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Vivere verde – da “Il Punto” del 16/11/2012

giovedì, novembre 22nd, 2012

La quattro giorni dedicata alla green economy ha visto lo svolgimento degli “Stati Generali”, che hanno reso note le 70 proposte ecosostenibili per portare l’Italia fuori dalla crisi. Il governo, per bocca dei ministri Clini e Passera, ha annunciato la concessione di incentivi per l’efficienza energetica. Critiche da Wwf e Greenpeace: «Con Monti non c’è stata un’inversione di tendenza»

Avete mai pensato di regalare alla vostra dolce metà, uomo o donna che sia, una collana o un anello realizzato con materiale riciclato? Oppure di ridurre il volume dei rifiuti e contemporaneamente ricaricare la batteria della vostra auto elettrica? A Rimini, trasformatasi per quattro giorni (dal 7 al 10 novembre) nella capitale della green economy e teatro della 16esima edizione di “Ecomondo”, tutto è stato possibile. Perfino indossare orecchini fatti con i tasti di un computer e anelli di bottoni, gli eco-bijou. Un appuntamento che ha visto la presenza di oltre 84mila visitatori (con un incremento dell’11 per cento rispetto al 2011) e che quest’anno è stato accompagnato dagli “Stati generali della Green Economy”, composti da 39 associazioni di imprese che rappresentano tutti i settori dell’economia “verde” italiana, supportati dalla Fondazione per lo sviluppo Sostenibile con la collaborazione del Ministero dell’Ambiente.

LE 70 PROPOSTE “GREEN” - Sono tante le proposte per diffondere una nuova visione della green economy formalizzate nel corso della quattro giorni di lavori. Gli “Stati Generali” ne hanno messe nero su bianco 70, divise in otto gruppi. Si parte dalle misure generali, come l’adozione di una fiscalità ecologica e la promozione di un migliore utilizzo delle risorse dei fondi europei, per arrivare allo sviluppo di una mobilità sostenibile, attraverso la promozione e la diffusione di veicoli a basse emissioni e lo sviluppo di infrastrutture digitali al servizio dei trasporti. Nel mezzo ci sono lo sviluppo della ecoinnovazione; dell’ecoefficienza, del riciclo e della rinnovabilità dei materiali; dell’efficienza e del risparmio energetico (in questo caso, uno dei punti cardine è l’attuazione della “Direttiva sull’efficienza energetica”, approvata ad inizio settembre dal Parlamento europeo, che fra le altre cose delega agli Stati membri di  fissare il proprio target nazionale di riduzione dei consumi nel rispetto dei vincoli del “Pacchetto 20-20-20” che l’Unione europea ha approvato nel 2008); delle fonti energetiche rinnovabili; delle filiere agricole di qualità ecologica e la tutela e la valorizzazione dei servizi degli ecosistemi. Il ministro dell’Ambiente Corrado Clini e quello dello Sviluppo Economico Corrado Passera, presenti all’evento, hanno annunciato l’emanazione di un decreto legge del governo che concederà nuovi incentivi per termico ed efficienza energetica – per un totale di 900 milioni di euro annui nell’arco di 24 mesi – ai privati e alla Pubblica amministrazione. Si tratta di aiuti fino al 40 per cento della spesa per tecnologie che utilizzano, ad esempio, le biomasse e gli impianti solari termici. Provvedimento che fa il paio con i 470 milioni già previsti dal Decreto sviluppo a vantaggio delle aziende che assumeranno giovani lavoratori a tempo indeterminato e alle quali saranno concessi i finanziamenti a tasso agevolato per tre anni. Atti che non hanno comunque risparmiato critiche all’esecutivo tecnico. «Dal 2008 ad oggi abbiamo assistito ad un drastico taglio degli stanziamenti a favore del ministero dell’Ambiente e delle politiche ambientali: siamo passati da 1,6 miliardi agli attuali 450 milioni. E con Monti non c’è stata nessuna inversione di tendenza» ha dichiarato a la Repubblica il responsabile dell’Ufficio relazioni istituzionali del Wwf Stefano Lenzi. Più duro il parere di Giuseppe Onufrio, direttore di Greenpeace: «Sull’energia si è dato un colpo di freno eccessivo alle fonti rinnovabili e si è disegnata una “Strategia energetica nazionale” di corto respiro che dà il via libera alle trivelle a mare, mantiene la produzione a carbone e non è credibile sulle rinnovabili».

VIA D’USCITA DALLA CRISI - Vivere verde non vuol dire solo avere città con alte percentuali di raccolta differenziata e bassi livelli di inquinamento ambientale. Significa anche creare lavoro e combattere la crisi. In questo senso la green economy sta diventando un serbatoio importante per coloro che sono in cerca di occupazione. Secondo i dati del rapporto Green Italy 2012, realizzato da Unioncamere e Fondazione Symbola con il patrocinio dei ministeri dell’Ambiente e dello Sviluppo economico, il 38,2 per cento delle assunzioni è “verde”. Non solo: come ricordato dal rapporto Green economy per uscire dalla crisi, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) stima che entro il 2030 potrebbero essere creati fino a 20 milioni di nuovi posti nel settore della produzione e della distribuzione di energia da fonti rinnovabili. «La green economy è un’economia che può garantire la crescita e lo sviluppo, migliorare il benessere, fornire posti di lavoro dignitosi, ridurre le disuguaglianze, combattere la povertà e preservare il capitale naturale da cui tutti dipendiamo. Tale economia offre un modello efficace per promuovere lo sviluppo sostenibile», ha invece sottolineato la Commissione europea, che nel 2011, nel corso dei lavori di preparazione della Conferenza sullo Sviluppo Sostenibile (Rio+20), ha fissato obiettivi e azioni per lo sviluppo della green economy – fra cui la crescita di iniziative per la formazione di partenariati innovativi fra i vari paesi. Stando a quanto affermato da un rapporto dell’Unep (il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente), per convertire l’economia tradizionale in una green economy andrebbe investito ogni anno il 2 per cento del Pil mondiale. Parliamo, in sostanza, di circa 1.300 miliardi di dollari da impegnare in dieci settori strategici, fra cui la produzione e la distribuzione di energia da fonti rinnovabili (360 miliardi) e la creazione di sistemi di mobilità sostenibile (190). Per quanto riguarda l’Italia, il lavoro da fare è tanto. Sotto il profilo della ecoinnovazione, l’Eco-innovation Scoreboard 2011 ha segnalato come il nostro Paese sia al 16esimo posto nell’Europa a 27 e sotto la media europea. A pesare c’è il capitolo rifiuti. In Italia la raccolta differenziata stenta a decollare, con evidenti disparità fra le diverse aree geografiche della penisola. Un dossier redatto di recente da Anci (Associazione nazionale dei comuni italiani) e Conai (Consorzio nazionale imballaggi) testimonia come la media nazionale si attesti al 35,53 per cento, con punte positive (50 per cento) al Nord e negative (22) al Sud. Non va poi dimenticata la fortissima contrazione della superficie agricola del nostro Paese: negli ultimi trent’anni, secondo l’Istat, la Superficie agricola totale (Sat) è diminuita di 5,3 milioni di ettari, mentre quella utilizzata (Sau) di 3 milioni di ettari. Ciò a causa, nella maggior parte dei casi dell’espansione edilizia e industriale.

ISTANTANEE DA RIMINI - Fra i 16 padiglioni della Fiera di Rimini ce n’è per tutti i gusti. Dalle auto elettriche agli ecopannelli realizzati con materiale legnoso di recupero evitando l’abbattimento di nuovi alberi, fino alla moquette “riciclabile”. Importante, in questo senso, è il lavoro compiuto dalla Ecoplus, l’azienda dell’ingegner Claudio Ginnasi, che produce piastre su basamento rigido o terreno battuto interamente ricavate da pneumatici usurati. «Questi prodotti possono essere utilizzati sia nei parchi gioco che a bordo piscina, oppure per strada in città. Dossi artificiali prodotti con il nostro materiale – ci spiega Ginnasi – sono completamente antiscivolo e hanno il vantaggio di non portare al deterioramento della segnaletica stradale. Sono uno strumento sicuro in particolare per chi viaggia sulle due ruote in situazioni atmosferiche difficili». C’è poi chi, come Achab Group, ha dato vita ad un’iniziativa davvero singolare: una «raccolta punti amica dell’ambiente» che premia la sostenibilità ambientale attraverso una partnership fra cittadini, Enti locali e grande distribuzione. Ogni 100 grammi di minori emissioni di CO2 gli utenti che si registreranno su un apposito sito Internet raccoglieranno dei punti che, accumulati, permetteranno di ottenere sconti e promozioni nelle attività commerciali aderenti all’iniziativa. Vivere verde, pensare positivo.

Twitter: @GiorgioVelardi              

«Nel Pd non prevalga linea anti-Bersani. Il Pdl costruisca leadership collegiale» – da “Il Punto” del 16/11/2012

mercoledì, novembre 21st, 2012

Colloquio con Michele Prospero, docente di Scienza politica e filosofia del diritto alla “Sapienza” di Roma ed editorialista de “l’Unità”.

