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Conflitto d’interessi, il provvedimento arriva alla Camera tra le polemiche: “Testo fasullo, in aula voteremo no”

mercoledì, febbraio 24th, 2016

Lo annuncia Danilo Toninelli, deputato del Movimento 5 Stelle e componente della commissione Affari costituzionali di Montecitorio. Che boccia senza mezzi termini l’ultima versione della normativa. “Bozza iniziale ampiamente condivisibile, poi il partito di Renzi ha fatto un compromesso al ribasso con Forza Italia”. Fra i punti contestati anche la nomina dei due nuovi componenti dell’Antitrust: “Occasione per l’ennesima lottizzazione partitica”

Sisto-Sanna-675Potremmo già definirli come i 16 articoli della discordia. Tanti ne conta, infatti, il testo della legge sul conflitto d’interessi che questo pomeriggio arriverà in Aula alla Camera. Dopo numerosi rinvii. E, visto l’argomento, non senza le polemiche di rito che hanno accompagnato il lavoro preliminare in commissione Affari costituzionali a Montecitorio. La quale ha dato il ‘via libera’ al provvedimento lo scorso 18 febbraio con il parere contrario diForza Italia e Movimento 5 Stelle. I primi la consideranotroppo restrittiva; per i secondi, al contrario, è troppo permissiva. Tanto che sono già pronti circa 280 emendamentiper modificare il testo. Fra i punti maggiormente contestati dai grillini c’è quello che riguarda i soggetti interessati dal provvedimento (le nuove norme verranno applicate a chi ha incarichi di governo nazionale regionale). Ma anche quello relativo ai criteri di nomina dei componenti dell’Antitrust, l’autorità alla quale è affidata la vigilanza sui conflitti stessi, chesalgono da 3 a 5 e che saranno eletti dal Parlamento. Ecco perché “così com’è, noi questa legge non la votiamo – attacca il deputato del M5S Danilo Toninelli (nella foto) parlando conilfattoquotidiano.it –. La bozza iniziale, a firma di Francesco Sanna (Pd), era ampiamente condivisibile”. Invece “la versione uscita dalla commissione è la sorella maggiore di quella varata nel 2004 dal governo Berlusconi”. La contestata legge Frattini.

Onorevole Toninelli, non c’è proprio nessuna possibilità di ripensamento da parte del M5S?
Assolutamente no. Consideriamo questo testo fasullo e insufficiente. È un provvedimento che colpisce una cerchia ristrettissima di persone. Ne sono addirittura esentati i parlamentari e i consiglieri regionali. Una legge-miraggio che colpisce solo 230 persone rispetto alle migliaia di potenziali destinatari. È un provvedimento utile solo per accaparrarsi qualche voto in più alle Amministrative, ma che non risolve assolutamente nulla.

Eppure Forza Italia ha detto che grazie a questo provvedimento si è creato un asse fra voi e il Pd che porterà l’Italia ad una deriva “autoritaria, populista e demagogica”. Risposta?
La voce da cui provengono queste parole è quella di Francesco Paolo Sisto (che
 il 15 febbraio si è dimesso da relatore del ddlndr), avvocato di Silvio Berlusconi e Denis Verdini. Dire che c’è un asse fra il Pd e noi, che come Movimento 5 Stelle chiedevamo un conflitto di interessi serio e pesante, non è nient’altro che una barzelletta. La verità è che, in commissione, Forza Italia ha proposto la cancellazione riga per riga di tutta la legge. Non essendo riusciti nel loro intento ora non gli resta che screditarci.

All’inizio, però, il testo base di Sanna non aveva raccolto giudizi così tranchant da parte vostra. Che cosa vi ha fatto cambiare radicalmente idea?
La prima bozza del provvedimento era buona e ampiamente condivisibile: ridiscutendo la parte relativa alle sanzioni, il M5S l’avrebbe sicuramente votata. Infatti, il primo testo che ci è stato proposto riguardava anche interessi non economici e coinvolgeva tanti altri soggetti che poi in commissione sono spariti dal testo. Come per esempio gli alti burocrati, i sindaci e gli assessori. Poi il partito di Renzi ha fatto un compromesso al ribasso con Forza Italia, che ha annacquato il disegno di legge.

