno gettando nel caos più completo un partito già ampiamente in confusione, rischiando di vanificare gli sforzi internazionali del presidente del Consiglio. Dall’altra c’è un Pd che con Bersani propone la patrimoniale, sconfessando una parte del lavoro dei tecnici (eppure la fiducia ai provvedimenti l’hanno votata anche loro), e con Renzi loda Marchionne. Insomma, il Popolo della Libertà e il Partito democratico sono un fallimento per la politica italiana. E la causa dell’accaduto non è nemmeno di difficile reperibilità: l’aver voluto mettere sotto lo stesso tetto, forzatamente, uomini e donne con un passato e con idee diverse. In alcuni casi addirittura agli antipodi. Prendiamo il dibattito in corso fra i democrat riguardo le alleanze e i matrimoni gay. In un angolo c’è la componente cattolica dello schieramento, quella formata principalmente da Giuseppe Fioroni e Rosy Bindi, che si oppone alla volontà di Nichi Vendola di sposare il suo compagno (dunque alle unioni fra persone dello stesso sesso) e che di fatto preferirebbe un accordo con i «moderati». Nell’altro ci sono i vari Ignazio Marino, Sandro Gozi e Paola Concia che la pensano all’opposto (ricordate quanto accaduto a luglio nel corso dell’Assemblea nazionale del partito?). Lo stesso discorso può essere allargato all’eventuale Monti-bis, visto che un gruppetto di deputati e senatori – che comprende Tonini, Morando, Ichino e Gentiloni – è favorevole ad un governo politico guidato da “Super-Mario”. Nel Pdl c’è invece l’eterna questione degli ex An: restano, se ne vanno, scindono, si accordano al ribasso, dicono «basta» ma poi assorbono come spugne le stilettate dei forzisti. La fusione fra il partito che nel 1994 segnò la “discesa in campo” di Berlusconi e la creatura di Gianfranco Fini è stata una iattura. L’inizio della fine, sia delle politiche “liberali” di Forza Italia – se mai si siano viste – che della costruzione di una destra di stampo europeo da parte degli eredi del Movimento sociale italiano. Quel che è successo dopo è cosa nota. Il presidente della Camera cacciato in plenaria insieme a tutta la sua “banda”, la formazione di Fli, le campagne di certa stampa vicina a Berlusconi e la vicenda della casa di Montecarlo, che ha vissuto l’ennesimo atto una settimana fa. In tutto ciò, ovviamente, le Camere sono rimaste impantanate, prima delle manovre lacrime e sangue varate in fretta e furia dai “professori” per evitare danni irreparabili. In uno scenario simile c’è, paradossalmente, il rischio di rivivere una stagione tale e quale. Ecco perché Beppe Grillo, alla fine di ogni intervento sul suo blog, scrive: «Ci vediamo in Parlamento, sarà un piacere».

Twitter: @GiorgioVelardi

Attenti a quei due – da “Il Punto” del 14/09/2012

giovedì, settembre 20th, 2012

Una parte del mondo politico lavora per il Monti-bis, ma il tema dell’occupazione salda i rapporti fra il partito di Di Pietro e il sindacato dei metalmeccanici guidato da Landini all’insegna dei referendum. Il sondaggista Noto: «La Fiom può valere un balzo in avanti del 2/2,5%». A danno del Pd

L’autunno non è caldo, è bollente. Ci sono casi di crisi aziendali che non finiscono sui giornali». Ancora una volta, con un linguaggio diretto e spesso non in sintonia con quello dei suoi predecessori, è il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi a disegnare lo scenario che attende l’Italia nei prossimi mesi. Perché quello del lavoro è, e resterà a lungo, il tema «bollente» – per dirla come il numero uno degli industriali – del dibattito pubblico. È sufficiente leggere i dati, del resto; basta osservare quanto sta accadendo a tre storiche realtà della nostra penisola come Ilva, Alcoa e Carbosulcis per capire che qualcosa non va. Eppure le forze politiche che appoggiano il governo Monti sembrano guardare con disinteresse agli ultimi accadimenti. E al di là di qualche semplice annuncio-spot («Basta tasse», ripete quotidianamente il segretario del Pdl Angelino Alfano, mentre il Pd è preoccupato dall’avanzata del «rottamatore» Renzi e al centro è partita la campagna acquisti dell’Udc), il silenzio comincia a fare rumore. Proprio intorno alla questione dell’occupazione potrebbe saldarsi un nuovo asse, che sposterebbe i già fragili equilibri elettorali nel centrosinistra: quello fra l’Italia dei valori di Antonio Di Pietro e la Fiom, il sindacato dei lavoratori metalmeccanici guidato da Maurizio Landini.