Professore, mesi fa lei si chiedeva se quelle del centrosinistra fossero primarie o «una sfilata». È riuscito a dare una risposta al suo interrogativo? 

«A quel tempo c’erano alcuni fattori di disturbo, fra cui le “bordate” di Renzi ad esponenti del suo stesso partito e il fatto che Vendola appoggiasse i referendum dell’Idv, che rendevano instabile la tenuta degli equilibri fragili del centrosinistra. Queste primarie sono una competizione esplicita, con toni e metafore per certi versi sopra le righe. La preoccupazione era che la diversità di cultura politica fra i candidati fosse così pronunciata da farle diventare uno strumento inefficace, perché quando fra chi partecipa c’è eccessiva distanza il meccanismo entra in crisi».

A seconda di chi la spunterà il centrosinistra andrà in una direzione o in un’altra. Se vince Renzi il rischio è la disgregazione…

«Questo pericolo c’è, perché i sostenitori di Renzi sono quelli che più di altri hanno sposato l’agenda Monti e disdegnano una politica delle alleanze. Il sindaco di Firenze si muove in maniera oscillante: aveva addirittura aperto ad una possibile cessione delle “chiavi del potere” all’attuale premier in caso di successo. Adesso invece Renzi sta segnando un distacco dall’esperienza tecnica e pare scettico su ogni ipotesi di accordo. Il rischio è che prevalga una linea ostile a quella che ha tenuto finora Bersani – il quale ha garantito una centralità sistemica al Pd attraverso la proposta di un’intesa fra i progressisti aperta ai moderati – che è l’orizzonte entro cui giocare la partita. Se si scatenano conflitti che lacerano questo terreno le strade sono due: ricreare l’Unione oppure riesumare la vocazione maggioritaria».

Per quanto riguarda il cambio delle regole, c’è il sentore che Bersani abbia aperto le porte a Renzi ma poi lo abbia ingabbiato… 

«A differenza della precedente tornata questa è una contesa accesa e ci sono preoccupazioni di tenuta. Le regole sono necessarie, e bisogna fare in modo che si avvicinino il più possibile a quelle delle elezioni, che siano cioè ritagliate sul corpo elettorale reale. Quelle decise per queste primarie sono in sintonia con i pronunciamenti della Corte suprema americana, la quale ha stabilito che un partito ha diritto a chiedere un elenco pubblico dei votanti e che la partecipazione senza appartenenza è illegittima. Fare primarie “aperte” in Italia vuol dire rendere i partiti entità scalabili rischiando di andare incontro ad un blocco unico, totalitario».

Nel Pdl, dove Alfano si è “ribellato” a Berlusconi, le primarie hanno senso oppure, in caso di fallimento, si rischia di andare alle elezioni senza un partito di area? 

«Le primarie potrebbero essere un fiasco e ciò potrebbe comportare il collasso definitivo del Pdl. Però senza un grande partito di centrodestra la democrazia italiana non funziona. Detto ciò, Alfano ha fatto bene a sfidare il Cavaliere: un partito come il Pdl non può sopravvivere se non rompe in maniera esplicita con il capopadrone. Il problema è che una lotta simile andava impostata prima, come ha fatto Maroni con Bossi, perché non ci sono uscite negoziali dal partito personale. C’è da augurarsi che il segretario riesca nel suo obiettivo, è interesse nazionale quello di avere un partito di centrodestra di stampo europeo».

C’è oggi una figura che potrebbe ridare smalto al Pdl? 

«All’interno del partito c’è già una rete di politici spendibili: penso ai tanti giovani (Fitto), agli amministratori che sono emersi in questi anni, oppure a Galan. Quella che va ricostruita è una leadership collegiale: le velleità personalistiche vanno messe da parte. E poi Alfano deve evitare di commettere un errore, cioè quello di accodarsi a Casini sulla legge elettorale. I loro interessi non coincidono. Il segretario deve contrattare un sistema di voto che consenta di mantenere l’ossatura bipolare».

C’è il rischio che tutto sia reso vano dal Monti-bis?

«Non credo ci sia la possibilità di uno scenario simile: Bersani dovrebbe farcela. Non regge un governo di larghe intese. Credo che in vista della riforma elettorale sia più efficace assegnare il premio al partito più grande che alla coalizione. Comunque, una soglia elevata come quella del 42,5 per cento per conseguire il premio riproporrebbe la centralità dei “cespugli”, delle piccole formazioni che cercano di aggregarsi in vista del voto».

Twitter: @GiorgioVelardi 

La terribile settimana di Fini – da “Il Punto” del 16/11/2012

venerdì, novembre 16th, 2012

C’è stato un tempo in cui Gianfranco Fini era indicato da molti come il leader di una destra italiana di respiro internazionale. Una destra che aveva chiuso a chiave nel cassetto un passato poco glorioso per la storia del nostro Paese e che guardava al futuro con accenti meno marcati su temi quali l’immigrazione, le disuguaglianze, le pari opportunità. C’è stato, appunto. Perché la parabola discendente compiuta dall’attuale presidente della Camera rischia oggi di provocarne addirittura la fuoriuscita dal Parlamento. Stando agli ultimi sondaggi, Futuro e Libertà per l’Italia sarebbe ben lontano dalla soglia di sbarramento (4 per cento) stabilita dalla legge elettorale per accedere ai “palazzi”. Per Spincon (istituto di sondaggi online indipendente), infatti, solo l’1,8 per cento degli italiani voterebbero per il partito di Fini, mentre per Emg la percentuale salirebbe al 2,7 per cento (media: 2,3 per cento). Si tratta, comunque, del capitolo conclusivo di una storia dal finale amaro, sia per l’ex leader di Alleanza nazionale che per molti suoi compagni di viaggio. Una vicenda cominciata nel marzo del 2009, quando An fu sciolta per confluire nel Popolo della Libertà. Un partito in cui i rapporti di forza erano evidentemente squilibrati già in partenza. Questo perché Fini non aveva a che fare con un leader qualsiasi, ma con Silvio Berlusconi. L’uomo più potente del Paese. Colui che ad aprile del 2010, in occasione della Direzione nazionale del Pdl, lo cacciò pubblicamente da una creatura che era nata, cresciuta e modellata a sua immagine e somiglianza, in cui il dissenso non era (e in parte ancora non è) contemplato. «Un match senza precedenti, nel quale a prevalere è più la distanza personale che quella politica», scrisse il Giornale commentando l’accaduto. Da quell’incontro ravvicinato con il “peso massimo”, Fini uscì con le ossa rotte. Pensò che lo strappo gli avrebbe permesso di accaparrarsi le simpatie anche di chi fino a quel momento lo bollava ancora come «fascista», malgrado lui nel 2003, nel corso di un viaggio a Yad Vashem (Israele), definì il ventennio mussoliniano «il male assoluto». Così non andò. Per rimanere in vita Fli si è accodato a Udc e Api, dando vita ad un Terzo polo che si è sbriciolato ancora prima della conclusione dei lavori, e ha perso pezzi importanti quali Ronchi, Urso, Scalia, Rosso, Viespoli, Barbareschi… Nel frattempo di sottofondo, per Fini, c’erano gli echi della vicenda della casa di Montecarlo, che periodicamente regala aggiornamenti non certo esaltanti per moglie e cognato. Quel che è certo è che la settimana scorsa sarà ricordata a lungo dal presidente della Camera. Lunedì 5, ai funerali di Pino Rauti, storico segretario del Movimento sociale italiano che non accettò mai la “svolta di Fiuggi”, Fini viene pesantemente contestato dai camerati, che arrivano addirittura a sputargli addosso e ad accostarlo a Pietro Badoglio. «Un paio di tipi muscolosi hanno provato ad avvicinarsi, allora mi sono alzata e gli ho puntato contro l’ombrello», ha rivelato Assunta Almirante (moglie dello scomparso Giorgio, di cui il leader di Fli è stato a lungo il “delfino”), che lo ha difeso. Pochi giorni più tardi, poi, Fini tende la mano ad Alfano – «Con lui si potrà davvero aprire una pagina nuova per tutti i moderati italiani. E personalmente ne sarò lieto» – ma il segretario del Pdl lo gela: «La sua storia con l’elettorato di centrodestra è chiusa». Dice il vecchio adagio: «Chi è causa del suo mal pianga se stesso».