Insomma, non c’è proprio nulla che si salva?
Se dovessi mettere un voto a questa legge in una scala da zero a cento darei cinque. Dopo più di vent’anni di assenza di una norma simile è incredibile doversi accontentare di uno strapuntino. La già citata bozza iniziale riprendeva alcuni principi della legislazione internazionale, per esempio quella francese, nella quale vengono valutati anche i conflitti ‘potenziali’ e gli interessi non economici fra pubblico e privato. Dove sono finiti? Sono spariti dal testo. E non per colpa nostra.

In Aula presenterete degli emendamenti per modificare il testo?
In commissione abbiamo già provato a sistemare alcuni passaggi del testo. Per esempio aumentando di un anno l’impossibilità per un ex membro del governo di andare a lavorare in una società, pubblica o privata, il cui ambito di riferimento collima con quello per cui ricopriva la propria carica.

E adesso?
Chiederemo che il provvedimento venga modificato già a partire dall’articolo 1, per il quale il conflitto di interessi è relativo a “titolari di cariche politiche”. Lo reputiamo sbagliatissimo: preferiremmo infatti si parlasse di cariche “pubbliche”, coinvolgendo anche le pubbliche amministrazioni. Poi c’è il capitolo sanzioni: devono essere più puntuali e la platea dei destinatari va necessariamente allargata. Per non parlare del capitolo relativo all’Antitrust.

Cos’è che non va in questo caso?
La legge prevede che il numero dei suoi componenti, attualmente tre, di cui uno è il presidente, venga elevato a cinque. Il problema è che la nomina di questi due nuovi membri dell’authority diventerà l’occasione per operare l’ennesima lottizzazione partitica. Infatti è stato previsto un meccanismo per il quale il partito di maggioranza porterà a casa tre elementi su cinque, cioè più del 50%. Senza alcuna condivisione con le opposizioni, come avviene per i giudici della Consulta. Anche stavolta, manco a dirlo, fra la prima bozza e il testo che andrà in Aula c’è un abisso.

Questo atteggiamento di chiusura sul conflitto di interessi è stato forse uno dei motivi per cui Renzi ha optato per l’accordo con Ncd sull’altro fronte caldo, le unioni civili?
Chi ci conosce sa che il M5S non fa valutazioni di convenienza. Noi votiamo la legge sulle unioni civili ma senza violare le regole con canguri o altre pericolose forzature. Se Renzi chiederà al Parlamento il voto di fiducia al governo, che ovviamente non voteremo, significa che non si fida dei suoi e teme di andare sotto nelle votazioni di merito più delicate. Invece per una volta dovrebbe avere coraggio e non pensare solo alla poltrona, perché grazie al M5S, che ha detto sì al provvedimento, i numeri ci sono.

Twitter: @GiorgioVelardi

(Articolo scritto il 23 febbraio 2016 per ilfattoquotidiano.it)

Unioni civili, opposizioni all’attacco: “Potevamo votare gli emendamenti in due giorni ma il Pd ha avuto paura”

lunedì, febbraio 22nd, 2016

È quanto sostiene il capogruppo di Forza Italia a Palazzo Madama, Romani. Mentre per Airola (M5S) ne sarebbero serviti “quattro al massimo, compreso il weekend”. D’accordo anche il leghista Calderoli: “Senza ostruzionismi e contingentando i tempi si poteva fare in fretta”. Accuse che i dem rispediscono al mittente. Pini: “Senza il canguro serviranno 135 giorni”

Senato - ddl Unioni CiviliIl capogruppo di Forza Italia al Senato, Paolo Romani, lo dice sicuro: “Per votare tutti gli emendamenti rimasti al ddl Cirinnà, circa 750 sommando quelli delle opposizioni dopo il ritiro delle migliaia presentati della Lega Nord, ci avremmo impiegato due giorni al massimo. Anche perché nessuno di noi – ci tiene a precisare contattato da ilfattoquotidiano.it – si sarebbe messo a fare ostruzionismo”. Quindi “diciamoci le cose come stanno: il ‘canguro’ è figlio della paura tutta interna al Partito democratico sui numerosi voti segreti. Siccome sarebbero andati sotto hanno preferito rimandare la discussione alla prossima settimana”. Dopo lo slittamento al 24 febbraio del disegno di legge sulle unioni civili, a Palazzo Madama non si placano le polemiche fra opposti schieramenti. Ma non solo. Infatti, ieri ci ha pensato la ‘madre’ del testo, la senatrice Monica Cirinnà, a dare fuoco alle polveri puntando il dito addirittura contro alcuni esponenti del suo stesso partito. “Pago le ripicche di certi renziani che volevano un premietto”, le parole riportate dal Corriere della Sera in un’intervista che però la stessa Cirinnà ha poi smentito di aver rilasciato. Solo uno sfogo con alcuni attivisti Lgbt nel Transatlantico del Senato, a quanto pare. Ma tanto è bastato per lasciare i toni sopra il livello di guardia. E provocare le reazioni non proprio al miele di alcuni pezzi da novanta del Pd, fra cui il capogruppo dei senatori, Luigi Zanda (“no alle insinuazioni infondate”, ha scandito tranchant).