REFERENDUM E ADDIO PD – Il punto d’incontro fra le due realtà non è solo l’ostinata opposizione al governo Monti e ai provvedimenti che quest’ultimo ha finora varato. Negli ultimi mesi i contatti fra Di Pietro e Landini si sono intensificati, e l’appoggio della Fiom ai due referendum sul lavoro che l’Idv ha presentato pochi giorni fa in Cassazione (hanno aderito anche Sel, i Verdi, il Prc e il Pdci. La raccolta delle firme inizierà a metà ottobre) non è che la punta dell’iceberg. Attraverso i due quesiti (a cui si aggiungono quelli sull’abolizione della diaria dei parlamentari e sull’abrogazione del finanziamento pubblico ai partiti), la formazione guidata dall’ex pm chiede il ripristino dell’articolo 18 (modificato con la riforma Fornero) e quello del valore universale dei diritti previsti dal contratto nazionale di lavoro (eliminato dal governo Berlusconi con l’articolo 8 del decreto legge n. 138 del 2011). Due dei capisaldi del più antico sindacato industriale italiano, che dall’insediamento dell’esecutivo guidato dall’ex Commissario europeo ha visto venire meno il dialogo con il Partito democratico. Il punto di non ritorno è stato la mancata partecipazione dei vertici del Pd alla manifestazione della Fiom tenutasi a Roma lo scorso 9 marzo. Quello sull’adesione (o meno) all’appuntamento di piazza fu un balletto che durò un mese, e che spaccò la compagine bersaniana. Alla ferrea posizione dell’ala veltroniana – con l’ex segretario che definì «incoerente» un’eventuale partecipazione dei democrat – si contrapposero i vari Fassina, Damiano e Orfini. Proprio il responsabile culturale del partito arrivò a dichiarare: «Appoggiamo un governo assieme a Sacconi e Gasparri, per le ragioni che conosciamo e condividiamo, e adesso, proprio chi non esita a sostenere la necessità di prolungare il più possibile questa esperienza, persino oltre il voto, trova imbarazzante la compagnia di qualche metalmeccanico Fiom…». Poi giunse la notizia che su quel palco sarebbero saliti i No-Tav e il partito si compattò per il «no» alla partecipazione, con dei distinguo. Perché ci fu chi come Vincenzo Vita parlò di «decisione tattica e politicistica » e chi, come Giuseppe Civati, definì la vicenda «un cortocircuito della politica, un pretesto scelto male». Fassina, Damiamo e Orfini rimasero a casa, e tornò il sereno. Da quel giorno il Pd sa di aver perso buona parte dei voti degli iscritti alla Fiom. E le conseguenze, in vista delle prossime elezioni, si faranno certamente sentire.