Twitter: @GiorgioVelardi 

Fastweb atto terzo – da “Il Punto” del 9/11/2012

mercoledì, novembre 14th, 2012

Prima luglio, poi novembre e ora gennaio 2013. Per i circa 600 lavoratori del settore “Customer Care & Customer Base Management” dell’azienda di proprietà di Swisscom la cessione a Visiant sta diventando un “giallo nel giallo”. E ora anche i sindacati, dopo gli entusiasmi iniziali, sono sul piede di guerra  

Un “giallo nel giallo”. È quello di cui sono protagonisti i circa 600 lavoratori del settore Customer Care & Customer Base Management di Fastweb, l’azienda che opera nel settore delle telecomunicazioni nata sul finire degli Anni ’90 a Milano e diventata di proprietà di Swisscom nel 2007, che sarebbero dovuti essere esternalizzati a Visiant Next Spa il primo luglio scorso. Sarebbero, appunto. Perché dopo un primo rinvio dell’operazione a inizio novembre, ora un avviso notificato ai diretti interessati rende nota «la necessità di maggior tempo di quanto preventivato» e che va quindi ridefinita «al 1° gennaio 2013 la data di trasferimento delle persone e delle attività appartenenti al ramo». Una vicenda intricata che, come di consueto, rischia di non avere alcun vincitore ma solo tanti sconfitti: i lavoratori.

L’ANTEFATTO Il Punto aveva dato notizia di quanto stava accadendo proprio quando i giochi sembravano fatti e i lavoratori avevano pure preparato gli scatoloni, all’interno dei quali era stata inserita anche una buona dose di dubbi e incertezze. Il perché è presto detto: Visiant Spa, che controlla al cento per cento Visiant Next (la newco fondata il 23 aprile di quest’anno e controllata a sua volta da Visiant Contact Srl), si trova in amministrazione controllata. Non solo: ci sono punti dell’«accordo di armonizzazione», sottoscritto da azienda e sindacati, che i lavoratori contestano. Due su tutti: il 9 e il 12. Nel primo si assicura che «nella remota ipotesi di fallimento di Visiant Contact Srl o Visiant Next Spa e/o di ammissione di Visiant Contact Srl o Visiant Next Spa a procedure concorsuali, Fastweb Spa selezionerà un nuovo partner a cui trasferire, senza soluzioni di continuità, le attività e i rapporti dei lavoratori appartenenti al ramo d’azienda ed ancora in forza a Visiant Next Spa (…)». Tradotto: la delocalizzazione della delocalizzazione. Poi c’è il punto 12: «Visiant Next Spa conferma che i lavoratori facenti parte del ramo ceduto continueranno a svolgere le attività oggetto del trasferimento di ramo d’azienda, fatto salvo che, in relazione ad una migliore valorizzazione delle professionalità dei lavoratori stessi, siano assegnati a diverse attività». Ciò provocherebbe, in caso, un “effetto boomerang”: Fastweb potrebbe infatti cedere la commessa senza più i lavoratori al suo interno ad un nuovo partner e l’accordo decadrebbe. Come detto, la cessione degli addetti al settore Customer Care & Customer Base Management sarebbe dovuta avvenire a inizio luglio. Poi però il 27 giugno – solo quattro giorni prima del passaggio – i lavoratori ricevono questa comunicazione: «Vi informiamo che il trasferimento non avrà effetto dal 1° luglio. Fastweb, fin dall’inizio del progetto, ha posto come obiettivo primario per il trasferimento del ramo garanzie di stabilità societaria e solidità finanziaria del partner prescelto, della sua controllante e dell’intero gruppo Visiant; questo a tutela sia delle persone che delle attività coinvolte ed in considerazione dell’accordo sottoscritto il 12 maggio 2012 con le parti sociali. A tal fine il gruppo Visiant ha reso noto che nell’arco del prossimo mese saranno fornite alcune garanzie finanziarie (…). Vi forniremo aggiornamenti in merito».

VISIANT E OVERSEAS IND. - Qual è il motivo della retromarcia? Per spiegarlo dobbiamo fare un passo indietro e analizzare la visura della Camera di Commercio di Milano (24 giugno 2011) in cui è scritto: «In merito alla situazione finanziaria della società (Visiant Contact Srl, ndr), si rileva in particolare che il debito tributario per l’Iva non versata al 31/12/2010 ammonta ad euro 6.677.020 e, ai primi mesi di maggio 2011, risulta pari a circa euro 5.950.000. Ad oggi non si è ancora a conoscenza dell’avvenuta conclusione di un piano di ristrutturazione di tale debito». In conclusione, vanno assunte «le appropriate determinazioni in relazione all’approvazione del Bilancio e alla copertura della perdita d’esercizio (…)». In mancanza di tali interventi il rischio è «la messa in liquidazione» della società. Malgrado la situazione fosse complicata fin dall’inizio, Fastweb e i sindacati sottoscrivono l’accordo. Poi arriva il primo rinvio e parallelamente Visiant viene acquistata dalla Overseas Industries, società italiana di investimenti creata trent’anni fa dall’imprenditore Emanuele Costa, che viene affiancato nel 2005 da Federico Nordio. La Overseas sigla un aumento di capitale da 5 milioni di euro per rilanciare Visiant e promette di «sottoscrivere un ulteriore aumento da 3 milioni». Cosa, adesso, ha bloccato l’ingranaggio? «È ovvio che l’ingresso in Visiant da parte di Overseas Industries abbia rimescolato le carte in tavola, e che qualcosa sia andato storto. In questo gioco di accordi fra le società le conseguenze le pagano i lavoratori», ci racconta un dipendente Fastweb che chiede l’anonimato. «La cosa che più ci fa rabbia è che noi ci troviamo in mezzo alla tempesta senza che la nostra azienda sia in crisi», prosegue. Numeri alla mano, nel primo semestre 2012 Fastweb ha sì visto diminuire il proprio fatturato netto, passato da 875 a 853 milioni di euro (-2,5 per cento), ma ha incrementato il numero dei suoi clienti (+78mila unità). «Una perdita – ci spiega il nostro interlocutore – frutto di un abbassamento dei prezzi che è servito a rimanere competitivi sul mercato. Al contrario degli altri operatori, Fastweb non può contare sugli utili del settore “mobile”. La produzione però c’è e va avanti, basti pensare che quest’anno abbiamo percepito un premio di produzione pari a quasi 2mila euro». La rabbia dei dipendenti deriva dalle rassicurazioni che l’azienda ha fornito loro prima di delocalizzarli e dall’atteggiamento che lo Human Capital continua ad avere nei loro confronti. La nostra fonte ci racconta che «pochi giorni prima dell’ultima comunicazione con cui Fastweb ci avvisava che l’esternalizzazione era rimandata a gennaio 2013, un addetto alle risorse umane ha fatto visita alle varie sedi assicurandoci che la stessa sarebbe andata a buon fine. Poi hanno smentito loro stessi». Infine viene sollevato un interrogativo: «Nella comunicazione che ci è stata recentemente inviata è scritto che la data di trasferimento delle persone e delle attività appartenenti al ramo sarà ridefinita “al 1° gennaio 2013”. Cosa vuol dire “al”? Che ad inizio anno ci sarà il passaggio a Visiant, o che tutto è ancora incerto e che potremmo ritrovarci addirittura in mobilità o in cassa integrazione?». Una domanda a cui solo le aziende interessate (compresa la Swisscom, proprietaria di Fastweb, il cui silenzio sulla vicenda fa rumore) possono – e devono – dare una risposta.

VUOTI A PERDERE - Dopo gli entusiasmi iniziali, ora anche i sindacati si stanno ricredendo sulla bontà dell’accordo. Tanto che nei giorni scorsi Fistel-Cisl, Slc-Cgil, Uilcom-Uil e Ugl-Telecomunicazioni hanno diramato dei comunicati in cui chiedono all’azienda un «incontro congiunto» per fare il punto della situazione (la Cgil ha fatto addirittura sapere che «ogni violazione dell’accordo sottoscritto il 12 maggio scorso sarà utilizzata per ricorrere alla Magistratura Ordinaria»). Nel frattempo i lavoratori si sono rivolti all’avvocato Ernesto Cirillo che, contattato da Il Punto, ha spiegato: «Si tratta di una delle tante cessioni di ramo d’azienda che sono avvenute in Italia negli ultimi anni. Uno strumento che permette di rendere le società più leggere perché diminuisce il personale e vengono appaltati i servizi alle aziende a cui lo stesso viene esternalizzato. Alla scadenza di questo contratto, nel caso in questione, Fastweb potrebbe dire: “Questa prestazione mi costa troppo, cerco un’altra ditta che mi fa risparmiare”. Il destino dei lavoratori coinvolti, in base a quella che è la storia del fenomeno, è segnato. Tutti i dipendenti Telecom delocalizzati negli ultimi anni sono poi finiti in cassa integrazione o in mobilità. Sono dei vuoti a perdere, che dipendono al cento per cento dalla società cedente e che una volta terminato il contratto fanno venire meno i posti di lavoro». A metà conversazione l’avvocato si sofferma su un punto: «L’accordo non coinvolge i lavoratori di Bari». Il motivo? «Lì si stanno sfruttando fondi regionali e incentivi. Una situazione che ha portato, nel corso di questi mesi, a convergere sul capoluogo pugliese alcune attività che l’azienda non ha inteso cedere. Per il resto era tutto scritto: i bilanci di Visiant presentavano già delle problematiche – afferma Cirillo – ma i sindacati hanno comunque firmato un “accordo di armonizzazione” con l’azienda. Nello stesso, Fastweb, che dovrebbe teoricamente liberarsi dei lavoratori, parla delle attività come fossero le proprie. È una situazione paradossale, e le parti sociali sono state “morbidissime”. Cosa che sta accadendo anche in altre operazioni della stessa natura. L’unica tutela possibile è il ricorso giudiziario, dimostrando che non c’erano i requisiti di legge per formalizzare l’accordo e che non si trattava di un ramo d’azienda che poteva essere “staccato” in maniera autonoma. I lavoratori – conclude l’avvocato – rischiano di pagare un conto salato e di subire vessazioni giornaliere perché gli verrà richiesto uno sforzo produttivo non indifferente». Eppure, ironia della sorte, nei suoi spot Fastweb si dichiara “sempre un passo avanti”.