Se il Pd si ritrova ora con la patata bollente fra le mani, decidere, cioè, se stralciare o meno la stepchild adoption, la ferma convinzione delle opposizioni resta una e una sola: la mossa del renziano Andrea Marcucci, ovvero quella di presentare un emendamento ‘taglia emendamenti’, è stata dettata proprio dalla frattura tutta interna al partito del segretario-premier Matteo Renzi. E da nessun altro motivo. “Romani dice che sarebbero bastati due giorni per votare gli emendamenti? Io voglio tenermi un po’ più largo: dico quattro al massimo, weekend compreso – afferma il senatore Alberto Airola del Movimento 5 Stelle –. Insomma, era una partita che si sarebbe potuta concludere già questa settimana, ma il Pd ha avuto paura e ha preferito fare marcia indietro. Cosa che invece non è successa in precedenti occasioni, quando i numeri erano dalla loro”. In che senso? “Ricordo una giornata, mi pare stessimo discutendo in Aula del ddl Boschi, nella quale abbiamo votato ben 900 emendamenti”. Lo ripete, scandendo bene la cifra: “No-ve-cen-to emendamenti. E non potevamo votarne circa duecento in meno in quattro giorni? Dai, non scherziamo…”.

Più cauto sui tempi, invece, Roberto Calderoli (Lega Nord). “Mi sembra difficile fare previsioni: per votare un singolo emendamento – dice il vicepresidente del Senato – ci possono volere cinque minuti come cinque ore. Poi è normale: senza ostruzionismi e contingentando i tempi si può anche fare in fretta”. La cosa certa, aggiunge Calderoli, è che “per il Pd l’emendamento Marcucci si è rivelato un boomerang”. Così “ora, se questo verrà spacchettato e i centristi voteranno contro solo sul canguro legato all’articolo 3 (quello su diritti e doveri derivanti dall’unione civile tra persone dello stesso sesso, ndr) e all’articolo 5 (sulla stepchild adoption, ndr), verrà meno il necessario sostegno del M5S, di Sel, dei bersaniani e dei giovani turchi del Pd. L’unica soluzione logica – conclude – sarebbe quella di ritirarlo, ma alla fine lo faranno dichiarare inammissibile dal presidente Grasso, come da me richiesto ieri mattina. Hanno combinato proprio un bel casino…”. Dal Nazareno, però, le accuse vengono rispedite al mittente. Tanto che su Facebook Giuditta Pini (Pd) scrive: “Per votare tutti gli emendamenti ci vorrebbero 77.700 minuti”, cioè “54 giorni”. E “questo – aggiunge – se il Senato lavorasse 24 ore al giorno per quasi due mesi, senza dormire, senza mangiare, senza fare altro. Quindi una stima probabile potrebbe essere 135 giorni”. Il motivo? “Il ddl costituzionale era un ddl governativo che aveva un contingentamento dei tempi (non si poteva parlare più di tot minuti a gruppo)” mentre “il ddl Cirinnà non ha alcun contingentamento. L’emendamento Marcucci – conclude – serviva semplicemente ad evitare tutto questo”.

