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«Il Quarto Polo non segua il centrosinistra. Il Pd? Ha appoggiato politiche di destra» – da “Il Punto” del 21/12/2012

mercoledì, dicembre 26th, 2012

Il Fatto del Giorno trasmissione TvBersani lo ha deluso, perché «ha accettato totalmente le proposte di austerità e i sacrifici imposti, che hanno aggravato pesantemente la crisi». Mentre Vendola «dice una cosa e ne fa un’altra. Pensare di fare la sinistra con chi vuole applicare l’agenda Monti è una cosa senza senso». Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione comunista presente al battesimo del Movimento Arancione, parla chiaro: il Quarto Polo non deve cercare un’alleanza con l’attuale centrosinistra (Pd e Sel). «Si poteva trovare un accordo prima della formazione del governo Monti, oggi credo che non abbia alcun senso», afferma.

Ferrero, a che punto è la costruzione di quello che è già stato definitivo Quarto Polo?

«Mi sembra a buon punto. C’è un orientamento espresso da “Cambiare si può”, di cui Rifondazione comunista fa parte; poi c’è il Movimento Arancione che si sta muovendo nella stessa direzione e mi sembra che anche l’Italia dei valori, nell’assemblea di sabato scorso a Roma, abbia intrapreso la stessa rotta. Noi ci siamo: confido che a breve si riesca a portare a termine un atto costitutivo di questa lista».

Qualcuno ha detto di sentire odore di Sinistra arcobaleno…

«Non c’entra niente. La Sinistra arcobaleno era l’unione dei vari pezzi della sinistra che erano presenti all’interno della maggioranza nel biennio 2006-2008 e che furono messi insieme dopo una sconfitta. Qui si stanno combinando forze sociali che sono state all’opposizione del governo Monti, che sono contrarie alle politiche liberiste e che si pongono l’obiettivo di dare una rappresentanza politica a quella società che non ci sta, che è stata devastata da quanto è accaduto nell’ultimo anno. Siamo passati dal mettere insieme i cocci postumi ad un fallimento al vedere la nascita di un’opposizione da sinistra alle politiche neoliberiste in Italia».

Nei giorni scorsi lei, parlando di Bersani, non ha usato parole tenere: «Le sue proposte aggravano la crisi». Cosa rimprovera al segretario del Pd?

«L’aver accettato totalmente le proposte di austerità e i sacrifici imposti, che hanno aggravato pesantemente la crisi. La cosa peggiore è stato l’intreccio tra fiscal compact e pareggio di bilancio in Costituzione, perché l’origine della crisi stessa è la cattiva distribuzione del reddito: ricchi troppo ricchi e poveri troppo poveri. Ciò ha abbattuto i consumi e l’economia portandoci alla recessione e alle ingiustizie sociali. Il Pd ha appoggiato classiche politiche di destra, proposte da un governo che è stato il peggiore dal dopoguerra ad oggi».

Sentendola parlare, mi pare di capire che per lei il Quarto Polo non debba cercare un’alleanza con Pd e Sel…

«Assolutamente. Si poteva trovare un accordo prima della formazione del governo Monti, oggi credo che non abbia alcun senso. Non si può avere dialogo con chi per un anno massacra le pensioni, l’articolo 18, mette il pareggio di bilancio in Costituzione, porta avanti la “spending review” e nel frattempo trova 11 miliardi per le banche private».

È più deluso dal segretario del Pd o da Vendola?

«Vendola dice una cosa e ne fa un’altra. Non si possono fare determinate affermazioni e poi allearsi con chi ripete che l’agenda Monti è la sua agenda. O Vendola sta con Bersani e accetta le cose che dice – tenendo conto che il leader del Pd ha vinto le primarie e quello di Sel le ha perse – oppure fa la sinistra. Pensare di fare la sinistra con chi vuole applicare l’agenda Monti è una cosa senza senso».

Cosa pensa della presenza di Di Pietro e, eventualmente, di Ingroia?

«L’Italia dei valori ha fatto opposizione a Monti da sinistra. Credo che questo basti. Nell’anno in cui i tecnici hanno governato, il partito di Di Pietro si è opposto alle loro politiche: penso sia assolutamente necessario che l’Idv sia della partita. Per quanto riguarda Ingroia, personalmente va benissimo, nel senso che è una persona che ha dimostrato in questi anni di sapere combattere la mafia e contrastare i poteri forti».

De Magistris lo ha indicato addirittura come candidato premier. Lei condivide?

«Sì, perché Ingroia è l’emblema della necessità che abbiamo, ovvero quella di rimettere in piedi la democrazia – a partire dalla questione morale – e opporci radicalmente alle politiche neoliberiste che stanno distruggendo il Paese».

Twitter: @mercantenotizie

Elezioni alle porte, Europa nel mirino – da “Il Punto” del 21/12/2012

sabato, dicembre 22nd, 2012

monti_merkel_getty_02Sono finiti i tempi del «ce lo chiede l’Europa». Sostituiti dal ritorno in campo (sì-no-forse) di Berlusconi; dalle politiche «germanocentriche» di Monti (copyright del Cavaliere) che vanno riviste; dallo spread che è «un imbroglio»; dall’andare oltre l’agenda del Professore perché «alle primarie ha vinto quella di Bersani» (Vendola dixit); dal fare in modo che quanto è accaduto in questi mesi non sia reso vano ma anzi si faccia, per dirla col gergo musicale, il bis (è ciò che pensa il trio Casini-Fini-Montezemolo). Con le elezioni alle porte il tema del rapporto fra il nostro Paese e i partner europei, Germania su tutti, è all’ordine del giorno. E non sempre i toni sono rassicuranti. A destra come a sinistra – tranne che al centro, per i motivi che ben conosciamo – si discute, ci si agita, si minaccia il compimento di gesti estremi. Nel Pdl il ritorno di Berlusconi ha spaccato il partito. Soprattutto, ha fatto sobbalzare dalla sedia quegli esponenti che dell’europeismo hanno fatto da sempre il loro cavallo di battaglia. L’ex ministro degli Esteri Franco Frattini e il capogruppo del Pdl al Parlamento europeo Mario Mauro hanno alzato le barricate. Il primo ha fatto sapere che «se il Cavaliere fa una campagna anti-Unione europea io mi ritiro». Il secondo, che sarebbe addirittura il “manovratore” del capogruppo del Ppe Joseph Daul – che nei giorni scorsi ha detto «no» alla «politica-spettacolo» in Italia, aggiungendo che far cadere il governo Monti è stato «un grave errore» – ha invece dichiarato che «pensare di scaricare sull’Europa le mancate riforme che attengono a precise responsabilità politiche del nostro Paese è una scorciatoia da non prendere». Di più: l’entusiasmo per il ritorno al dialogo fra Pdl e Lega, condizionato dalla decisione di Berlusconi di candidarsi a Palazzo Chigi (Maroni è contrario), fa mettere da parte (volutamente?) un passaggio fondamentale: il Carroccio sta raccogliendo le firme per un referendum su euro ed Europa. «Sosteniamo che un referendum consultivo sul mantenimento della moneta unica sia la strada più corretta per rendere più democratica la costruzione dell’integrazione comunitaria e per far decidere in prima persona ai popoli che tipo di moneta vogliono», fanno sapere da via Bellerio. Poi c’è l’altra metà del campo. Perché anche Pier Luigi Bersani, per utilizzare il suo slang, ha le sue gatte da pelare. Il segretario del Pd è stato chiaro: «La mia ricetta contro la crisi ricalca quella di Monti più qualcosa. Sì al rigore, accompagnato da equità e crescita». Ma, come detto in precedenza, Nichi Vendola non viaggia sulla stessa lunghezza d’onda. «Se c’è l’agenda Monti io non ci sto – ha tuonato il leader di Sel –. Se abbiamo fatto le primarie per scherzo dobbiamo dirlo al nostro popolo». Apriti cielo. Infine, ci sono Beppe Grillo e Mario Monti. Il leader del M5S, fra epurazioni ed editti via web, solo un mese fa è tornato a parlare di Bruxelles come di «un luogo che assomiglia a un club Med, un dolce esilio dei trombati alle elezioni nazionali». E “Super Mario”? Tutti lo vorrebbero ancora a capo del governo italiano. E quei “tutti” sono Hollande, Merkel, Obama, Barroso, Van Rompuy, Rehn… In alternativa, pare sia pronta per lui la presidenza dell’Eurogruppo, pianoB a cui si lavora da tempo («È una personalità europea di primo piano, sarebbe perfetto», affermava nel marzo scorso l’attuale numero uno, Junker). In un quadro simile, le «regole d’oro» del Fiscal compact incombono – entreranno in vigore il 1° gennaio 2013. L’unica certezza in mezzo a tanta confusione.