Twitter: @GiorgioVelardi

La casta colpisce ancora* – da “Il Punto” del 12/10/2012

mercoledì, ottobre 17th, 2012

Si è conclusa l’indagine della Direzione provinciale del Lavoro di Roma sui collaboratori parlamentari. 58 le irregolarità riscontrate alla Camera su un totale di 272 accrediti, 21 su 160 quelle al Senato. Resta il “buco nero” di 513 Onorevoli che sembrano non avere assistenti ma percepiscono l’indennità mensile. Il racconto di una testimone: «Pagata in nero per 10 anni». Le leggi violate nel luogo in cui vengono approvate 

«Il mio impegno alla Camera è iniziato nel 1998, quattordici anni fa. Dieci dei quali passati in nero. All’inizio ero in decreto Camera e, all’Onorevole per cui lavoravo, dovevo ridare indietro più della metà dei soldi in “mazzetta”. Poi è cominciato un lungo percorso al fianco di altre figure, sempre senza contratto. Finché nel 2009, dopo aver finalmente sottoscritto un regolare accordo, ho cominciato a stare male. Visto che non abbiamo mai avuto alcuna forma di tutela sono prima stata costretta ad andare a lavorare benché in mancanza di forze e poi, una volta ricoverata d’urgenza all’ospedale, mi sono vista recapitare una lettera di licenziamento senza preavviso dalla poco Onorevole persona a cui prestavo assistenza. Adesso ho un contratto e guadagno poco più di 700 euro al mese». Quello che avete appena letto è un passaggio della sconcertante testimonianza che Cristina, collaboratrice parlamentare, ha rilasciato in esclusiva a Il Punto. Le sue parole arrivano in concomitanza con la conclusione dell’ispezione che la Direzione provinciale del Lavoro di Roma guidata da Marco Esposito – su delega della Procura della Repubblica – ha portato avanti nel corso degli ultimi 24 mesi per fare luce sulla condizione dei cosiddetti “portaborse”.

I NUMERI DELL’INDAGINE - Un caso che questo giornale aveva seguito attentamente già nel 2010, proprio quando partì l’indagine dell’ispettorato del Lavoro. Anche allora le voci degli interessati raccontarono di contratti assenti, di ore di lavoro non pagate o retribuite in nero, di soprusi e accordi cambiati in corsa. Ora ci sono le cifre. Partiamo dalla Camera dei deputati, dove sui 272 collaboratori accreditati per l’accesso ai Palazzi – così come segnalato dal Segretariato generale – sono state riscontrate 58 irregolarità che riguardano la materia lavoristica, previdenziale e assicurativa, per un importo totale di sanzioni pari a 5.800 euro. «Si tratta di illeciti amministrativi, non abbiamo riscontrato elementi di rilevanza penale», sottolinea a Il Punto il direttore Marco Esposito. Nella lista ci sono 36 omesse o ritardate comunicazioni di assunzione o cessazione di rapporti di lavoro ai competenti Centri per l’impiego; 12 omesse istituzioni del Libro unico del lavoro (Lul, ossia un libro che sostituisce i libri paga e matricola e che è stato istituito con gli articoli 39 e 40 del decreto legge n. 112/2008); 4 omesse o infedeli registrazioni sul Lul; una omessa vidimazione dell’ex libro paga; un omesso versamento dei contributi; una riqualificazione del rapporto di lavoro e il relativo recupero contributivo e una omessa denuncia all’Inail (l’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni) delle autoliquidazioni. Poi c’è il Senato. Per cui, afferma Esposito, «la metodologia di lavoro è stata diversa, perché ci sono stati forniti i nomi dei senatori che avevano chiesto l’accredito, e non dei collaboratori. Il sistema informatico di comunicazione obbligatoria a cui abbiamo accesso telematicamente ci ha permesso di fare il percorso inverso».A Palazzo Madama, sui 160 senatori che avevano chiesto l’accredito, le irregolarità rilevate sono state 21. Ovvero: 4 omesse istituzioni del Lul; una tardiva istituzione dello stesso Libro unico del lavoro; 10 omesse comunicazioni di assunzione e/o cessazione dei rapporti di lavoro ai competenti centri per l’impiego e (perfino) 6 sanzioni per l’impedimento all’ispezione. In questo caso l’importo finale è di 18.980 euro, per un totale – Camera più Senato – di 24.780 euro.

IL “BUCO NERO” - Resta però un “buco nero”. Ovvero quello degli altri 358 deputati e 155 senatori che si presume siano sprovvisti di “portaborse” non avendo mai richiesto l’accredito per i loro collaboratori. È davvero così? Un interrogativo ancora aperto, come ribadisce Piero Cascioli, funzionario dell’Ispettorato del Lavoro, che afferma: «Abbiamo notiziato Camera e Senato sull’argomento, ma sono già a conoscenza di ciò. Anche perché l’indennità preposta anche al pagamento dei collaboratori viene comunque erogata ai parlamentari». «Chi di dovere sa cosa accade», racconta a questo proposito Cristina. «Io ho scritto alle più alte cariche dello Stato – presidente della Repubblica, della Camera, della Corte dei conti e anche al Cardinal Bagnasco – parlando, per esempio, dei tesserini che sono nella disponibilità di qualcuno e che contribuiscono ad alimentare il “mercato nero” dei collaboratori. C’è chi ne possiede 40, che ha sparso da tutte le parti, e che sono finiti nelle mani di persone che vengono pagate in nero perché senza contratto. Eppure la risposta che mi sono sentita dare quando ho interloquito con alcuni illustri esponenti delle istituzioni è stata: “Se lo ritiene opportuno, si rivolga alla magistratura” ». Poi il particolare choc: «Nella passata legislatura, per farmi tacere su quanto succedeva, mi fu detto che sarei stata “raccomandata” per vincere il concorso da funzionario alla Camera». Eppure Cristina, quando nel 2009 fu licenziata mentre era in ospedale, provò a denunciare l’accaduto. Però «mi hanno consigliato di desistere perché la persona che mi aveva messo alla porta era in stretto contatto con personalità importanti, e quindi “avrei preso solo schiaffi in faccia”». E la riforma di cui si parla in questi giorni?, le domandiamo. «È uno specchietto per le allodole ».

LA RIFORMA - Ma cosa prevede la riforma a cui il Parlamento ha deciso di mettere mano e che regola la situazione dei collaboratori parlamentari? L’obiettivo è disciplinare il rapporto di lavoro che li lega a deputati e senatori. Gli abusi, i compensi inadeguati, i contratti irregolari o la mancata contrattualizzazione sono riconducibili al fatto che attualmente deputati e senatori provvedono direttamente a pagare i propri collaboratori attingendo alla somma mensile che Camera e Senato versano loro a titolo di “Rimborso spese per l’esercizio del mandato”, pari rispettivamente a 3.690 e 2.090 euro. Una modalità che nel corso degli anni ha alimentato situazioni poco chiare e che si sta tentando di sanare con una proposta di legge bipartisan, approvata da Montecitorio nelle scorse settimane e passata ora all’esame di Palazzo Madama. Il modello di riferimento adottato è quello del Parlamento europeo, dove i collaboratori parlamentari vengono pagati direttamente dall’amministrazione di Bruxelles e non dai singoli deputati. Il provvedimento stabilisce, quindi, il diritto dei parlamentari ad avere l’assistenza di collaboratori per l’attività connessa all’esercizio delle funzioni inerenti il proprio mandato. L’unico limite, e questa è una novità, sta nel fatto che non possono essere assunti parenti, coniugi o affini entro il secondo grado. Spetterà alla Camera di appartenenza del parlamentare pagare la retribuzione al collaboratore, versare i relativi oneri fiscali e previdenziali e vigilare affinché le attività indicate nel contratto di lavoro siano connesse all’esercizio delle funzioni parlamentari e il contratto stipulato sia coerente con l’attività svolta. In questo modo si punta ad evitare casi di sfruttamento, di pagamenti inadeguati, di collaboratori parlamentari non contrattualizzati. Di fronte al primo via libera al provvedimento, però, i diretti interessati si dividono tra entusiasti e scettici. Le due associazioni che riuniscono i collaboratori, infatti, hanno due visioni diverse della situazione. Se il Coordinamento dei collaboratori parlamentari (Cocoparl), guidato da Emiliano Boschetto, ritiene che con questa legge le cose possano davvero migliorare per la categoria grazie all’introduzione del vincolo di destinazione delle risorse e del pagamento diretto da parte del Parlamento, l’Associazione nazionale collaboratori parlamentari (Ancoparl), presieduta da Francesco Comellini, piuttosto che una legge auspica una modifica dei regolamenti interni di Camera e Senato, che consentirebbe di chiudere la partita in tempi più rapidi. In effetti l’incognita sono proprio i tempi. Dopo l’approvazione di Palazzo Madama, gli Uffici di Presidenza di Camera e Senato dovranno adottare delle delibere volte a modificare i loro regolamenti. Lo faranno in tempo perché la nuova disciplina entri in vigore dalla prossima legislatura? Calcolando che l’iter alla Camera è durato due settimane in commissione e due settimane in aula, i tempi per arrivare all’approvazione definitiva ci sono. È solo una questione di volontà.