Ma andiamo avanti. “La legge deve passare”, dice ailfattoquotidiano.it la senatrice dem Rosa Maria Di Giorgi, apertamente contraria alla stepchild adoption così come un altro gruppo di colleghi di partito. “Poco importa – aggiunge – se ci vorrà una settimana in più o in meno. Però dev’essere chiara una cosa: sul ddl Cirinnà io e i miei compagni del Pd, che su alcuni punti del provvedimento la pensiamo diversamente dalla maggioranza, dobbiamo poter esercitare la libertà di coscienza che il nostro segretario ci ha lasciato”. Quindi “l’articolo 5, quello sulla stepchild, sarà votato come tutti gli altri: se avrà i numeri dalla sua parte e passerà ne prenderemo atto”. A prescindere da ciò “serve un confronto, ma da parte nostra non c’è nessuna intenzione né di dilatare i tempi né, tantomeno, di affossare la legge”, chiarisce la Di Giorgi. Quanto alle parole pronunciate dalla Cirinnà al Corriere, che la chiama direttamente in causa (“visto come s’è comportata con me?”), la senatrice afferma: “Monica mi ha inviato un sms ieri mattina alle 7.30 per scusarsi, dicendomi che si è trattato di uno sfogo durante un colloquio con alcuni attivisti Lgbt. Per me è un capitolo chiuso”. Almeno per ora.

Twitter: @GiorgioVelardi

(Articolo scritto il 19 febbraio 2016 per ilfattoquotidiano.it)

Senato, resa dei conti tra ex berlusconiani: i verdiniani chiedono lo scioglimento del gruppo di Fitto

domenica, febbraio 14th, 2016

Da compagni della rivoluzione liberale a fratelli coltelli. Barani (Ala) consegna una lettera formale a Pietro Grasso: “Non hanno più i numeri, i Conservatori e riformisti vadano nel Misto”. Dopo l’ultimo addio di Pagnoncelli, la componente dell’ex governatore della Puglia conta ora solo 9 membri. Uno in meno di quanti richiesti dal regolamento. La guerra innescata dal mancato invito del capogruppo della componente di Verdini ad una riunione di minoranza. Ma Bonfrisco (Cr) replica: “Non sono stata io a convocarla, vicenda figlia della frammentazione del centrodestra”  

fittoS’erano tanto amati. Tutti insieme, o quasi, appassionatamente, nella grande famiglia del berlusconismo. Ma il passato è d’obbligo. Perché oggi, tra i vecchi amici di un tempo, non corre più buon sangue. E dalla favola della rivoluzione liberale, la nuova sceneggiatura dello psicodramma del centrodestra racconta il dramma dei fratelli coltelli. Protagonista dell’ultimo sgarbo tra ex condomini del fu Popolo della libertà, il capogruppo di Ala, la componente che fa capo a Denis Verdini nata il 29 luglio 2015 dalla scissione con Forza Italia, Lucio Barani. Che martedì scorso ha consegnato, insieme al suo vice Riccardo Mazzoni, una lettera al presidente del Senato Pietro Grasso. Oggetto: richiesta di scioglimento, a norma di regolamento, del gruppo dei Conservatori e riformisti, riferimento parlamentare dell’ex governatore della Puglia Raffaele Fitto. Sceso sotto il numero legale di 10 componenti (il minimo richiesto per formare un gruppo a Palazzo Madama) dopo l’addio di Lionello Pagnoncelli che, il 29 gennaio scorso, seguendo le orme di Eva Longo e Ciro Falanga, ha fatto le valigie per traslocare proprio fra i banchi dei rivali verdiniani.

LETTERA AVVELENATA – “Grasso ha riconosciuto la fondatezza della mia richiesta e mi auguro che già nei prossimi giorni vengano presi provvedimenti – spiega Barani a ilfattoquotidiano.it –. Mi risulta che il presidente abbia già comunicato agli altri capigruppo il contenuto della mia lettera”. Una questione che, effettivamente, regolamento alla mano sembrerebbe fondata: in base all’articolo 14 comma 6, quando i componenti di un gruppo – che non rappresenta un partito presente con il medesimo contrassegno alle ultime elezioni per il Senato, come nel caso dei Conservatori e riformisti – si riducono a meno di 10, “il gruppo è dichiarato sciolto” e i parlamentari che ne facevano parte, qualora entro tre giorni non aderiscano ad altri gruppi, vengono iscritti al Misto. “Lo scopo della norma è evidente – prosegue Barani –. Innanzitutto evitare una ripartizione impropria delle risorse spettanti ai gruppi che, in caso di scioglimento, i Conservatori e riformisti dovranno in parte restituire”. Inoltre, aggiunge il capogruppo di Ala, “occorre ripristinare gli equilibri nelle commissioni permanenti che, in questo momento, tengono conto di una componente che non ha più i numeri sufficienti ad esistere”.