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Portaborse al palo – da “Il Punto” del 21/12/2012

venerdì, dicembre 21st, 2012

portaborsePensavano che fosse finalmente arrivato il loro momento. E invece, con la fine anticipata della legislatura, il ddl che avrebbe regolamentato la figura dei collaboratori parlamentari – più comunemente chiamati “portaborse” – non vedrà mai la luce. Il provvedimento, ispirato al modello del Parlamento europeo (dove i collaboratori parlamentari vengono pagati direttamente dall’amministrazione di Bruxelles e non dai singoli deputati) è stato approvato alla Camera all’inizio di ottobre, ma non ancora calendarizzato al Senato. Nello stesso periodo, un’inchiesta de “Il Punto” aveva reso noti i soprusi subiti da alcuni “portaborse”. Che, visto l’accaduto, sono purtroppo destinati a continuare.

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Monti lascia, che succede al centro? I tre possibili scenari in vista del voto – da “Il Punto” del 14/12/2012

martedì, dicembre 18th, 2012

E ora che succede al centro? Se lo domandano i vari Pier Ferdinando Casini, Gianfranco Fini, Luca di Montezemolo, il presidente delle Acli Andrea Olivero, il ministro Andrea Riccardi… L’annuncio delle dimissioni del presidente del Consiglio dopo l’approvazione della legge di stabilità (ex Finanziaria) spiazza i sostenitori del «Monti dopo Monti», costretti a riordinare in fretta le idee in vista dell’imminente tornata elettorale. Un’intesa di massima c’è: la Lista per l’Italia – ma il nome sembra essere ancora parziale – potrebbe riunire sotto un’unica bandiera Udc, Fli, Italia Futura più una serie di associazioni, fra cui quella cattolica dei lavoratori. Casini è pronto, e ha più volte chiamato a raccolta il presidente della Ferrari. Che però, fra i tre (Fini viaggia sulla stessa lunghezza d’onda del leader centrista), è quello meno convinto dell’operazione. Non è un caso che solo il 10 settembre scorso, a margine della convention dell’Udc a Chianciano, il think tank montezemoliano pubblicava sul suo sito Internet un articolo in cui definiva «un fritto misto che non serve al Paese» le pur «buone intenzioni» dei centristi. La battaglia si giocherà a colpi di numeri perché è ormai chiaro ai più che si tornerà alle urne con un “Porcellum” puro. Il quale prevede una soglia del 4% alla Camera e dell’8 al Senato per l’ingresso in Parlamento di una singola formazione. Complice l’appoggio tout court alle politiche del governo tecnico, il partito di Casini ha perso terreno negli ultimi mesi tanto da scendere addirittura al 3,8%. Questo, almeno, è quanto dicono le ultime rilevazioni. È dunque necessaria la formazione di una coalizione che quantomeno alla Camera darebbe la possibilità a Casini e Fini di continuare a fare politica “attiva”. Ma, come detto, il passo indietro dell’ex Commissario europeo ha rimescolato le carte in tavola. È stato proprio Montezemolo a frenare gli entusiasmi. Mentre Casini e Fini, dopo aver saputo che il premier avrebbe lasciato anzitempo la poltrona, parlavano di «un gesto di responsabilità compiuto da Monti» (il primo) e di «un bel gol in contropiede a Berlusconi» (il secondo), l’ex numero uno della Fiat faceva sapere che «o Monti offre la possibilità politica di una convergenza di tutti i soggetti che si ispirano alla sua esperienza di governo, oppure sarà complicato esserci». Le prossime settimane saranno decisive per la costruzione di tre possibili scenari. Il primo è quello che vede Monti in campo e la formazione, appunto, di una casa comune dei “moderati” guidata da lui. In questo caso, però, il presidente del Consiglio dovrebbe decidere se lasciare la carica di senatore a vita – in questo senso ritornano in mente le parole pronunciate poche settimane fa dal capo dello Stato Napolitano – oppure non scendere nell’agone politico entrando in gioco solo a competizione conclusa. Casini, Fini e Montezemolo gli farebbero da “scudieri”, mettendolo al riparo da un possibile fallimento elettorale che ne pregiudicherebbe qualsiasi impiego a posteriori. Del resto, come ha ricordato il presidente della Camera, ora il capo del governo «ha le mani libere» e «non è più obbligato ad essere super partes». Ma attenzione, perché proprio la fine anticipata della legislatura potrebbe spingere Monti a mollare tutto. In questo anno e poco più alla guida dell’Italia, il premier e i suoi ministri – che pure, spesso, ci hanno messo del loro con atteggiamenti poco sobri – sono stati attaccati aspramente sia a destra che a sinistra, complici una serie di misure che, indicatori alla mano, hanno salvato l’Italia dalla bancarotta ma senza invertire il trend negativo. Dunque il Professore “stanco” potrebbe tornare all’impegno accademico (secondo scenario) uscendo di scena fra gli applausi dei partner internazionali, che hanno accolto con preoccupazione la notizia della sua dipartita. La terza ed ultima ipotesi, consequenziale, è quella di un percorso separato delle tre compagini. Non è un caso che Casini continui a dialogare fitto con il segretario del Pd Bersani, che Fini cerchi un appiglio nientemeno che in quel che resta del Pdl e che sia Montezemolo che Olivero tentino di trovare una sponda proprio nei democratici («È necessaria un’intesa fra Bersani e Monti per il futuro dell’Italia», ha reso noto giorni fa il presidente delle Acli, sponsorizzato anche da Dario Franceschini). Chissà che a prevalere, alla fine, non sia proprio quest’ultimo scenario. L’incontro che si sarebbe dovuto tenere il prossimo 20 dicembre fra Casini, Fini e Montezemolo è stato messo in stand-by. Ma c’è chi giura che il progetto sia ormai stato definitivamente archiviato.