*con Lea Vendramel

I soldi o lo sfratto

martedì, settembre 4th, 2012

L’Ente di previdenza per gli impiegati in agricoltura sta avviando procedure di sfratto per i condomini che abitano in stabili di sua proprietà. Motivo: l’opposizione al rinnovo dei contratti di locazione, lievitati del 90% rispetto al precedente accordo. E c’è un “giallo” sui suoi bilanci 

«Vuoi sapere cosa ci hanno detto i loro avvocati nell’ultimo incontro di “mediazione”? Che l’unica concessione che ci possono fare è una rateizzazione in 36 mesi degli arretrati – pure quelli – che dobbiamo pagare. C’è chi deve dargli 10mila euro, e chi 40mila. Ti sembra normale, in un periodo come questo?». A porci queste domande è Giovanna Arcangeli, presidente del Comitato Spontaneo degli inquilini di via Primo Carnera 21, a Roma. Stabile di proprietà dell’Enpaia, l’Ente nazionale di previdenza per gli addetti e per gli impiegati in agricoltura. Una delle tante casse presenti nel nostro Paese, che si trovano a gestire un patrimonio immobiliare di non poco conto: circa 120mila unità, di cui 90mila ad uso abitativo (il 60 per cento è situato nella Capitale). Ma quello dell’Enpaia è un caso a parte, visto che ora molti inquilini degli stabili in suo possesso (tredici) rischiano lo sfratto. Il motivo: l’opposizione al rinnovo del canone di locazione, scaduto a fine 2009, e lievitato dell’80-90 per cento rispetto al precedente accordo (malgrado si tratti di Edilizia economica e popolare). Un aggravio di costi impossibile da sostenere, viste le condizioni in cui versa buona parte dei condomini dei palazzi in questione.

GLI STABILI - Nata nel lontano 1936 come CNAIAF (Cassa nazionale di assistenza per gli impiegati agricoli e forestali), l’Enpaia assume tale denominazione del 1962. Come altri enti previdenziali pubblici, essa fu investita di una funzione sociale ben precisa: quella di risolvere il “problema casa” attraverso la destinazione di una quota significativa dei Fondi per l’acquisto di beni immobili, secondo piani di investimenti sottoposti all’esame e all’approvazione dei Ministeri vigilanti. Immobili che dovevano essere ad uso residenziale ed in favore della classi sociali disagiate. Quello di via Primo Carnera, di cui ci siamo interessati, ha alle spalle una storia su cui si potrebbe redigere un libro. La perizia dell’architetto Francesco Pellegrini ne ha ricostruito le vicende, partendo da un presupposto: lo stabile venne edificato su un’area destinata all’Edilizia economica e popolare (legge n. 167 del 18 aprile 1962) dalla Cooperativa Roma 70 (di stampo democristiano), che aveva a sua volta acquistato l’area stessa dalla Comprensorio Piano di Zona 39 Spa. Il 9 giugno 1984 il Comune di Roma rilascia la Concessione per l’esecuzione dei lavori di un «complesso edilizio». La Soprintendenza della Capitale, il 12 aprile dello stesso anno, aveva però chiesto che fossero apportate delle modifiche al progetto, «al fine di garantire una più idonea tutela della zona archeologica monumentale compresa nel comparto in oggetto». La Cooperativa – fatto singolare – presenta però una «Copia del visto della Soprintendenza» solo quattro giorni dopo (16 aprile). Dunque la Concessione non godeva del nulla osta necessario. Andiamo avanti. Lo stabile in questione viene poi venduto a Nulvi Srl – e non a Parsitalia Spa, una delle potenze immobiliaristiche della Capitale, che si dice disposta a cedere il proprio contratto preliminare di acquisto –, che a sua volta destina tutto ad Enpaia in meno di un anno. Quest’ultima, malgrado nell’articolo 1 del suo Statuto asserisce di essere una Fondazione «senza scopo di lucro», non rende noto il regime di 167 e affitta gli appartamenti a prezzo di mercato. Prima di arrivare due anni fa, come abbiamo visto, ad un aumento del canone di locazione dell’80-90 per cento e a chiedere anche gli arretrati ai suoi inquilini. Nel corso degli anni Enpaia è diventata prima Fondazione privata (legge n. 509 del 30 giugno 1994), ma non ha dismesso entro cinque anni il proprio patrimonio immobiliare come previsto dalla norma – «Non ci sono sanzioni stabilite dalla legge nel caso di mancata dismissione del patrimonio», ci dice l’avvocato Giuseppe Dante, legale degli inquilini –, e poi ente pubblico, secondo quanto deciso dal governo Monti con una legge approvata ad aprile. I contratti di locazione degli stabili sono stati rinnovati tramite un accordo fra i sindacati e l’Enpaia che, a detta degli inquilini, è stato approvato senza il loro consenso. Anche perché difficilmente, di fronte a simili condizioni, qualcuno avrebbe detto «Sì». Segue una domanda: come hanno fatto le parti sociali – Sunia, Uniat, Sicet, Federcasa, Confedilia e Unione Inquilini (che ha successivamente ritirato la firma) –  a sottoscrivere un accordo di questo genere? Semplice: nel Cda di Enpaia, nominato per il quadriennio 2009/2013, ci sono alcuni segretari nazionali di sigle sindacali. Diverse da quelle citate poc’anzi, certo, ma si tratta comunque di un fatto singolare, visto l’accaduto. Oggi nella cabina di comando di Enpaia ci sono Carlo Siciliani e Gabriele Mori, rispettivamente Presidente e Direttore generale dell’Ente. Siciliani, componente della giunta esecutiva di Confagricoltura, è stato anche presidente del Patronato Enapa (Ente Nazionale Assistenza Patrocinio Agricoltori). Mori, invece, ha un passato nella Dc e nell’Inps, ed è stato commissario straordinario dell’Enpals. Non solo: ha ricoperto anche la carica direttore generale di Agrifondo, di Consigliere Comunale e di Assessore al Comune di Roma. Attualmente è pure sindaco di Grottaferrata, comune alle porte di Roma.