CANTIERE APERTO – All’interno del sindacato il dialogo è aperto. Perché, come per i partiti politici, anche fra le parti sociali ci sono le “correnti”. E non tutti concordano con l’avvicinamento della Fiom all’Italia dei valori. C’è chi vorrebbe rimanere ancorato al Pd e chi, come l’ala vicina al presidente del comitato centrale Giorgio Cremaschi e alla sua “Rete 28 Aprile”, chiede «una profonda trasformazione democratica del sindacato e la sua indipendenza politica». Lo stesso Cremaschi, di recente, ha fatto sapere che «non è compito della Fiom aggiungere dei personaggi alla foto di Vasto». Chiaro il messaggio e il destinatario. Ma il 4 settembre scorso, dalle colonne de il Manifesto, è stato Gianni Rinaldini (predecessore di Landini alla guida della Fiom e oggi coordinatore dell’area “la Cgil che vogliamo”) a chiedere formalmente a Di Pietro di presentare i due quesiti referendari insieme ad «un arco di forze molto vasto e rappresentativo di aree sindacali, politiche, intellettuali, giuslavoristi, soggetti editoriali che su queste questioni si sono battute e si battono. Un atto di generosità e di apertura dell’Idv – proseguiva Rinaldini – consentirebbe di condurre una battaglia politica con uno schieramento e un insieme di culture ed esperienze all’altezza dell’obiettivo che ci si pone: riportare la democrazia nei posti di lavoro. Tutti insieme possiamo farcela ». Ma un altro indizio che costituisce la prova del nascente avvicinamento lo si trova in Emilia Romagna, regione “rossa” per eccellenza. Qui il consigliere regionale dell’Idv Franco Grillini e il segretario regionale della Fiom Bruno Papignani non nascondono il loro «rapporto speciale», come lo ha definito il dipietrista. «L’Idv appoggia tutte le nostre proposte – ammette Papignani –, mentre il Pd ha un pregiudizio nei nostri confronti. Dentro al partito c’è un problema legato alla qualità delle persone». Forse il sindacalista non ha ancora digerito il mancato invito alla Festa democratica di Reggio Emilia, iniziata il 25 agosto e terminata cinque giorni fa. Il Pd ha invitato Cgil, Cisl e Uil, più svariati ministri dell’attuale governo (da Passera a Fornero, da Cancellieri a Patroni Griffi), ma non la Fiom. E neanche Di Pietro. «In questo momento non ci sono le condizioni», hanno precisato i responsabili dell’evento. Sintomo che il giocattolo si è rotto. E non basta la colla per rimetterne insieme i pezzi.

SONDAGGI ALLA MANO… Una recente simulazione di IPR Marketing, basata sui dati raccolti negli ultimi sondaggi effettuati e realizzata in base all’ipotesi di nuova legge elettorale circolata nelle ultime settimane (un sistema proporzionale con premio di maggioranza compreso fra il 10 e il 15% al primo partito, e una soglia di sbarramento del 5%), ha reso noto come senza la grande coalizione (Pd-Pdl-Udc) l’Italia rischierebbe lo stallo politico. Con una maggioranza alla Camera di 316 seggi – che salgono a 360 per assicurare la governabilità – il Pd che corre in lista con Psi e Api raccoglierebbe 232 seggi con un premio di maggioranza fissato al 10% e 254 con premio al 15%. Nessun livello di governabilità garantito neanche con l’asse Pd-Sel: fra 268 e 288 i seggi che i due partiti otterrebbero a seconda del premio. Stessa sorte anche per la “strana alleanza” fra Bersani e Casini e per quella che coinvolge democratici, centristri e vendoliani. Resta la “grande ammucchiata”, che assicurerebbe una maggioranza senza precedenti, compresa fra i 435 e i 445 deputati. Quale peso potrebbe avere dunque la formazione di un partito-Fiom che correrebbe insieme all’Idv? «Prima di tutto bisogna capire quale sarà la nuova legge elettorale, cosa che attualmente nessuno sa per certo – dice a Il Punto il direttore di IPR Marketing Antonio Noto – La Fiom è un sindacato minoritario ma importante, che ha un grande appeal per ciò che riguarda le tematiche che mette in campo. Inoltre, ha una visibilità a livello mediatico che può costituire un valore aggiunto in campagna elettorale. Con l’apporto del sindacato dei metalmeccanici, l’Italia dei valori potrebbe avere un vantaggio che oscilla fra il 2 e il 2,5%. Non è poco: oggi, secondo i nostri dati, Fli è al 2,5%, La Destra non arriva al 2% e il Psi è fermo all’1%. Va aggiunto poi che pur non avendo un numero di iscritti pari a quello della Cgil, il sindacato di Landini potrebbe ottenere un buon seguito, anche se la campagna elettorale non si baserà solo sul problema-lavoro». A conti fatti l’Idv farebbe un balzo in avanti significativo salendo all’8/8,5%, superando sia Sel (6%) che l’Udc (7%) e passando dagli attuali 34/36 deputati a 42/46 (da sottrarre a Pd e Sel insieme). «Un’alleanza dopo il voto fra Pd e Sel non garantirebbe la maggioranza alla Camera, secondo la bozza di legge elettorale circolata nelle ultime settimane – prosegue Noto –, quindi l’apporto dell’Idv assicurerebbe una maggiore stabilità. Al di là del gioco delle alleanze, c’è però da capire se i “poteri forti” legittimeranno un eventuale governo fortemente spostato a sinistra, oppure se si cercherà di mettere fuorigioco le ali estreme puntando su un accordo con le forze moderate. In questo caso l’Idv, pur con un risultato lusinghevole, verrebbe escluso. Neanche un’ipotesi estrema di alleanza, ovvero quella fra Movimento 5 Stelle, Idv e Fiom garantirebbe stabilità. Questa legge elettorale è pensata per arginare il rischio che un outsider possa vincere le elezioni e avere poi le mani libere. Certo – conclude il sondaggista – se non fosse abolito il “Porcellum” con Grillo al 30% alleato con l’Idv sarebbe tutta un’altra storia».