Twitter: @mercantenotizie

Dottor Massimo e mr. D’Alema – da “Sfera pubblica” (15/12/2012)

lunedì, dicembre 17th, 2012

Primo luglio 2012: «In un nuovo centrosinistra europeo Monti può trovarsi a perfetto agio. È una personalità liberale che con la sua azione può mitigare positivamente le resistenze stataliste che ci sono ancora tra i socialisti. La sua insistenza sul completamento del mercato unico è giusta. Ha posizioni che a me paiono compatibili con il nostro orizzonte programmatico».

Quattordici dicembre 2012: «L’ho detto a Monti personalmente, ora glielo dico pubblicamente: sta logorando la sua immagine. Preservi se stesso, sia utile al Paese, non si faccia coinvolgere negli spasmi di una crisi politica sempre più convulsa e sconcertante per i cittadini. (…) Trovo che sarebbe illogico e in qualche modo moralmente discutibile che il Professore scenda in campo contro la principale forza politica che lo ha voluto e lo ha sostenuto nell’operazione di risanamento. Avendo grande stima di lui spero che non lo farà».

È strano pensare che entrambe le dichiarazioni siano state rilasciate dalla stessa persona, e a distanza di pochi mesi. Eppure è così. Neanche fosse dottor Jekyll e mr. Hyde, con una incredibile capriola, Massimo D’Alema ha fatto “un passo indietro” rivalutando – in negativo – la figura di Mario Monti. Perché averlo come alleato va bene, ma contro no, questo il presidente del Copasir proprio non lo può sopportare. Perché «qui stiamo parlando del futuro del Paese e delle istituzioni, non stiamo all’asta delle poltrone», ha aggiunto. Sussulto d’orgoglio. O forse paura. Quella, cioè, di vedere il centrosinistra ancora una volta subalterno alle altre forze che compongono lo scacchiere politico italiano: la “discesa in campo” di Monti e la capacità di Casini e Montezemolo di muovere «truppe cammellate» a suo sostegno fanno sudare freddo i vertici di Largo del Nazareno.

Nel 2006 Prodi riuscì a compiere il miracolo, ma poi il suo progetto si squagliò come neve al sole neanche due anni dopo, complice il fatto di aver messo in piedi una coalizione che andava da Mastella a Bertinotti. Un’ammucchiata perdente che diede a Berlusconi e al Pdl la possibilità di tornare a governare potendo contare sulla più ampia maggioranza nella storia della Repubblica. Ora l’incubo potrebbe ripetersi. Tutto, ovviamente, dipende dall’ex Commissario europeo, che continua a glissare sul suo futuro ma che prima o poi dovrà prendere una decisione definitiva.

Ma torniamo a D’Alema che, “rottamato” Renzi, deve decidere cosa farà da grande. Nell’intervista rilasciata il 14 dicembre al “Corriere della Sera” l’ex ministro degli Esteri è stato chiaro: «Ho dato la mia parola, non mi ricandiderò». Aggiungendo: «Vorrei ricordare che non sono disoccupato: sono presidente della fondazione Italianieuropei e sono a capo – nientemeno che, verrebbe da dire, ndr – della Foundation of European Progressive Studies. Faccio parte dei vertici del Pse». Ed è anche giornalista professionista. Quindi chissà che, per schiribizzo, il premier del “ribaltone” non voglia togliere il posto a qualche illustre commentatore – o a qualche precario – rispolverando la gloriosa tessera dell’Odg.

C’è comunque chi lo indica nuovamente alla Farnesina. E lui, sornione, dice che se arriverà una chiamata la valuterà. Quindi niente deroga, quella lasciamola alla Bindi. Anche perché, dopo la fredda replica di Bersani («Non sono io a nominare i deputati») alle sue esternazioni di metà ottobre («Posso candidarmi se me lo chiede il partito») e le parole non certo al miele del vicesindaco di Vicenza – e portavoce del segretario alle primarie – Alessandra Moretti, D’Alema ha capito che una forzatura sarebbe controproducente. Quindi meglio restare alla finestra. E magari, nel frattempo, rileggere il celebre romanzo di Stevenson. Certo, non un’opera contemporanea, visto che è datata 1886. Però per lui, che è in Parlamento da quasi 24 anni, dovrebbe andare più che bene.

P.S. Chiunque trovi un provvedimento che porta il nome di D’Alema, e che ha cambiato il corso degli eventi in Italia, è pregato di farcelo sapere. Buona ricerca.

Twitter: @GiorgioVelardi

Libertà è partecipazione – da “Il Punto” del 7/12/2012

giovedì, dicembre 13th, 2012

Colloquio con Frank La Rue, il relatore speciale dell’Onu per la protezione della libertà d’espressione e di stampa. «Quella del giornalista dovrebbe essere la più libera di tutte le professioni, credo che la diffamazione vada depenalizzata. Il governo Monti? È di transizione e deve fare scelte precise. A breve chiederò un incontro ufficiale»

«The worst case». Il caso peggiore. Frank La Rue, il relatore speciale dell’Onu per la protezione della libertà d’espressione e di stampa, usa queste tre parole quando parla dell’Italia. Focalizzandosi, in particolare, sulla concentrazione del potere mediatico nel nostro Paese. Lo abbiamo incontrato la scorsa settimana, durante una visita-lampo a Roma. Il suo nome è legato a doppio filo alle nomine all’Agcom, l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, avvenute nel giugno scorso. Il 27 aprile, due mesi prima che le stesse fossero formalizzate, La Rue inviò una lettera al sottosegretario agli Esteri Staffan de Mistura. Scrisse: «Vorrei ribadire la mia preoccupazione relativa alla procedura istituita dal Parlamento italiano per la nomina dell’autorità di regolamentazione dell’Agcom, che dovrebbe essere assolutamente indipendente. Invito il governo italiano e il Parlamento – proseguiva la missiva – ad aprire il processo di nomina al pubblico», fornendo «le informazioni sui candidati sulla base dei programmi, tenendo consultazioni con la società civile come un segnale forte di trasparenza e di partecipazione aperta». Elementi che, insieme alla libertà di espressione, «sono fondamentali di ogni società democratica». La Rue concludeva dicendo: «In quanto relatore speciale Onu, vorrei offrire il mio sostegno e la cooperazione tecnica per queste iniziative. Sarei più che felice di viaggiare in Italia per assistere e rafforzare questo processo».

Che ne è stato del suo appello?

«Nessuno ha mai risposto. Speravo che con l’esecutivo guidato da Mario Monti potesse avvenire una rottura con il passato. Magari considerando i diritti umani una priorità. Invece tutto è rimasto com’è».

Perché, secondo lei?

«Non amo fare commenti parlando in generale, mi piacerebbe invece venire in visita ufficiale per investigare meglio ed essere più preciso…».

Nella sua ultima relazione, ad ottobre, lei cita l’Italia una sola volta. È sotto la dicitura «Country visits – Pending requests». Fra parentesi una data: 2009. Allora c’era Berlusconi…

«Ho chiesto diverse volte al suo governo un incontro ma, semplicemente, non c’è mai stata nessuna risposta. Ogni volta dicevano che ero il benvenuto ma dovevo aspettare il momento giusto. Che non è mai arrivato. Ora sto pensando di chiedere a questo governo di organizzare un incontro ufficiale. Vedremo quale sarà la risposta ma spero accetteranno perché in un periodo di transizione bisogna rafforzare i diritti e la partecipazione dei cittadini. Ciò può portare grandi benefici alla democrazia e al governo stesso».

Freedom House ha detto che dopo la caduta del governo Berlusconi in Italia c’è una maggiore libertà d’informazione. È davvero così?