IL “GIALLO” DEI BILANCI - Domanda: in che modo l’Enpaia giustifica l’aumento del canone di locazione agli inquilini dei suoi stabili? Risposta: «La garanzia dei diritti dei lavoratori iscritti è conseguita con la redditività degli investimenti mobiliari ed immobiliari». Ciò farebbe pensare che le casse dell’Ente siano in rosso. E invece, stando a quanto si legge nei bilanci che la Fondazione ha pubblicato sul proprio sito Internet (e di cui si parla anche su Previdenza Agricola, il magazine dell’Enpaia) non è così. Nel consuntivo 2011, infatti, è scritto che «nonostante il problematico contesto generale, la Fondazione ha chiuso in utile l’esercizio e presenta una situazione finanziaria tranquilla e con risorse accumulate tali da garantire appieno i diritti previdenziali degli iscritti (…). L’anno si è quindi chiuso, dopo le imposte e gli accantonamenti ai Fondi di riserva, con un utile netto di 1,2 milioni di euro». Questo, invece, quanto dichiarato nel previsionale dell’anno in corso: «I dati del bilancio per il 2012 mettono in evidenza un utile di euro 97.648 dopo aver previsto accantonamenti ai diversi fondi esistenti per complessivamente euro 153.090.944». Ma intorno al nodo dei bilanci c’è un vero e proprio “giallo”. Per spiegarne il motivo va necessariamente fatto un preambolo. Prima del suo fallimento, gli enti previdenziali hanno investito 124 milioni di euro in azioni Lehman Brothers, la banca d’affari finita in bancarotta nel settembre 2008. L’Enpaia, come riporta “L’indagine conoscitiva sulla situazione economico-finanziaria delle casse privatizzate anche in relazione alla crisi dei mercati internazionali” (novembre 2008), è «la Cassa con l’esposizione diretta più significativa in termini assoluti verso Lehman Brothers». Gli investimenti, si legge nel documento, sono «per 45 milioni di euro. La perdita è stata di 36 milioni di euro (70 per cento del valore del titolo) che l’Ente ha portato nel bilancio del 2008 e ripianato con i fondi di riserva». In questo contesto è interessante leggere due audizioni dinanzi la “Commissione parlamentare di controllo sull’attività degli enti gestori di forma obbligatorie di previdenza e assistenza sociale”, a cui hanno partecipato Siciliani e Mori. In quella del 14 aprile 2010, a specifica domanda del presidente di Commissione Giorgio Jannone (Pdl) – «In quale occasione erano stati acquistati questi titoli?» – Mori risponde: «Voglio ricordare che i titoli della Lehman Brothers avevano il rating A3, più dello Stato Italiano. Pertanto – prosegue il direttore generale dell’Enpaia – mi ha sempre fortemente sorpreso il polverone sollevato rispetto ai titoli Lehman Brothers». Il termine «polverone» fa infuriare Elio Lannutti, senatore dell’Idv, che tuona contro Mori: «Non si permetta di dire che si è trattato di un polverone». L’esponente del partito di Di Pietro e Jannone sottolineano poi che malgrado quanto affermato da Mori, secondo cui l’Enpaia ha «fatto fronte alla perdita con i fondi di riserva, quindi il bilancio dell’ente non ne ha assolutamente risentito», le perdite ci sono state «anche se sono state ammortizzate con qualche voce di bilancio». Siciliani, che prende le difese del collega, dice che «la lingua italiana è bizzarra…» (in riferimento alla parola «polverone»), aggiungendo che è «presidente da poco», ma che ha «seguito molte trasmissioni televisive sulla vicenda» (sic!). Nell’altra audizione, datata 21 marzo 2012, si parla proprio della questione del rinnovo dei contratti di locazione. «L’unico nostro grande intervento – dice Mori – è stato quello di sottoscrivere con i sindacati degli inquilini il rinnovo dei contratti agevolati; tali contratti hanno raggiunto un livello di costo inferiore del 30 per cento rispetto al mercato (…). Proprio perché abbiamo la finalità di garantire i diritti dei lavoratori iscritti all’ente, dobbiamo anche avviare delle procedure – se volete forzose – per coloro che non intendono sottoscrivere i contratti». Dunque: Mori dichiara che i contratti sono agevolati, ma dovrebbe spiegare per quale motivo ci sono degli inquilini (lo leggerete più avanti) che arrivano a pagare 1.200 euro di affitto in regime di P.E.E.P. (Piano per l’Edilizia Economico Popolare); e aggiunge che tali accordi «prevedono interventi particolari di canone per i casi sociali che vengono dimostrati». «Cosa che non è assolutamente vera», affermano in coro gli inquilini. Infine: nella stessa sede, Jannone e Lannutti tornano a chiedere ai due dirigenti dell’Enpaia una relazione che illustri la situazione finanziaria dell’Ente, che faccia luce anche sulla retribuzione dei suoi organi collegiali. Relazione che, stando a quanto affermato dai due Onorevoli – che Il Punto ha contattato – non è ancora arrivata sul tavolo della Commissione.

«NOI COMBATTIAMO» - Abbiamo incontrato alcuni condomini dello stabile di via Primo Carnera 21 lo scorso 14 giugno, presso la sede dell’undicesimo Municipio di Roma. Le loro testimonianze, che potete vedere ed ascoltare collegandovi al sito del settimanale Il Punto (www.ilpuntontc.com), pongono l’accento su alcuni aspetti controversi della vicenda. Il signor Daniele, invalido al cento per cento e con moglie e figli a carico, ci ha raccontato che «nello stabile ci sono molti problemi con l’acqua. Da quanto è stato aperto l’Ospedale Santa Lucia, a noi ne arriva di meno. I più “colpiti” sono gli inquilini del settimo e dell’ottavo piano. Spesso non possiamo utilizzare la lavatrice per lavare i panni, o abbiamo problemi se vogliamo fare una doccia». Massimo, invece, è un genitore separato. Non ha perso la forza di combattere «per la mia ex moglie e per i miei due figli. Uno dei quali è invalido al cento per cento, è un bambino autistico. Economicamente la situazione è molto difficile – ci racconta –. Io lavoro in un’azienda che è sistematicamente sull’orlo della cassa integrazione, mentre la mia ex moglie è un’impiegata pubblica. Mio figlio necessita di un’assistenza più che continua, e le spese non sono totalmente coperte dalle istituzioni. Se oggi non sei un libero professionista, difficilmente riesci a gestire una situazione simile. A quanto ammonta il canone di locazione? Circa 1.200 euro al mese». «Io vivo qui dal dicembre del 1987», ci dice la signora Linda, dipendente del Comune di Roma. «Sono separata e ho avuto seri problemi di salute: sono anch’io invalida. Quella che mi trovo a percorrere è una strada in salita. Oggi come oggi non posso permettermi di pagare 800 euro al mese di affitto, a meno che – dice provocatoriamente – la soluzione non sia quella di andare a mangiare alla Caritas. Quando ciò accadrà andrò all’Enpaia: voglio sentire quale sarà la risposta dei dirigenti. Mi auguro che chi di dovere si metta una mano sulla coscienza. Nella speranza che ce l’abbiano». Il 19 giugno, il Sindaco di Roma Gianni Alemanno ha scritto al prefetto Giuseppe Pecoraro e al questore Fulvio Della Rocca a proposito degli sfratti in corso nelle abitazioni di proprietà degli enti previdenziali, fra cui l’Enpaia. Parlando di un «aggravamento dell’emergenza abitativa per tutti i soggetti a basso reddito, che si trovano nella condizione di non poter gestire il rinnovo dei contratti del canone di locazione», Alemanno ha proposto l’apertura di un tavolo per trovare una soluzione. Ma forse ora potrebbe essere troppo tardi.

Twitter: @GiorgioVelardi     

Inchiostro rosso sangue – da “Il Punto” dell’11/05/2012

mercoledì, maggio 16th, 2012

Sono 85 i cronisti uccisi in Messico dal 2000 ad oggi. Più di 45 solo negli ultimi sei anni, da quando al potere c’è Felipe Calderón. I narcos e la criminalità organizzata sono le cause principali degli omicidi. Ma spesso dietro questi casi c’è il benestare di politici collusi con la malavita  

L’hanno trovata morta nella sua abitazione a Xalapa, nello stato orientale di Veracruz, 300 chilometri dalla capitale Città del Messico. Il suo corpo è stato rinvenuto in bagno, con chiari segni di percosse e di strangolamento. Regina Martinez era una giornalista. Una cronista coraggiosa. Che non si è arresa – malgrado la spietata “caccia ai reporter” che si è scatenata in Messico negli ultimi due lustri – e che ha perso la vita in «circostanze ancora da chiarire». Il movente appare però nitido. Gli ultimi articoli che Regina (corrispondente della rivista Proceso, settimanale indipendente fondato nel 1976) aveva scritto riguardavano due esponenti politici del Partido Revolucionario Institucional candidati alla Camera dei deputati, e i rapporti fra la polizia e i narcotrafficanti. Una vicenda che si intreccia con quella di 84 suoi colleghi, uccisi dal 2000 ad oggi. Più di 45 solo dal 2006, anno in cui il cristiano-conservatore Felipe Calderón ha preso il potere. Vite spezzate dalla criminalità organizzata e da una politica con essa collusa, tanto che secondo un rapporto della Press Emblem Campaign il Messico è (insieme al Pakistan) il Paese in cui è più difficile operare la professione.

OLTRE IL SILENZIO – Yolanda Ordaz de la Cruz, Miguel Ángel Lòpez Velasco, Noel Lòpez Olguìn, Raùl Régulo Garza Quirino. Potremmo continuare, la lista è – purtroppo – lunga. Tutti i nomi che avete appena letto sono di giornalisti uccisi negli ultimi anni. Yolanda Ordaz era una cronista del quotidiano Notiver, trovata senza vita a Veracruz (stesso stato in cui viveva Regina Martinez). Uccisa nel luglio 2011 mentre stava indagando sull’assassinio del vicedirettore della sua testata, di sua moglie e di suo figlio. Anche Miguel Ángel Lòpez Velasco è stato assassinato insieme alla sua famiglia. Aveva 55 anni e anche lui scriveva per Notiver. Era redattore per La Verdad de Jàltipan Noel Lòpez Olguìn, ammazzato dopo una prigionia durata oltre due mesi. Raùl Régulo Garza Quirino, collaboratore del settimanale La Ùltima Palabra, è stato invece freddato a gennaio da un gruppo di uomini armati mentre era a bordo della sua auto. Ma a fare clamore sono stati anche i casi di Hugo Cesar Muruato (giornalista radiofonico di Chihuahua, dov’è concentrato il 30 per cento dei 41mila omicidi dovuti alla guerra fra Stato e narcos degli ultimi anni); di Marìa Elizabeth Macìas, caporedattrice di Colonia Madero, decapitata; di Marcela Yarce e Rocio Gonzalez Trapaga, amiche e colleghe, i cui corpi sono stati sono stati ritrovati nel parco Iztapalapa, in un quartiere di Città del Messico. Era settembre 2011. Malgrado l’esistenza di una procura speciale per indagare sui crimini della libertà di espressione (la Fiscalía Especial), nessuno di questi casi è mai stato risolto. Il 6 marzo scorso il Senato messicano ha approvato un emendamento costituzionale che considera l’omicidio di un giornalista un crimine contro la libertà di espressione. Un provvedimento necessario, arrivato però con grave ritardo.