Twitter: @GiorgioVelardi 

Pasticcio alla siciliana – da “Il Punto” del 7/9/2012

martedì, settembre 11th, 2012

Dopo le dimissioni di Lombardo, l’isola tornerà alle urne per scegliere il loro nuovo presidente. Il vincitore dovrà fare i conti con una situazione ai limiti della sostenibilità

Lo chiamano «laboratorio». E automatica scatta la domanda: cosa si sta sperimentando? Il nuovo corso per una Regione in ginocchio, oppure lo scacchiere delle prossime alleanze a livello nazionale? Quel che è certo è che la Sicilia ha bisogno di ripartire. Velocemente. Di chiudere le ultime due parentesi e di aprirne un’altra, che destini al dimenticatoio le legislature di Totò Cuffaro (condannato a 7 anni per favoreggiamento aggravato alla mafia) e Raffaele Lombardo, che ha rassegnato le dimissioni il 31 luglio scorso e su cui pende l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. In vista delle elezioni che si svolgeranno il 28 ottobre prossimo, però, la confusione è tanta. La lista dei candidati per la poltrona di Palazzo d’Orleans è in continua scrematura, ma sono soprattutto le strategie dei vari partiti – spesso contrapposte a quelle in piedi a livello nazionale – a destare sorprese. Chi la spunterà fra Gianfranco Micciché, Nello Musumeci, Rosario Crocetta e Claudio Fava?

TUTTI CONTRO TUTTI - Una nota espressione popolare dice che «chi ci capisce è bravo». Frase perfetta per la situazione siciliana. Dove, negli ultimi mesi, è successo di tutto. Candidature proposte e poi ritirate, prima della decisione di scendere nuovamente in campo (è il caso di Micciché, appoggiato pure da Fli), convergenze sul nome dell’esponente di un partito con cui a Roma non c’è dialogo da tempo immemore (così il Pdl sceglie Musumeci de la Destra), e ticket in vista di un prossimo patto di legislatura su una figura che non rispetta del tutto i valori di uno dei due schieramenti (l’omosessuale Crocetta del Pd voluto da uomini dell’Udc). Poi c’è chi balla da solo: Claudio Fava di Sel, che potrebbe però raccogliere il sostegno dell’Idv. Insomma, di carne al fuoco ce n’è parecchia. Ma la «primavera» di cui necessita la Sicilia sembra più araba che italica. Perché la nomina di due nuovi assessori da parte di Lombardo mezz’ora prima di lasciare l’incarico (fatta salva l’ordinaria amministrazione) è solo la punta dell’iceberg di una gestione a dir poco “allegra” della Regione. Tanto che alla metà di luglio per la Sicilia era stato paventato il rischio default – con il premier Monti e il presidente Napolitano che erano dovuti intervenire in prima persona per monitorare la situazione –, poi bollato come «temporanea mancanza di liquidità». Cambia la forma, non la sostanza. E il futuro non appare roseo. Perché dal «laboratorio» potrebbe uscire una soluzione densa che rischierebbe di ingolfare ancora di più le condutture. E a rimetterci, manco a dirlo, sarebbero ancora una volta i siciliani.