«Credo ci sia una maggiore libertà di stampa, perché Berlusconi ha perso parte del suo controllo ed è una cosa buona. Però nel vostro Paese ci sono diversi punti critici…».

Quali, per esempio?

«Penso che l’Italia debba deregolamentare il fatto che ogni giornale e ogni forma di mezzo di comunicazione deve essere registrato. Per me questa è una violazione della libertà di espressione e della libertà di stampa. In molti Paesi del mondo non ci sono queste regole riguardo la registrazione, in particolar modo per ciò che riguarda i giornalisti. Nonostante sia importante, la professione non deve essere vincolata ad un particolare titolo di studio: il giornalista deve studiare ed essere preparato, ma questa non deve essere una condizione vincolante. I cronisti, poi, non devono essere obbligati a costituire un’organizzazione professionale, come succede in alcuni Stati. Si tratta di un’altra violazione della libertà di espressione. Personalmente credo nelle associazioni della stampa, ma non ci deve essere obbligatorietà».

In Italia accade tutto il contrario di quanto lei afferma…

«Quella del giornalista dovrebbe essere la più libera di tutte le professioni. Pensi al caso del citizen journalism, i cittadini-giornalisti. In situazioni particolarmente critiche, come il terremoto in Giappone o la guerra in Siria, ci sono persone che si armano di videocamera o cellulare con fotocamera e scendono nelle strade a documentare la situazione, postando poi sul web i loro contributi. Queste persone dovrebbero essere protette esattamente come i giornalisti di professione. Il fatto che in Italia ci siano delle condizioni per essere un giornalista e dei regolamenti per aprire un mezzo di comunicazione non è positivo. Queste sono solo reminiscenze del passato».

Nelle ultime settimane si è dibattuto molto di diffamazione, di mandare in galera i giornalisti ma non i direttori etc… Una matassa complicata da sbrogliare. Qual è la sua opinione in proposito?

«Credo che la diffamazione debba essere depenalizzata, rimanendo solo passibile di azione civile ed avere dei limiti. Non ci dovrebbe essere neanche la sanzione economica. Al limite, se proprio ci deve essere una multa, dovrebbe trattarsi di una somma simbolica. La diffamazione è usata come una forma di intimidazione, gli inglesi lo definiscono chilling effect».

Insomma, lo Stato che dovrebbe proteggere i giornalisti in realtà li sottopone a un “ricatto”…

«Una delle cose che mi spaventano è che nel mondo vedo aumentare i pericoli per i giornalisti: a quello di persecuzione legale sulla base della diffamazione si affiancano i crimini religiosi e un aumento di aggressioni fisiche ed uccisioni. Se il giornalismo diventa una professione così pericolosa, l’obbligo di un Paese  dovrebbe essere quello di proteggere particolarmente i giornalisti, non metterli ancora più in pericolo. I cronisti dovrebbero essere protetti in maniera speciale per il servizio che offrono alla società».

In Italia non abbiamo una legge sul conflitto di interessi…

«Io credo nei media pubblici, che devono essere assolutamente indipendenti. Di conseguenza, gli organi dirigenziali non devono essere eletti dal governo e ancora meno dal primo ministro, e devono essere assolutamente sganciati da tutti i partiti politici. L’Italia dovrebbe imboccare questa strada. Per questo, ad aprile, ho chiesto di essere invitato durante il processo di elezione dei membri dell’Agcom. Ma, come ho già detto, nessuno mi ha mai risposto e la nomina è avvenuta seguendo le solite regole. Questo non va bene».

Perché non si è provveduto ad un vero cambiamento?

«Forse perché qualcuno ha avuto paura di cambiare le regole. Credo invece che questo sia il momento per fare dei cambiamenti, ma ci vuole coraggio. Un governo di transizione deve fare una scelta: essere di passaggio per arrivare alla prossima legislatura oppure decidere di organizzare un cambio di passo, anche se questo può richiedere del tempo».

Avrà sicuramente letto della candidatura del giornalista americano Wolfgang Achtner, che si è proposto per la guida del “Tg1” senza ricevere alcuna risposta dal Consiglio di amministrazione della Rai. Cosa ne pensa?

«Credo che come non ci dovrebbero essere condizioni per praticare il giornalismo non ci dovrebbe essere neanche una “nazionalita” che lo impedisca. Basta citare il caso dei corrispondenti esteri. Se questi possono riportare le notizie dagli altri Paesi perché non possono anche lavorare per un media estero, sia esso pubblico o privato? Non c’è niente di male. Una sentenza della Corte dei diritti umani interamericana ha riguardato proprio un giornalista straniero che era andato in Costa Rica, dove non gli era stato permesso di fare il suo lavoro. Il verdetto ha stabilito invece che lui doveva poter svolgere la sua professione, perché non ci devo essere condizioni per fare il giornalista».

Nomine Agcom, ricorso delle associazioni. Assonime: «Serve maggiore trasparenza» – da “Il Punto” del 7/12/2012