LADY CORAGGIO – C’è però chi non si arrende, e continua a combattere oltre ogni intimidazione, minaccia e sopruso. La storia di Lydia Cacho è l’emblema di chi il bavaglio non vuole metterlo. Di chi non intende autocensurarsi. Di chi, a rischio della propria vita, racconta lo sporco nascosto nelle pieghe della società. Lydia è giornalista, scrittrice ed attivista per i diritti delle donne e dei bambini. Nel 2003 scrive alcuni articoli per il quotidiano Por Esto!, in cui denuncia i presunti abusi sessuali nei confronti di minori nella città di Cancún. Due anni dopo esce il suo primo libro, Los Demonios del Éden (“I demoni dell’Eden”), in cui svela un ecosistema di prostituzione e pedopornografia che ha il benestare di politici e uomini d’affari, e in cui viene accusato in maniera esplicita il famoso proprietario di alberghi Jean Succar Kuri. Sono coinvolti – secondo quanto racconta lei nel volume – anche altri personaggi di spicco della società messicana. Uno di questi, Kamel Nacif Borge, la cita per diffamazione. Lydia viene arrestata illegalmente, malmenata, minacciata a poi rilasciata su cauzione. Una sospensione della libertà voluta, come riveleranno le intercettazioni telefoniche rese pubbliche pochi mesi più tardi, dal Governatore dello stato di Puebla Mario Marìn Torres e dallo stesso Borge. Nel 2007 la Corte Suprema del Messico ammette che la decisione di arrestare Lydia Cacho era priva di fondamento, e la Commissione nazionale Onu per i diritti umani la invita a lasciare il Paese per salvaguardare la propria incolumità. Lei non abbandona il Messico, anzi. Nel 2010 esce in tutte le librerie la sua opera seconda, Las esclavas del poder (“Le schiave del potere”), un’inchiesta sulla tratta di giovani donne. Le minacce non finiscono, ma lei assicura che malgrado qualcuno «voglia mettere a tacere il mio lavoro, questo non succederà».

«SISTEMA CORROTTO» – «La violenza contro i giornalisti in Messico è un problema ancestrale. La situazione è peggiorata quando è iniziato il confronto con il narcotraffico, che coinvolge persone che appartengono a governo, polizia ed esercito. Dal 2000, con l’avvento al potere del Pan (Partito d’Azione Nazionale, ndr), la condizione dei cronisti è migliorata perché si possono trattare temi che in precedenza erano tabù. L’altra faccia della medaglia è però il fatto che molti colleghi sono finiti nel mirino della criminalità e sono morti». Lo dice a Il Punto un giornalista messicano, di cui preferiamo non rivelare il nome. «Dal 2009 ad oggi – prosegue – hanno perso la vita 30 reporter, altri 4 sono spariti e ci sono stati 26 attacchi contro le sedi dei mezzi di informazione. Il grosso problema è che nessuno di questi casi è stato risolto. Ora è in corso la discussione di una legge che permette alle autorità di investigare sulla morte dei giornalisti, ma dopo anni di omicidi sembra essere una presa in giro». Il punto nevralgico della questione è un altro: «In Messico il sistema giudiziario è torbido, la corruzione esistente impedisce che le cose migliorino. In questo ambito – con alcune eccezioni – gli stipendi sono molto bassi. Con i loro soldi i narcos possono comprare qualsiasi cosa e qualsiasi persona. Per fortuna ci sono molti colleghi, oltre a Lydia Cacho, che malgrado tutto continuano a fare il loro lavoro con dedizione». Con Calderón la situazione non è migliorata: «Lui pensava di risolvere la situazione con l’esercito, invece si è scatenata una guerra. I narcos sono armati fino ai denti, sono già morte decine di migliaia di persone. Mi piacerebbe che si dicesse più spesso che le armi di cui dispongono i narcotrafficanti arrivano dagli Stati Uniti, con cui ci sono collegamenti importantissimi che gli permettono di attraversare la frontiera con la droga ed avere informazioni riservate». Il primo luglio ci sono le elezioni: «Se tornasse al potere il Pri (Partito Rivoluzionario Industriale, ndr) potrebbe essere raggiunto un accordo con i narcos per evitare che questi ultimi usino ancora la violenza. Con il Pan e con la sinistra una cosa simile non potrebbe accadere. Anche con un patto del genere non è detto che la situazione per la stampa migliori».

PROBLEMA GLOBALE – Quello di giornalisti uccisi e minacciati dalla criminalità e dal “potere” non è però un problema che indossa solo la bandiera tricolore del Messico. Secondo la già citata Press Emblem Campaign, nei primi tre mesi del 2012 sono 31 i cronisti che hanno perso la vita in altre aree del mondo. Una cifra che è raddoppiata rispetto allo stesso periodo del 2011. Solo in Siria – dove proseguono le rivolte contro il regime di Bashar al-Assad – sono caduti 9 reporter, 5 stranieri e 4 delle testate nazionali. Fra i primi anche l’americana Marie Colvin e il francese Rem Ochlick, morti alla fine di febbraio durante un bombardamento nella città di Homs. Il presidente della Ong con sede a Ginevra, Blaise Lampen, ha sottolineato come «il pesante tributo pagato in Siria colloca il Paese in prima linea tra i luoghi più pericolosi per i giornalisti». Ma sulla black list degli Stati a rischio ci sono anche Somalia (3 morti), India (2), Bolivia (2), Nigeria (2), Afghanistan, Filippine, Thailandia, Haiti, Honduras, Colombia e Brasile. Lo scorso anno sono morti 106 giornalisti. Solo un terzo a causa di incidenti. Numeri, storie e persone che volevano solo fare il mestiere più bello del mondo.

Twitter: @GiorgioVelardi

«Abbandonata dalle istituzioni, lotto per potermi operare» – da “Il Punto” del 4/05/2012

lunedì, maggio 14th, 2012

Quella di Augusta è una di quelle storie che non vorresti raccontare mai. Perché speri che malgrado la crisi, le polemiche e le boutade a cui siamo abituati, prevalga il buonsenso. Che sembra invece essere andato a farsi benedire. Augusta vive a Perugia, ha 30 anni. I suoi reni non funzionano regolarmente, fa dialisi tutti i giorni da quando ha 16 anni. E nel 2001 è stata sottoposta ad un trapianto, che non ha però avuto i risultati sperati. I problemi sono continuati, e la ragazza ha dovuto riprendere le cure. «Vorrei mettermi in lista d’attesa all’Ismett (Istituto Mediterraneo per i Trapianti e Terapie ad Alta Specializzazione, ndr) di Palermo. Ma non ho la possibilità di trasferirmi in Sicilia perché non ho i mezzi neanche per vivere. Prendo 280 euro di pensione di invalidità al mese. La stessa cosa vale per mia madre», dice lei contattata da Il Punto. Augusta prosegue raccontando che le istituzioni le hanno voltato le spalle, e che ha pensato ad un piccolo finanziamento per poter coronare il sogno di tornare a condurre una vita con la “v” maiuscola. Però «le finanziarie senza garanzie non ti danno un euro – prosegue lei –. Non c’è nessuno che mi abbia offerto la propria disponibilità, e sono arrivata al punto di pensare di rivolgermi a qualche strozzino». La giovane chiede un aiuto, auspica che qualcuno si faccia avanti e raccolga il suo appello. «Lo sai quanto ho io oggi nel portafoglio?», domanda. «Cinque euro». È vita? Chiunque sia disposto a fare una donazione ad Augusta può scrivere alla redazione de Il Punto (segreteriaredazione@ilpuntontc.com). Vi metteremo in contatto con lei. Sperando siate in tanti a scriverci.