PATTO, DOPPIO PATTO E… - Già, perché la Sicilia sembra essere il simbolo della confusione che impera a livello nazionale. Pd e Udc fanno le prove generali per una possibile, futura alleanza in vista del 2013. Ma la costruzione dell’asse fra «progressisti» e «moderati» procede a rilento. La testimonianza arriva direttamente dalle parole del segretario del Pd Bersani, che nei giorni scorsi ha fatto sapere che «tra Casini e Vendola, io mi tengo Nichi». Dall’altra parte della barricata non l’hanno presa benissimo. «Non siamo sorpresi, è legittimo che Bersani voglia organizzare il campo della sinistra – ha commentato a caldo il presidente dei centristi Buttiglione –. Noi abbiamo sempre detto che di quel campo non facciamo parte. Se Bersani avrà i voti per governare con Vendola governi faccia pure. Altrimenti si aprirà un’altra partita, quella della grande coalizione». Nell’Udc ci pensano, al “tutti dentro”. Tanto che lo stesso Buttiglione, intervistato da Avvenire il 29 agosto, l’ha addirittura descritta come «la nostra prima ipotesi». Le cose in Sicilia hanno però preso, nel corso di questi mesi, un’altra piega. In un primo momento l’alleanza fra i due partiti sembrava dovesse portare all’investitura di Giampiero D’Alia. Poi è stato lo stesso capogruppo dell’Udc al Senato a farsi da parte, proponendo l’ex sindaco antimafia di Gela Rosario Crocetta (Pd), che sogna di avere in squadra il pm di Palermo Antonio Ingroia, gode dell’appoggio di Ivan Lo Bello (leader della Confindustria siciliana, uno dei più forti oppositori di Lombardo) ma non di quello tout court del suo partito, visto che l’ex viceministro D’Antoni avrebbe preferito Pippo Baudo, Raffaele Bonanni (Cisl) o Gianni Riotta. E neanche Rita Borsellino, sorella del magistrato ucciso dalla mafia nel 1992, si è espressa in termini entusiastici: «L’accordo con gli eredi del cuffarismo segna una rottura profonda nel centrosinistra, e testimonia l’affanno di un Pd siciliano senza idee». Nel centrodestra le cose non girano tanto meglio. Qui ha pesato come un macigno il voltafaccia dell’artefice del  61 a 0 del 2011, Gianfranco Micciché, uno nato in Forza Italia (negli Anni ’90 è stato coordinatore regionale in Sicilia), poi scissionista e infine fondatore di Grande Sud. Ebbene l’ex ministro e sottosegretario ha prima deciso di proporre la sua candidatura, poi di ritirarla decidendo di appoggiare il candidato del Pdl e de la Destra Nello Musumeci, e infine di stringere un patto con l’ex “nemico” Lombardo (nel 2010 la spaccatura del Pdl Sicilia in Fli e in un gruppo di ex forzisti che hanno poi dato vita a Forza del Sud costrinse il governatore al quarto rimpasto di governo), con Fli e con il Movimento popolare siciliano, rimettendoci nuovamente la faccia. Un «alto tradimento» che Berlusconi non ha ancora digerito, e che – dicono fonti a lui vicine – lo ha mandato su tutte le furie. Micciché, in un colloquio telefonico con il Cavaliere, ci ha scherzato su: «Presidente, non si preoccupi. Sarò io a vincere, non la sinistra». E Musumeci? Storace ne sta sostenendo la candidatura a spada tratta. Su Twitter il segretario ha più volte ribadito che vincerà il suo uomo, ex presidente della Provincia di Catania ed ex Parlamentare europeo, uno che ha vissuto sotto scorta per sette anni a causa di reiterate minacce mafiose. A dargli appoggio anche Gasparri, La Russa e quel Gianni Alemanno su cui Storace ha spesso sparato a zero negli ultimi mesi. Ma si sa: vincere fa gola a tutti, e allora scurdammoce ‘o passat. Attenzione però a Claudio Fava. Giornalista catanese, 55 anni, è il coordinatore nazionale del partito di Vendola. Ha scelto di correre perché «l’Udc è legata alle esperienze di Cuffaro e Lombardo, che ha distrutto la Sicilia con le clientele. Crocetta predica la rivoluzione ma pratica il silenzio sul passato». Un sondaggio Ipsos ha rivelato come al momento Fava sia in vantaggio su Crocetta, anche se su tutti – secondo un’altro rilevazione, quella di Datamonitor – in testa ci sarebbe Musumeci (28 per cento), con il Pdl primo partito (20 per cento). Si tratterebbe, comunque, di un altro suicidio per il centrosinistra. L’ennesimo.