martedì, dicembre 11th, 2012

«I curricula? Sono stati usati come carta da cesso». Il leader dell’Idv Antonio Di Pietro commentò così, con un’espressione intensa ma significativa, la nomina dei nuovi membri dell’Agcom e del Garante per la protezione dei dati personali. Era lo scorso giugno, sette mesi dopo l’investitura a premier di Mario Monti, che insieme ai suoi ministri “tecnici” avrebbe dovuto portare maggiore sobrietà e imparzialità in Parlamento. Speranza disattesa, perché nulla di nuovo è comparso sotto il sole. Anzi. I partiti hanno continuato imperterriti nella loro lottizzazione spartendosi la torta come se nulla fosse e, in barba alle decine di candidature arrivate da esponenti della società civile, hanno “piazzato” i loro uomini nelle Authorities. E così Antonio Martusciello, ex forzista della prima ora, già sottosegretario all’Ambiente e poi viceministro della Cultura del governo Berlusconi, è finito all’Agcom in quota Pdl (148 voti). Così come Maurizio Dècina, docente al Politecnico di Milano, indicato dal Pd (163 voti). E tanto per non farsi mancare nulla, visto che il presidente dell’Authority lo nomina il primo ministro, Monti ha pensato bene di scegliere Marcello Cardani, che fu suo collaboratore a Bruxelles e che insegna alla Bocconi, l’Università di cui il capo del governo è presidente. Non è sufficiente? E allora al Garante per la privacy il Parlamento ha nominato Augusta Iannini, capo Ufficio legislativo del ministero della Giustizia nonché moglie del giornalista Bruno Vespa, e Antonello Soro, ex capogruppo del Pd alla Camera. Insomma, ce n’è quanto basta per gridare alla “spartitocrazia”. Ovvio che le associazioni che si sono battute affinché le nomine fossero trasparenti abbiano annunciato battaglia. Open Media Coalition, Agorà Digitale, Anso (Associazione nazionale stampa online), Articolo 21, Femi (Federazione dei media digitali indipendenti) e Società Pannunzio hanno fatto ricorso. «A formare oggetto di contestazione – hanno scritto in un comunicato congiunto – non è la competenza o l’esperienza dei singoli membri nominati ma l’idoneità del procedimento adottato dalla Camera e dal Senato per garantire al Paese un’Autorità garante indipendente». «Preso atto di quanto è accaduto, abbiamo fatto ricorso al Tar per chiedere quanto i vizi del procedimento di nomina abbiano inciso sull’assegnazione degli incarichi all’Agcom», spiega a “Il Punto” Guido Scorza, coordinatore della Open Media Coalition. «Il procedimento è partito due settimane fa, noi abbiamo chiesto che le nomine vengano annullate – prosegue Scorza –. L’obiettivo è quello di fissare il principio per il quale la società civile, di fronte alla nomina di una carica pubblica avvenuta su base opinabile, ha un giudice al quale rivolgersi per chiedere che verifichi l’accaduto». In questo contesto, come detto, il governo Monti non ha portato mutamenti significativi. Dice il coordinatore della Open Media Coalition: «Lo si può rimproverare perché sarebbe stato importante che, in quanto esecutivo di transizione, si fosse provveduto a costruire una struttura normativa che portasse tutti, da qui in avanti, a rispettare regole di trasparenza e indipendenza». Sull’argomento in questione è intervenuta anche Assonime, l’Associazione fra le società italiane per azioni. In un recente documento, stilato da un gruppo di lavoro coordinato dall’economista Innocenzo Cipolletta, si sottolinea come «in Italia il quadro giuridico delle autorità indipendenti si è sviluppato in fasi successive senza un disegno unitario e l’esperienza ha evidenziato alcune carenze, ad esempio nei meccanismi di nomina e nel disegno delle competenze». Va dunque assicurato «un orizzonte stabile al processo decisionale, isolandolo dalle oscillazioni connesse al ciclo politico», che favorisca «una maggiore stabilità delle regole per il funzionamento del mercato». Secondo Assonime, «gli attuali meccanismi di nomina appaiono insoddisfacenti dal punto di vista dell’apertura e della trasparenza nella raccolta delle candidature e quindi inidonei a fare emergere le migliori professionalità in ciascun settore dell’attività istituzionale, al servizio del Paese». L’Associazione definisce inoltre «utile» l’istituzione di «una Commissione bicamerale per la concorrenza e i rapporti con le autorità», che assicuri a queste ultime «un interlocutore parlamentare stabile e attento e costituisca il referente parlamentare nel processo di nomina dei componenti, per l’esame del fabbisogno finanziario e per la gestione della spesa». Fra le 15 proposte formalizzate c’è anche quella di «richiedere alle autorità di individuare le priorità dell’azione istituzionale su un orizzonte pluriennale e di enunciarle al Parlamento e all’opinione pubblica». Il tutto con un principio di fondo: «I meccanismi di nomina dei componenti delle autorità devono essere disegnati in modo da assicurare la distanza dalla politica, l’indipendenza sostanziale e la competenza professionale specifica dei componenti». Perché specificarlo, se l’Agcom afferma che «indipendenza e autonomia sono elementi costitutivi che ne caratterizzano l’attività e le deliberazioni»?

Twitter: @mercantenotizie

Lui, loro e l’altro – da “Il Punto” del 30/11/2012

giovedì, dicembre 6th, 2012

Il capo dello Stato ricorda che il Professore «non si può candidare perché già parlamentare», il premier afferma di essere pronto a «dare un contributo». Udc, Montezemolo e frange di Pd e Pdl lavorano affinché a Palazzo Chigi ci sia ancora lui. Rendendo inutili le primarie e lavorando ad una legge elettorale che favorisce l’ingovernabilità   

Maria Stella Gelmini, ex ministro dell’Istruzione rimasta celebre per il tunnel fra il Cern e il Gran Sasso, dice di «vedere positivamente» la possibilità di un Monti-bis per arginare «il rischio di avere tra qualche mese al governo una sinistra tutt’altro che riformista e teleguidata dalla Cgil». Aggiunge ancora che «Montezemolo ci interessa, perché appare più consapevole di Casini del grave pericolo che corriamo di consegnare il Paese ad una sinistra inadeguata per governare». Un altro dei pezzi da novanta del Pdl, Franco Frattini, si sbilancia e afferma che alle primarie sosterrà Alfano, ma che «se Monti è in campo va sostenuta una grande alleanza dei moderati con Casini e Montezemolo». La forma non è cambiata (i «comunisti» demonizzati da Berlusconi sono ancora lì come uno spauracchio, così come la Cgil), la sostanza invece sì. Perché se da una parte c’è chi si batte per fare del Pdl un partito dove la «libertà» non sia solo la terza parola che ne compone il nome, dall’altra c’è chi lavora affinché il Professore rimanga a Palazzo Chigi anche dopo l’esperienza tecnica. Con un alleato d’eccezione: Giorgio Napolitano.

COMPROMESSO SUL COLLE - Sembra esserci un patto non scritto fra il Popolo della Libertà e il Quirinale: elezioni anticipate (al 10 marzo?) onde evitare che i “berluscones” facciano cadere il governo in un momento decisivo come quello attuale per poi fare in modo che Monti rimanga dov’è attualmente. Ciò permetterebbe al Pdl di non scomparire dalle scene (oggi il partito oscilla fra il 15 e il 18 per cento) e a Napolitano di sciogliere le Camere poco prima che il “semestre bianco” glielo impedisca dando vita al nuovo governo. Certo, l’inquilino del Colle ha provato a mettere ordine per evitare di “sponsorizzare” eccessivamente l’ex rettore della Bocconi. Pochi giorni fa il capo dello Stato ha avvisato che Monti «non si può candidare in Parlamento perché già parlamentare», e che «ha uno studio a palazzo Giustiniani dove dopo le elezioni potrà ricevere chiunque vorrà chiedergli un parere, un contributo o un impegno». Molto probabilmente, il presidente della Repubblica ha paura che un eventuale insuccesso elettorale di una “lista-Monti” o di un partito che appoggi o sia addirittura guidato da lui possa rovinare la festa ancora prima che questa cominci. La base di partenza è comunque solida. La “discesa in campo” di Montezemolo a sostegno dell’attuale premier e Casini che ripete come una litania che «dopo Monti c’è Monti» fanno presagire che Bersani debba mettere nuovamente da parte i sogni di gloria e lasciare strada a qualcun altro. Dal canto suo il diretto interessato, “tirato per la giacca” in più occasioni dai giornalisti, è passato dal «no comment» al «rifletterò su tutte le possibilità in modo da poter ancora dare il mio contributo per il migliore interesse dell’Italia europea». Frase, quest’ultima, che pronunciata nel giorno del primo turno delle primarie del centrosinistra ha avuto un retrogusto amaro dalle parti di Largo del Nazareno. Anche perché poi Monti ha usato la tecnica del bastone e della carota. Prima ha dichiarato che dopo le elezioni «un altro governo tecnico sarebbe una sconfitta per la politica», e poi ha aggiunto che il suo esecutivo ha svolto una «attività schiettamente politica». Come a dire: tutti sono necessari, ma nessuno è indispensabile.