FRATELLI COLTELLI – Insomma, un bel guaio per la componente nata il 3 giugno 2015 dalla scissione capeggiata da Fitto in polemica con Silvio Berlusconi e il Patto del Nazareno. Ma cosa ha scatenato il duro affondo dei verdiniani? Tutto comincia da una riunione delle forze di minoranza, tenutasi a ridosso del rinnovo delle presidenze delle commissioni del Senato. E organizzata, secondo Barani, dalla capogruppo dei fittiani Anna Cinzia Bonfrisco. All’ordine del giorno, l’assegnazione dei ruoli spettanti alle opposizioni e gli emendamenti al ddl Cirinnà sulle unioni civili attualmente all’esame dell’Aula. Incontro al quale, però, il capogruppo di Ala non è stato invitato. Uno sgarbo che i verdiniani non hanno preso affatto bene. “Una vera e propria discriminazione, tipica dei metodi fascisti. E solo perché avevamo votato sì alla riforma costituzionale del governo”, lamenta il presidente dei senatori verdiniani. Che lancia l’ultima bordata: “A differenza loro, che si definiscono minoranza, noi ci consideriamo opposizione – conclude Barani –. La differenza? Non diciamo ‘no’ a prescindere ma valutiamo e votiamo, provvedimento per provvedimento, ciò che riteniamo utile al Paese”.

MI FACCIA IL PIACERE – Accuse che la Bonfrisco rispedisce al mittente. “Non posso rispondere di responsabilità non mie. La riunione delle opposizioni fu convocata dal capogruppo di Forza Italia, Paolo Romani, e non da me”, spiega a ilfattoquotidiano.it. “Non conosco il carteggio tra il presidente Grasso e il gruppo Ala – assicura la senatrice dei Conservatori e riformisti –. Per certo, il tema è stato posto nell’ultima conferenza dei capigruppo: quando il presidente si esprimerà sul da farsi prenderemo atto della sua decisione nel rispetto dell’istituzione che rappresenta”. Di sicuro “non andremo a caccia di parlamentari solo per evitare lo scioglimento: noi proponiamo un progetto politico, chi vuole sposarlo è il benvenuto”. E con Barani? “Fra me e lui non c’è alcuna questione personale – conclude –. Questa vicenda è solo l’ennesimo effetto della frammentazione del centrodestra”.

(Articolo scritto con Antonio Pitoni il 12 febbraio 2016 per ilfattoquotidiano.it)

Camera, ex direttore di Europa Menichini nuovo capo ufficio stampa: scelto dalla Boldrini, protestano M5S e Forza Italia

venerdì, febbraio 12th, 2016

Dei 22 componenti dell’ufficio di presidenza di Montecitorio hanno partecipato alla votazione solo in 13. Due astenuti. Consulente del ministero dei Trasporti, è stato sponsorizzato dalla presidente. Tra molte polemiche. Dei rappresentanti azzurri che non hanno partecipato alla votazione dell’ufficio di presidenza. E dei grillini che hanno contestato il metodo di selezione. Ecco il verbale dell’accesa seduta. Così come è stato raccontato a ilfattoquotidiano.it

stefano-menichini-675È stato scelto per “competenza, professionalità” e, soprattutto, parola di Laura Boldrini, perché ieri durante il colloquio ha spiegato che Montecitorio deve continuare ad essere “la casa della democrazia”. Proprio così. Stefano Menichini è il nuovo capo ufficio stampa della Camera. E proprio grazie alla sponsorizzazione della presidente. È stata lei che questo pomeriggio ha comunicato ai membri dell’Ufficio di presidenza la bontà della scelta. Una nomina quasi scontata, per la verità, visto che lo scorso 22 gennaio proprio ilfattoquotidiano.it aveva raccontato di come la corsa per l’ambita poltrona lasciata libera da Anna Masera (tornata a La Stampa) fosse ridotta ad un derby fra l’ex direttore di Europa, attuale consulente del ministero dei Trasporti, e l’ex direttrice de l’Espresso e D di Repubblica, Daniela Hamaui. La quale pare non abbia convinto gli illustri membri dell’ufficio di presidenza soprattutto su uno dei requisiti principali richiesti per conquistare la carica: la conoscenza del Parlamento e dei suoi meccanismi. Menichini ha così battuto la concorrenza dei 270 colleghi – tanti sono stati quelli che hanno inviato il curriculum per partecipare alla selezione – poi ridotti a 12 in vista della decisione finale. Ma cos’è accaduto durante la riunione odierna? Se è vero che la proposta della Boldrini è stata accolta a larga maggioranza, non sono mancate le critiche da parte di chi non ha per nulla condiviso il metodo con il quale si è giunti alla nomina. Ecco comunque il “verbale” dell’ufficio di presidenza così come è stato raccontato a ilfattoquotidiano.it.