SPRECHI E MALAFFARE - Una cosa però è certa: chiunque vincerà le elezioni del prossimo ottobre dovrà scontrarsi con una situazione ai limiti della sostenibilità. Fra sprechi, uffici con un numero abnorme di personale e altri che invece sono in chiaro deficit, nominare la Sicilia significa evocare lo spettro del fallimento, sfiorato solo pochi mesi fa e bollato da Lombardo come «battage mediatico vergognoso». Non stupisce dunque il fatto che in tempi di banda larga, certificati online e spending review, la Regione abbia deciso nel maggio scorso di assumere ben trenta commessi di piano – comunemente conosciuti come “camminatori” – con il compito di portare le pratiche da un ufficio all’altro. Ma i nodi da sciogliere sono innumerevoli. Basta sciorinare un dato, quello sullo spropositato numero di dipendenti regionali: 17.995 per una Regione che conta poco più di cinque milioni di abitanti, contro i circa 3mila della Lombardia, che ne ha praticamente il doppio (9.992mila). C’è un dirigente ogni sei impiegati, e la cifra destinata alle pensioni dei consiglieri regionali è pari a 20,5 milioni di euro. Ovvio che tutto ciò abbia arrugginito gli ingranaggi. Emblematico è, ad esempio, il caso della «Commissione per la qualità della legislazione» (già il nome è tutto un programma): composta da nove deputati e costituita nel 2008, è costata finora la bellezza di 250mila euro di indennità. L’aspetto interessante è però un altro: dall’inizio del 2012, essa si è riunita solamente tre volte (22 febbraio, 13 marzo e 29 maggio), per un lasso di tempo che non supera le due ore totali. L’altra faccia della medaglia (quella sfregiata, però) è l’Ufficio sismico regionale. Che conta un unico dipendente affiancato da qualche lavoratore precario. La lista degli sprechi è ancora lunga. E tocca, inevitabilmente, anche la sanità. Per questa voce la Sicilia spende, ogni anno, circa 9 miliardi e mezzo di euro, lievitati di 520 milioni nel 2011. A destare scalpore è il numero di dipendenti del 118 (i cui costi sono aumentati lo scorso anno di 111 milioni di euro, tanto da provocare la reazione stizzita della Corte dei Conti), che sono 3.337 per “soli” 256 mezzi. Insomma, è come se voi vi sentiste male, chiamaste un’ambulanza, e venissero a curarvi in tredici. E perché non citare, in questo calderone bollente, le auto blu. Il governo Monti decide che devono essere tagliate? Evidentemente in Sicilia la notizia non è arrivata, visto che con 3.158 vetture è la quinta Regione nella graduatoria stilata dal Formez (il centro servizi, assistenza, studi e formazione per l’ammodernamento delle Pubbliche amministrazioni). Nel 2011 la spesa dell’Assemblea per acquisto e noleggio auto è stata pari a 250mila euro, a cui vanno però aggiunti i 100mila per le spese di gestione e i 124mila per quelle del personale (per il 2013, complice una misura contenuta in un provvedimento che prevede tagli alla spesa pubblica, l’amministrazione non potrà utilizzare più di 50 auto blu). Prosegue, poi, il problema collegato allo smaltimento dei rifiuti. Nel luglio del 2010 il governo Berlusconi aveva dichiarato lo «stato di emergenza», nominando lo stesso Lombardo come Commissario straordinario fino al 31 dicembre 2012. Ma le cose non sembrano essere migliorate, visto che oltre ai debiti contratti dalla Regione con le aziende sono a rischio anche 13mila posti di lavoro. Insomma c’è bisogno di idee concrete e anche (probabilmente) della bacchetta magica. Qualcuno però ha già preso l’accetta in mano per tagliare il superfluo. Con accadimenti paradossali. Ad agosto, in piena canicola complici i vari Caronte e Lucifero e alla luce di un debito monstre con l’Enel, l’assessorato all’Istruzione e alla Formazione professionale ha deciso di spengere gli impianti di condizionamento. «Bisogna risparmiare». Bastava pensarci prima.