BERSANI AL BIVIO - Non che pensasse di vincerle in scioltezza, ma il ballottaggio alle primarie del centrosinistra costringe il segretario del Partito democratico a rubare tempo e spazio alla costruzione dell’alternativa di governo. Domenica Bersani dovrà (nuovamente) vedersela con Matteo Renzi, che al primo turno ha raccolto nove punti in meno di “Pier Luigi”. Il sindaco «rottamatore» prepara la festa, mentre il segretario è sicuro di uscire vincitore. Certo è che, una volta ottenuto il successo, per Bersani i nodi da sciogliere saranno numerosi. Prima di tutto c’è la legge elettorale. Malgrado si tratti per abbassare la soglia del 42,5 per cento utile per ottenere il premio di maggioranza – e messi da parte pure gli “scaglioni” previsti da Calderoli – la sostanza è che ad oggi nessuna coalizione arriverebbe tanto lontano. Ecco che Casini, con il quale Bersani continua a dialogare quotidianamente (il leader Udc, pochi giorni prima delle primarie, si augurava un successo di “Pier” al primo turno), potrebbe quindi risultare decisivo. Chiedendo qualcosa in cambio dell’appoggio, ovvero che Monti faccia il premier. Non è un caso che nell’ultima settimana il segretario del Partito democratico sia tornato a strizzare l’occhio ad Antonio Di Pietro, che negli ultimi mesi sembrava lontano anni luce dai progetti dei democrat per via dei continui attacchi al governo dei tecnici e al presidente della Repubblica. Per ora si tratta di «un’alleanza con molti “se”», perché c’è bisogno di «gesti politici significativi». Ma la riapertura delle porte all’ex pm – che ultimamente ha visto la sua creatura perdere pezzi di giorno in giorno – è significativa. Questo perché, oltre a guardarsi attorno, Bersani sa di dover tenere gli occhi aperti anche dentro casa sua. La truppa dei democratici che sostengono la necessità di un Monti-bis è sempre in agguato. Per capirlo basta ascoltare Stefano Ceccanti, che di recente si è inerpicato in un ragionamento tanto articolato quanto emblematico. Siccome «l’attuale legge elettorale non prescrive che ci sia il nome del candidato premier sulla scheda», ha affermato senatore di scuola veltroniana ad Avvenire, «chiunque voglia può mettere sulla scheda il suo preferito per Palazzo Chigi. Chiunque, insomma, può indicare Monti». Più chiaro di così…

CONFUSIONE PDL - «Chi ci capisce è bravo», recita il vecchio adagio. È ciò che accade nel Pdl, dove l’atteggiamento di Berlusconi continua a mettere alla prova i nervi di Angelino Alfano gettando il partito nel caos più completo. La lettura che si può dare del suo comportamento è la seguente: il Cavaliere vuole ostacolare l’operato del “delfino” in modo da mostrare che effettivamente il «quid» non c’è (ciò si tradurrebbe, in concreto, nella mobilitazione di “truppe cammellate” contro Alfano alle primarie, sempre che si facciano, per non farlo andare troppo lontano) per poi fondare una nuova creatura e tornare in sella più convinto che mai. Pare che il “nuovo” soggetto politico dovrebbe chiamarsi – non a caso – Forza Italia. Magari vicino ci si metterà quel ”2.0” che sa di rinnovamento ma ha il retrogusto dell’usato sicuro. I più vicini al Cavaliere (fra cui la sondaggista Alessandra Ghisleri) lo hanno avvisato: «Attenzione, c‘è il rischio di segnare un clamoroso autogol». Ma in caso di eventuale disfatta è già pronta la scialuppa di salvataggio, il Monti-bis. Scenario che solo quattro giorni fa Berlusconi non ha escluso: «Questa sua posizione lo pone fuori dal contrasto politico. Se lui riterrà di poter essere utile al Paese e alcune forze politiche saranno dell’idea, ci si potrà rivolgere a lui», ha avvertito “Silvio”. Molto dipenderà dal risultato finale delle primarie del centrosinistra. Se la vittoria andrà a Bersani, Berlusconi potrebbe decidere di sciogliere le riserve e affrontare la corsa a Palazzo Chigi. Non sarebbe la prima volta. E forse neanche l’ultima.

Twitter: @mercantenotizie

«Nel Pd non prevalga linea anti-Bersani. Il Pdl costruisca leadership collegiale» – da “Il Punto” del 16/11/2012

mercoledì, novembre 21st, 2012

Colloquio con Michele Prospero, docente di Scienza politica e filosofia del diritto alla “Sapienza” di Roma ed editorialista de “l’Unità”.

Professore, mesi fa lei si chiedeva se quelle del centrosinistra fossero primarie o «una sfilata». È riuscito a dare una risposta al suo interrogativo? 

«A quel tempo c’erano alcuni fattori di disturbo, fra cui le “bordate” di Renzi ad esponenti del suo stesso partito e il fatto che Vendola appoggiasse i referendum dell’Idv, che rendevano instabile la tenuta degli equilibri fragili del centrosinistra. Queste primarie sono una competizione esplicita, con toni e metafore per certi versi sopra le righe. La preoccupazione era che la diversità di cultura politica fra i candidati fosse così pronunciata da farle diventare uno strumento inefficace, perché quando fra chi partecipa c’è eccessiva distanza il meccanismo entra in crisi».

A seconda di chi la spunterà il centrosinistra andrà in una direzione o in un’altra. Se vince Renzi il rischio è la disgregazione…

«Questo pericolo c’è, perché i sostenitori di Renzi sono quelli che più di altri hanno sposato l’agenda Monti e disdegnano una politica delle alleanze. Il sindaco di Firenze si muove in maniera oscillante: aveva addirittura aperto ad una possibile cessione delle “chiavi del potere” all’attuale premier in caso di successo. Adesso invece Renzi sta segnando un distacco dall’esperienza tecnica e pare scettico su ogni ipotesi di accordo. Il rischio è che prevalga una linea ostile a quella che ha tenuto finora Bersani – il quale ha garantito una centralità sistemica al Pd attraverso la proposta di un’intesa fra i progressisti aperta ai moderati – che è l’orizzonte entro cui giocare la partita. Se si scatenano conflitti che lacerano questo terreno le strade sono due: ricreare l’Unione oppure riesumare la vocazione maggioritaria».

Per quanto riguarda il cambio delle regole, c’è il sentore che Bersani abbia aperto le porte a Renzi ma poi lo abbia ingabbiato… 

«A differenza della precedente tornata questa è una contesa accesa e ci sono preoccupazioni di tenuta. Le regole sono necessarie, e bisogna fare in modo che si avvicinino il più possibile a quelle delle elezioni, che siano cioè ritagliate sul corpo elettorale reale. Quelle decise per queste primarie sono in sintonia con i pronunciamenti della Corte suprema americana, la quale ha stabilito che un partito ha diritto a chiedere un elenco pubblico dei votanti e che la partecipazione senza appartenenza è illegittima. Fare primarie “aperte” in Italia vuol dire rendere i partiti entità scalabili rischiando di andare incontro ad un blocco unico, totalitario».

Nel Pdl, dove Alfano si è “ribellato” a Berlusconi, le primarie hanno senso oppure, in caso di fallimento, si rischia di andare alle elezioni senza un partito di area? 

«Le primarie potrebbero essere un fiasco e ciò potrebbe comportare il collasso definitivo del Pdl. Però senza un grande partito di centrodestra la democrazia italiana non funziona. Detto ciò, Alfano ha fatto bene a sfidare il Cavaliere: un partito come il Pdl non può sopravvivere se non rompe in maniera esplicita con il capopadrone. Il problema è che una lotta simile andava impostata prima, come ha fatto Maroni con Bossi, perché non ci sono uscite negoziali dal partito personale. C’è da augurarsi che il segretario riesca nel suo obiettivo, è interesse nazionale quello di avere un partito di centrodestra di stampo europeo».

C’è oggi una figura che potrebbe ridare smalto al Pdl? 