CASA STREGATA – La seduta si è aperta con la presidente che ha ringraziato il comitato ristretto, costituito su sua indicazione all’interno dell’Ufficio di presidenza, spiegando che per l’occasione sono state audite persone di“elevata professionalità”. Una in particolare ha però raccolto i suoi favori: Stefano Menichini. Il quale, ha spiegato la Boldrini, era da scegliere per “competenza, professionalità” e perché, durante il colloquio, particolare che pare l’abbia letteralmente stregata (e vai a capire perché), ha dichiarato che Montecitorio deve continuare ad essere “la casa della democrazia”.

MI MANDA MATTEO – Subito dopo la ‘dichiarazione di voto’ della presidente è intervenuta Claudia Mannino (Movimento 5 Stelle), uno dei segretari dell’ufficio di presidenza, che ha anzitutto criticato il metodo con il quale è stato scelto il nuovo capo ufficio stampa. Non a caso, ieri, proprio lei aveva chiesto alla numero uno di Montecitorio di presentarsi all’ufficio di presidenza di oggi con una rosa di 3/4 nomi e condividere con i presenti la decisione finale. La Boldrini però aveva respinto l’invito ricordando che le regole della selezione erano già state decise in precedenti incontri. A quel punto fra le due si è aperto uno scontro. La Boldrini ha sostenuto che, oltre ai motivi esposti nel suo intervento, è stata anche colpita da ciò che ha detto Menichini alla fine del suo colloquio. E cioè che l’ex direttore di Europa ha spiegato di essere cosciente del fatto che l’aver diretto un giornale politicamente schierato (il quotidiano della Margherita e poi del Pd, ndr) poteva essere un ostacolo per una sua eventuale nomina. Ma che, nel caso in cui fosse stato scelto, avrebbe gestito la macchina parlamentare con la massima professionalità e terzietà. E qui, visti i sospetti di “lottizzazione politica” di matrice renziana sulla carica da assegnare che circolano da tempo anche tra i membri dell’ufficio di presidenza, la Mannino non si è trattenuta. Neanche con l’ironia: “Presidente, l’eccesso di onestà non mi pare fosse fra le motivazioni che l’hanno condotta alla scelta”. Battuta velenosa, nessuna replica della Boldrini.

FONTANA DI ACCUSE – A quel punto la parola è passata a Stefano Dambruoso. Il questore dell’ufficio di presidenza in quota Scelta civica ha spiegato che al posto di Menichini avrebbe preferito la nomina di un altro dei candidati. E cioè Maddalena Loy (ex Foglio, Rai e Unitàndr). Perciò ha chiesto alla presidente che quest’ultima venga presa in considerazione per entrare a far parte del gruppo di lavoro che curerà la comunicazione di Montecitorio. Insomma, un premio di consolazione. Ma le critiche alla Boldrini non si sono fermate. Dopo Dambruoso, contro di lei ha iniziato a cannoneggiare l’altro deputato questore, Gregorio Fontana (Forza Italia): “Tutta questa storia della selezione pubblica si poteva evitare – ha detto piccato – anche perché si sapeva da tempo che alla fine la scelta sarebbe ricaduta su Menichini”. La Boldrini non l’ha presa bene: “Che si sappia, ho deciso senza aver ricevuto alcuna pressione politica”.

MOLTO DI PERSONALE – La riunione volge al termine. Interviene Roberto Capelli (Democrazia Solidale): “Condivido la scelta di Menichini, era nella mia top three insieme a Maddalena Loy e Claudio Giua (ex direttore dello sviluppo e innovazione del Gruppo Espresso). Altra dichiarazione di voto, arriva da Ferdinando Adornato (Area popolare). “Conosco Stefano (Menichini, ndr) personalmente, può garantire professionalità e terzietà”, dice. Non c’è da stupirsi visto che proprio lui nei giorni scorsi, come riferito dall’agenzia di stampa Dire, aveva inserito l’ex direttore di Europa in una short list formata da 4 “giornalisti di chiara fama”. Fine degli interventi. La Boldrini mette ai voti la proposta. Menichini viene scelto a larga maggioranza: solo Mannino e Fontana si astengono. Triplice fischio: la seduta è tolta.