Twitter: @GiorgioVelardi

La “legge bavaglio”? La fece già il centrosinistra, ma fanno tutti finta di non ricordare

lunedì, ottobre 10th, 2011

Faccio una premessa: sono contrario alla cosiddetta “legge bavaglio” e ad una classe politica (tutta, da destra a sinistra) che non riesce a risollevare le sorti di questo paese. Ma è proprio di un provvedimento che in questi giorni si sta discutendo con così tanto fermento – facessero le riforme, invece – nelle aule parlamentari che vi voglio parlare: il ddl sulle intercettazioni.

Più o meno sapete già di cosa si tratta, ma la vera novità è arrivata qualche giorno fa, quando l’onorevole Maurizio Paniz (Pdl) ha dichiarato durante un’intervista a Radio 24: «Il giornalista che pubblica ciò che non può pubblicare dovrebbe subire una sanzione pensale. Il carcere magari è un percorso più lungo. Che ne so, ci vorrebbe una sanzione da 15 giorni a un anno, poi il giudice graduerà a seconda della violazione, vedrà se sono possibili riti alternativi, pene pecuniarie o multe o – ribadisce Paniz – se il giornalista debba andare in carcere. Cosa che è tutto sommato molto rara nel nostro ordinamento per questa tipologia di situazione». È il mondo al contrario: la Camera è impantanata a votare l’autorizzazione o meno all’arresto (nell’ordine) di Papa, Tedesco, Milanese e Romano – tutti tranquillamente a spasso, tranne Papa che è a Poggioreale – e i giornalisti che fanno il loro mestiere, cioè informare, rischiano di finire dietro le sbarre.

Ma c’è di più, perchè l’ipocrisia della nostra classe politica non ha mai fine. Oggi i partiti di opposizione – tutti, nessuno escluso – si stracciano le vesti per protestare contro quello che dicono essere un «attacco alla democrazia». Ma quanti di voi sanno che il 17 aprile 2007 l’allora governo di centro-sinistra propose un ddl sulle intercettazioni a firma del ministro della Giustizia in carica Clemente Mastella con le stesse caratteristiche di quello attuale? Vi dò i numeri della votazione alla Camera: 447 sì e 7 astenuti. Neanche un deputato contrario. Uno, che ne so, che sbagliò a premere il pulsante durante la votazione. Niente. Ergo: hanno votato tutti in maniera compatta, dal Pdl al Pd, dall’Italia dei Valori (non c’era Antonio Di Pietro, ma il portavoce Donadi entusiasta affermò: «L’unanimità è un segno della forza del Parlamento») a Rifondazione comunista, che in quella legislatura sedeva – eccome – in Parlamento.

Pensate, votò a favore pure Giulia Bongiorno, diventata – dopo Manuela Arcuri, prima di scoprire la magagna – nuova eroina dell’opposizione. Vi cito qualche altro nome di politici con scarsa memoria, diciamo così: Carmelo Briguglio, Benedetto Della Vedova e Flavia Perina (oggi tutti portabandiera di Fli), Lorenzo Cesa e Luca Volontè (Udc) e persino Dario Franceschini (che martedì scorso ha detto: «Faremo di tutto per opporci a questa porcheria») e Massimo D’Alema, che arrivò addirittura a minacciare: «Parlate di 3-5mila euro di multa… ma li dobbiamo chiudere quei giornali». Il ddl non fu mai votato al Senato per la fine anticipata della legislatura. Democratici, eh?