«All’interno del partito c’è già una rete di politici spendibili: penso ai tanti giovani (Fitto), agli amministratori che sono emersi in questi anni, oppure a Galan. Quella che va ricostruita è una leadership collegiale: le velleità personalistiche vanno messe da parte. E poi Alfano deve evitare di commettere un errore, cioè quello di accodarsi a Casini sulla legge elettorale. I loro interessi non coincidono. Il segretario deve contrattare un sistema di voto che consenta di mantenere l’ossatura bipolare».

C’è il rischio che tutto sia reso vano dal Monti-bis?

«Non credo ci sia la possibilità di uno scenario simile: Bersani dovrebbe farcela. Non regge un governo di larghe intese. Credo che in vista della riforma elettorale sia più efficace assegnare il premio al partito più grande che alla coalizione. Comunque, una soglia elevata come quella del 42,5 per cento per conseguire il premio riproporrebbe la centralità dei “cespugli”, delle piccole formazioni che cercano di aggregarsi in vista del voto».

Twitter: @GiorgioVelardi 

«Vinco le primarie? Azzero il Pdl» – da “Il Punto” del 9/11/2012

sabato, novembre 17th, 2012

«Se vinco le primarie azzero il Pdl. Vorrei fare un patto con gli italiani: portiamo le tasse al 30% ma paghiamole tutti». Questo il pensiero di Daniela Santanchè, candidata alla corsa per la guida del partito.

Nelle ultime settimane è diventata il bersaglio di alcuni colleghi di partito per alcune sue affermazioni. Quanti però la pensano come lei?

«Tantissimi. Poi avere il coraggio di dirlo pubblicamente è un’altra questione. In molti credono che ci sia bisogno di cambiare, facendo primarie con regole che consentano di avere come vincitore la partecipazione».

Il Pdl crolla in Sicilia e rischia di perdere i moderati. Potreste ritrovarvi in un vicolo cieco…

«Quanto successo in Sicilia è la rappresentazione plastica della “guerra fra bande”, che ci ha portati alla sconfitta. L’astensionismo mi preoccupa, però annoto che il mercato elettorale del centrodestra è rimasto intatto: sommando i voti di Musumeci e Micciché avremmo vinto. È il prodotto politico che è venuto meno. L’80% del nostro elettorato è contro il governo Monti, che noi continuiamo a sostenere. Il Pdl non è più nel cuore degli italiani, bisogna fare scelte diverse».

Ipotizziamo che lei vinca le primarie. Come rilancia il Pdl?

«Azzerando tutti, basta professionisti della politica. Io non voglio che in Parlamento ci sia qualcuno che non abbia mai lavorato un’ora in vita sua facendosi mantenere dagli italiani. Bisogna diminuire del 50% i costi della politica, ogni anno si spendono 20 miliardi di euro. Se è vero quello che dicono i magistrati, il caso Fiorito dimostra che ci sono troppi soldi a disposizione, quindi va abolito completamente il finanziamento pubblico. E poi farei un patto con gli italiani, di cui mi fido ancora molto. Vorrei guardarli negli occhi e dirgli che le tasse le portiamo al 30%, però bisogna che tutti le paghino. Questo è l’ultimo giro, altrimenti ci ritroviamo con un commissario europeo in casa che ci dice cosa fare».

Dall’altra parte del ring c’è Alfano… 

«Essere segretario del Pdl e avere un presidente come Berlusconi è difficile. Lui però doveva rinnovare, senza portare avanti una linea politica che andasse a braccetto con Monti e senza presentarsi con il cappello in mano da Casini, con cui i rapporti andavano chiusi da tempo visto che dice che “si può parlare solo se Berlusconi va ai giardinetti”. Sono errori indotti non solo da lui, però andava fatto di più».

Twitter: @GiorgioVelardi

L’eretico keynesiano – da “Il Punto” del 14/09/2012

lunedì, settembre 24th, 2012

È diretto e ha le idee chiare, Giulio Sapelli, professore di Storia Economica all’Università degli Studi di Milano e autore de “L’inverno di Monti – Il bisogno della politica”. A Il Punto dichiara: «Fatta eccezione per alcune idee che ha avuto il ministro dello Sviluppo Economico, Corrado Passera, il governo Monti mi ha profondamente deluso. Il problema della crescita si può risolvere aumentando il debito pubblico, non c’è nessun classico dell’economia che afferma il contrario. E se non si abbassano le tasse, nel 2013 in Italia assisteremo alla distruzione sistematica della piccola-media impresa».

Professore, nel suo libro ha scritto che «il nesso fra nazionalizzazione ed internazionalizzazione non si è rafforzato organicamente, ma imponendo l’euro. Una rete che imprigiona tutte le nazioni europee sotto l’usbergo di una banca centrale tedesca piuttosto che europea». Insomma, è stato un fallimento. E non c’è un “piano B”…
«L’euro senza l’unità politica dell’Europa è un fallimento, non c’è dubbio. Quando abbiamo creato la moneta unica senza Stato, cosa mai accaduta in nessuna parte del mondo, eravamo nel periodo di massimo splendore della new economy. Un momento di altissima crescita che sovrastò il resto. In questo modo le asincronie fra unità monetaria e frantumazione politica, e alta produttività tedesca contro bassa produttività soprattutto dell’Europa del Sud, non sono venute alla luce. Appena la crescita del commercio mondiale ha cominciato a diminuire – ed è questo il vero problema al giorno d’oggi, basta guardare i dati di India, Cina, Brasile e Russia –, e la recessione si è abbattuta sull’Europa e sugli Usa, il fatto di avere una moneta unica che impedisce le svalutazioni competitive e la presenza di una banca centrale che non è la Federal Reserve ci ha portato a rimanere intrappolati. Dobbiamo ringraziare alcuni incompetenti dal punto di vista tecnico che hanno copiato lo statuto della Bce da quello della Bundesbank…».

Ha aggiunto che l’epicentro di questa crisi risiede negli intermediari finanziari e quindi nelle banche. Lei ha sottolineato la necessità di una divisione tra quelle d’affari e quelle commerciali…
«Esattamente. In Italia c’è bisogno di ritornare alla legge del 1936, abolendo la riforma Amato e anche quella di Bill Clinton (1999, ndr), che negli Stati Uniti mise la parola fine sul Glass-Steagall Act (la legge bancaria del 1933 che introdusse riforme atte a bloccare la speculazione, ndr). Finché non ci sarà questa divisione non si uscirà dalla crisi finanziaria, perché le banche continueranno a comprare derivati over the counter con i soldi degli ignari depositanti».

Basta conoscerla un po’ per sapere che lei è uno dei primi detrattori del premier Monti. Faccio prima a chiederle se c’è qualcosa che questo governo ha fatto “di buono”...
«Alcune idee che ha avuto il ministro dello Sviluppo Economico, Corrado Passera, come la detassazione al Sud delle assunzioni a tempo indeterminato e la parziale defiscalizzazione di alcune tasse sull’impresa. L’altra faccia della medaglia sono le uscite vergognose della professoressa Fornero, che se avesse operato in un altro Paese, dopo aver messo sul lastrico 350mila famiglie, si sarebbe già dimessa. Per il resto sono profondamente deluso. Ma credo che questo non sia neanche un governo di tecnici: ad esempio Lorenzo Ornaghi, che è un mio caro amico, lo vedo bene a fare qualsiasi cosa meno che il ministro. Se i tecnici sono questi – parlo riguardo la loro competenza – Dio ci salvi da loro».