La morte in un click – da “Il Punto” del 6/04/2012

lunedì, aprile 23rd, 2012

La vicenda di Teresa Sunna, la 28enne deceduta dopo aver ingerito nitrito di sodio scambiato per sorbitolo e acquistato online, riapre il dibattito sulle farmacie telematiche. Spesso dietro queste si nascondono organizzazioni criminali. Altre volte si tratta di vere e proprie truffe ai danni degli acquirenti. I Nas: «Mercato più redditizio della droga». LegitScript: «Su 40mila presenti, solo lo 0,6% sono sicure»

Chiedono «giustizia», i familiari di Teresa Sunna. Una studentessa modello, il cui sogno era quello di laurearsi in Economia e commercio. Un punto di riferimento per amici e parenti. Morta a soli 28 anni dopo aver ingerito nitrito di sodio, una sostanza altamente tossica utilizzata (in quantità minime) come conservante alimentare nei prodotti a base di carne. Scambiata, invece, per sorbitolo, uno zucchero che si estrae dalla frutta e che viene utilizzato per effettuare i test sulle intolleranze alimentari. Ma quella confezione l’ambulatorio privato di Barletta, dove Teresa si era recata per sottoporsi al Breath test al lattosio, non l’aveva acquistata in farmacia. Bensì su eBay, il più noto sito di compravendite online, che ne ha subito bloccato la distribuzione. Una pratica illegale, visto che nel nostro Paese l’acquisto di farmaci su Internet è vietato. Prodotto dalla sede italiana della multinazionale statunitense Cargill, il farmaco contraffatto è stato poi commercializzato dalla irlandese Mistral, che l’ha venduto anche in Francia, Belgio, Lettonia e Regno Unito. Altre due pazienti, la 62enne Addolorata Piazzolae la 32enne Anna Abbrescia, hanno rischiato di morire dopo la somministrazione della stessa sostanza, riuscendo fortunatamente a salvarsi. Teresa non ce l’ha fatta. Bastano infatti 2 grammi di nitrito di sodio per uccidere una persona che pesa 65 kg. Alle tre donne ne sono stati somministrati 5. Se il ministro della Salute Renato Balduzzi ha tenuto a tranquillizzare gli animi, dicendo che «in Italia, grazie ai controlli, abbiamo la percentuale di medicinali contraffatti più bassa d’Europa» (0,1 per cento contro una media europea dell’1 per cento, secondo l’Aifa), restano da comprendere a pieno i motivi per cui gli italiani comprano i farmaci in rete. Specialmente quelli per combattere i disturbi sessuali e per aumentare le prestazioni fisiche. Spesso dietro le finte farmacie telematiche si annidano vere e proprie organizzazioni criminali. Con conseguenze gravissime per la salute di tutti noi.

MERCATO IN CRESCITA – Secondo LegitScript, l’ente statunitense di verifica e controllo delle farmacie online, solo lo 0,6 per cento delle oltre 40mila farmacie censite sarebbe legale. Quelle potenzialmente legali sono il 2,7 per cento, mentre quelle completamente fuorilegge il 96,8 (38.947, in termini reali). Si tratta di un mercato in rapida crescita: “colpa“ di un vuoto normativo tangibile – la direttiva di riferimento, approvata nel febbraio 2011, dovrà essere recepita in tutti gli Stati membri entro 18 mesi dalla pubblicazione sulla Gazzetta europea –, ma anche delle organizzazioni criminali, dedite alla frode e al phishing. Dal 2005 ad oggi i Nas (il Nucleo anti-sofisticazione dei Carabinieri) hanno sequestrato oltre 3.664.000 tra fiale e compresse contraffatte, arrestando 337 persone e segnalandone all’autorità giudiziaria altre 5.500. «Per ogni euro investito da queste organizzazioni nel commercio di farmaci contraffatti si genera un guadagno di 2.500 volte. Con la droga questa proporzione è di 1 a 16. Quindi il mercato dei medicinali falsi è circa 150 volte più redditizio rispetto a quello delle sostanze stupefacenti», ha evidenziato mesi fa il comandante dei Nas Cosimo Piccinno. Ad andare per la maggiore sono i farmaci anti-impotenza e gli anabolizzanti, tanto che da maggio 2011 i risultati delle voci «buyviagra» e «buyanabolic» su Google sono cresciuti rispettivamente del 203 e del 101 per cento. Spesso si comprano anche sostanze come il Melanotan II, corrispettivo sintetico di un ormone che stimola la produzione di melanina e che sembra avere effetti afrodisiaci ed erettivi, o anticoagulanti come l’eparina «cinese», che nel 2008 provocò 149 morti negli ospedali degli Usa.

IL PARERE DELL’AIFA – «C’è una disomogeneità nella normativa sulle farmacie online a livello europeo. Non è un problema che riguarda solo l’Italia», dichiara a Il Punto Domenico Di Giorgio, dirigente dell’Unità di prevenzione contraffazione dell’Aifa, l’Agenzia italiana del farmaco. «La direttiva che ha armonizzato il mercato europeo era del 2001 – prosegue Di Giorgio –, a quel tempo il problema-Internet non era certo una questione prioritaria. Lo scorso anno è terminata la negoziazione di una direttiva, la 2011/62, alla quale il nostro Paese ha partecipato attivamente. Per la prima volta viene previsto un titolo specifico nella normativa che vincola tutti gli Stati membri a fare una regolamentazione delle farmacie su Internet. Ciò avviene attualmente in pochi Paesi, fra cui Inghilterra e Germania. Le farmacie online legali restano una minoranza, mentre la larga maggioranza sono illegali e difficilmente distinguibili da un utente inesperto». Quanti sono gli italiani che ricorrono a Internet per acquistare i farmaci? Di Giorgio risponde: «Dai nostri studi è emerso meno dell’1 per cento. Un dato significativo, anche se non allarmante come quello circolato sulla stampa mesi fa. Non è però un fatto di numeri, il caso di Barletta non può essere ridotto a una questione di statistiche. Ci sono stati, per errori di etichettatura di prodotti o frodi, due casi di uno sciroppo antitosse per bambini che cinque anni fa ha causato centinaiadi morti in Nigeria e a Panama». Quali sono i fattori che spingono le persone ad acquistare farmaci online? «Non sono solamente i costi molto bassi o il fatto che sia garantito l’anonimato. Questi sono quelli che stimolano la domanda. Il problema è che manca un filtro, c’è un’assenza di “percezione del rischio”, per questo motivo occorre puntare maggiormente sulla comunicazione», dice Di Giorgio. Come si distingue un farmaco “originale” da uno contraffatto? «Spesso anche noi esperti abbiamo bisogno di analisi di laboratorio per capire se il prodotto è buono o meno. Alcuni di quelli che recentemente abbiamo sequestrato insieme ai Nas avevano un aspetto esteriore estremamente professionale. Va specificata una cosa: coloro che acquistano farmaci su Internet vanno definiti “clienti”, più che “pazienti”. Si tratta di soggetti che vogliono steroidi ma non per scopo terapeutico, o che cercano di dimagrire senza passare per i consigli di un dietologo assumendo Sibutramina o altri prodotti “magici” con effetti collaterali pesantissimi, da fonti non controllate». Da tempo l’Aifa monitora il fenomeno in questione: «Sono almeno cinque anni. Abbiamo iniziato facendo i campionamenti con l’Organizzazione Mondiale della Sanità e i Nas, comprando i farmaci da siti sospetti per analizzare la qualità dei prodotti. L’evoluzione del fenomeno è stata molto rapida: al tempo la maggior parte dei siti facevano frodi informatiche, la farmaceutica era uno schermo. Altri studi, che abbiamo compiuto con delle software house italiane, hanno analizzato la penetrazione nei social network o all’interno di siti istituzionali per guadagnare punteggio nei motori di ricerca. In una fase successiva abbiamo poi attaccato direttamente questi siti». Ma da un dato momento in poi lo schermo è caduto: «Sì, perché le organizzazioni criminali si sono “travestite” da Robin Hood, dicendo di battersi contro la farmaceutica costosa. E il problema, lo ribadisco, è la mancanza di una sufficiente percezione del rischio. Solo il 20 per cento dei cittadini sa che comprare medicinali online è illegale».

GLI ANTICONCEZIONALI – Ma sul web, come documentato da Doctor’s Life (il canale Sky curato dall’Adnkronos Salute), si può acquistare anche la “pillola dei cinque giorni dopo”, che in Italia sarà commercializzata da aprile. Già in vendita in Gran Bretagna, Francia, Germania e Spagna, la pillola acquistata in Internet permette di aggirare il “paletto” – che esiste solo nel nostro Paese – della presentazione obbligatoria di un test che escluda la presenza di una gravidanza già in atto. Ma anche in questo caso i rischi non mancano. E i costi sono addirittura molto più elevati: 60 euro contro i 35 stabiliti dall’Aifa per le farmacie italiane. «Si tratta di un farmaco impossibile da assumere senza un controllo medico. In particolare per quelle che possono essere le eventuali conseguenze» dice a Il Punto il ginecologo Massimo Salvatori. «Non si tratta di un farmaco antifecondativo o anticoncezionale, ma anti progestativo, per impedire cioè l’impianto dell’uovo fecondato. Se una donna assume la “pillola dei cinque giorni dopo” senza aver prima effettuato un consulto, e avverte dei sintomi che non sa interpretare proprio a causa di ciò, corre dei pericoli». Per bocca del presidente Nicola Surico la Società italiana di ginecologia e ostetricia (Sigo) lancia l’allarme: «Le giovanissimecontinueranno a rivolgersi al web per bypassare la ricetta e il test di gravidanza. Noi abbiamo contestato subito la scelta di autorizzare la pillola con l’obbligo del test di gravidanza tramite analisi del sangue, ma la nostra critica non è stata recepita. E con l’uso di Internet non sapremo mai quante pazienti assumono il farmaco. L’Italia dovrebbe adeguarsi all’Europa».

Twitter: @GiorgioVelardi