Si parla da mesi del taglio delle Province. Secondo lei il problema sono le Regioni, che «rappresentano un fallimento istituzionale e finanziario». Perché?
«Lo Stato deve essere fondato sui Comuni. Le Regioni sono un “enfisema polmonare”. Lei si rende conto che la spesa dei ministeri è scesa del 20/25% e quella delle Regioni – anche se ce ne sono alcune virtuose, come Lombardia e Veneto – è aumentata del 150%? Chi dice che il problema sono i Comuni deve vergognarsi. Vuol dire non conoscere per niente come funziona la finanza pubblica».

Qual è la sua “ricetta”?
«Io non sono né un politico né un cuoco, ma un intellettuale. Per cui non ho “ricette”. Ho invece delle idee, e la prima è quella secondo cui in un momento di recessione non si possono aumentare le tasse. Secondo poi, nessun classico dell’economia dice che il debito pubblico è un problema per la crescita. Gli ideologi del sistema non guardano la realtà: il nocciolo della questione è l’assenza stessa di crescita, che si può risolvere aumentando il debito pubblico. Ci sono dei vincoli europei che lo impediscono? Allora va portata avanti una battaglia per cambiarli».

Monti, Merkel e Hollande dovrebbero rileggere Keynes?
«Certamente. Gli economisti più attuali sono lui e Minsky, che fra l’altro ha vissuto a lungo in Italia. A loro due aggiungo Caffè, Momigliano e Labini. La nostra è stata una grande tradizione, poi tutti questi “ragazzotti” hanno iniziato ad andare ad Harvard, con i risultati che conosciamo. Basta con la finanza, bisogna tornare a studiare l’industria».

In questo senso un ruolo chiave lo sta avendo il presidente della Bce Draghi, che non a caso è stato allievo di Federico Caffè, uno dei principali diffusori della teoria keynesiana…
«Anche Draghi ha avuto delle piccole sbandate, cadendo preda dei miti dell’economia neoclassica. Però è una persona di grande buonsenso e intelligenza, con cui ho avuto il piacere di lavorare all’Eni. È un pragmatico, non un fondamentalista, che unisce una buona preparazione teorica a grandi valori morali. Sta dando prova di grande machiavellismo – il mio è un complimento –, aggirando i vincoli della Bce e portando avanti una politica sullo stile della Fed».

Sulla necessità di un nuovo legame fra nazionalizzazione ed internazionalizzazione c’è l’incognita del voto negli Usa, il 6 novembre. Cosa accadrebbe se vincesse Romney?
«Sarebbe una catastrofe. Sul fronte repubblicano l’unica voce fuori dal coro è stata quella di Condoleezza Rice, la quale ha dichiarato che gli Usa devono continuare ad occuparsi del mondo. Sentire Romney mi fa paura, soprattutto quando dice che “Obama si occupa del mondo, io delle vostre famiglie”. Gli Stati Uniti sono diventati una grande forza di libertà e democrazia da quando hanno iniziato ad occuparsi del mondo. Se non avessimo avuto la spinta propulsiva della loro economia saremmo andati a fondo. Le politiche economiche dei repubblicani sono drammatiche. Obama, pur nella sua modestia, ha spinte di realismo kissingeriano molto positive. La sua politica economica gode del peso di un grande intellettuale come Ben Bernanke».

In Italia, invece, si fatica a capire cosa succederà il prossimo anno…
«Se non si abbassano le tasse inizierà la distruzione sistematica della piccola-media impresa. Monti cammina nella realtà ma non si accorge di ciò che accade, se continuiamo così nel 2013 ci sarà una recessione spaventosa. In molti dovrebbero rileggere il Manuale della Finanza pubblica del professor Francesco Forte…».

Twitter: @GiorgioVelardi

Concertazione, indietro tutta – da “Il Punto” del 14/09/2012

lunedì, settembre 17th, 2012

«Esercizi profondi di concertazione nel passato hanno generato i mali contro i quali oggi noi lottiamo, e a causa dei quali i nostri figli e nipoti oggi non trovano facilmente lavoro». Così parlò Mario Monti lo scorso 11 luglio dal palco dell’assemblea annuale dell’Abi, l’Associazione bancaria italiana. Era il giorno in cui Silvio Berlusconi confermava le indiscrezioni del Corriere della Sera e annunciava una nuova “discesa in campo”, ma anche quello in cui Vittorio Grilli veniva nominato ministro dell’Economia. Nulla però fece rumore quanto le frasi del premier. Arrivate, oltretutto, a pochi giorni di distanza dalla bocciatura – con seguente ridimensionamento “istituzionale” – del presidente di Confindustria Giorgio Squinzi, che aveva dato solo «sei meno meno» all’operato dell’esecutivo, definito la riforma del mercato del lavoro una «boiata», e si era detto «totalmente d’accordo» con il Camusso-pensiero. Il quale, come abbiamo imparato a conoscere in questi nove mesi, è agli antipodi con quello dello stesso Monti e del ministro del Welfare Elsa Fornero. Insomma, ostracizzare i provvedimenti messi nero su bianco dal governo e criticare a spada tratta tutti gli sforzi che i “Monti boys” stanno difficilmente facendo avrebbe portato ad una crescita dello spread. Quindi meglio ingoiare il rospo e via. Perché «ce lo chiede l’Europa», «siamo ad un passo dal baratro» e via discorrendo. Poi però, a soli tre mesi di distanza, è successo quello che forse nessuno si sarebbe mai immaginato. E cioè che il presidente del Consiglio, a poche ore dall’inizio del vertice fra il governo e le imprese che si è svolto la scorsa settimana, abbia annunciato come «molto della sorte dei lavoratori, degli imprenditori e del Paese è nelle mani delle parti sociali italiane, e non solo e non tanto in quelle del governo». Questo perché, aggiungeva Monti alla fine del “tavolo”, «bisogna abbattere lo spread della produttività. E bisogna fare in fretta: l’Europa ci guarda». Scendendo su un terreno molto più discorsivo e colloquiale, potremmo citare la tecnica del bastone e della carota: alternare alle cattive maniere (le critiche alla concertazione) quelle buone («serve uno sforzo congiunto»). Ma rischieremmo di mancare clamorosamente il bersaglio. Perché quella di nove giorni fa non è la sola “piroetta” dell’ex Commissario europeo. Prima il balletto sulle liberalizzazioni, poi il teatrino sui poteri forti – «In Italia non ne conosco, magari questo Paese ne avesse di più», disse a novembre. Poi a giugno denunciò: «Negli ultimi tempi il governo ha perso il sostegno di Confindustria e dei poteri forti» –, infine la marcia indietro sulla questione di cui si è parlato finora. Nel mezzo ci sono i numeri in crescendo di debito pubblico, disoccupazione e richieste di cassa integrazione (secondo l’Inps, ad agosto sono stati autorizzati alle imprese 67 milioni di ore di Cig, +18,7% rispetto allo stesso periodo del 2011); le questioni di Alcoa, Carbosulcis e di altre migliaia di piccole e media imprese in difficoltà; un Parlamento in letargo che rischia il “miracolo” al contrario di varare una legge elettorale peggio del “Porcellum”. E pensare che l’indimenticato Tommaso Padoa Schioppa, noto per la frase sui «bamboccioni», poche settimane dopo essere diventato ministro dell’Economia (2006) disse: «Concertazione e accordo sono parole del linguaggio musicale»…

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