(Articolo scritto con Primo Di Nicola il 10 febbraio 2016 per ilfattoquotidiano.it)

Forza Italia, rinnovo delle tessere con lo sconto: quota dimezzata per chi si iscrive nuovamente al partito di Berlusconi

sabato, febbraio 6th, 2016

La novità contenuta in una lettera scritta dal responsabile organizzazione, Gregorio Fontana. Indirizzata a coordinatori regionali e provinciali. Ma anche a deputati e senatori. Che non avranno diritto alla riduzione e dovranno versare per interno i mille euro previsti da regolamento. Entro il prossimo 31 marzo. Pena la sospensione dalla partecipazione agli organi di vertice

Berlusconi-675In Forza Italia sono iniziati i saldi. Addirittura con sconti del 50% per i fedelissimi del partito di Silvio Berlusconi. Non è uno scherzo. Ma la campagna di fidelizzazione pensata per gli iscritti che anche quest’anno rinnoveranno la tessera. I quali, appunto, pagheranno metà della quota prevista invece per i nuovi aderenti. Il responsabile organizzazione dei forzisti, Gregorio Fontana, lo ha scritto nero su bianco in una lettera inviata il 3 febbraio scorso ai coordinatori regionali, provinciali e grandi città, più ai quadri elettivi a livello nazionale, provinciale e comunale. “Nel comitato di presidenza di Forza Italia della scorsa settimana – recita il documento di quattro pagine che ilfattoquotidiano.it ha potuto visionare – il presidente Silvio Berlusconi ha dato il via libera alla campagna adesioni 2016, confermando le attuali quote di adesione, con una riduzione pari al 50% per i rinnovi dei soci 2014/2015”. Mica male. Anche perché, con l’iscrizione, si avrà diritto a ricevere una tessera sulla quale, oltre al volto sorridente del Cavaliere, è riportata la seguente frase: “La difesa della libertà è la missione più alta e più nobile, la più entusiasmante che ci sia”.

ASTENERSI INADEMPIENTI – Ad oggi, stando ai dati forniti a ilfattoquotidiano.it dallo stesso Fontana, Forza Italia conta circa centoundici mila aderenti. Meno di un terzo dei circa 380 mila iscritti al Pd. Un abisso, se si considerano pure gli oltre 10 milioni di voti raccolti da FI alle politiche 2013. E se anche un pezzo da novanta come l’ex ministro della Difesa Antonio Martino ha spiegato, in una recente intervista a Libero, di non aver rinnovato la tessera (lui che custodiva gelosamente la numero due), vuol dire che le cose non vanno poi tanto bene. Ecco quindi la ‘geniale’ trovata. Dalla quale sono comunque esclusi i quadri e gli eletti, che dovranno aderire entro il prossimo 31 marzo. “Oltre tale termine, in caso di inadempimento, potrà essere applicata la sospensione dalla partecipazione agli organi di partito, fino all’avvenuto accertamento del pagamento della quota annuale”, dice la lettera. Tradotto: i dirigenti e i parlamentari che non rinnoveranno la loro iscrizione non potranno ricoprire o ambire a ruoli di vertice. Ma quanto dovranno pagare? Mille euro tondi tondi. Stessa cifra prevista anche per i consiglieri regionali.

BENEMERITA TESSERA – Meno salato, invece, l’esborso previsto per presidenti di giunta e di consiglio provinciale, assessori e consiglieri provinciali, sindaci, presidenti di consiglio comunale e assessori nei comuni con elezioni amministrative a doppio turno:300 euro. Mentre consiglieri comunali nei comuni con elezioni amministrative a doppio turno, sindaci e assessori a turno unico e consiglieri circoscrizionali se la caveranno con ‘appena’ 100 euro. Queste le quote per gli eletti secondo la tabella allegata a pagina due della missiva. Per gli aderenti, invece, i costi sono decisamente più contenuti. Soltanto 15 euro, che si dimezzano a 7,5 in caso di rinnovo, per il “volontario azzurro giovane” (dai 14 ai 28 anni). Venticinque euro, ridotti a 12,5 grazie allo sconto del 50%, per il “volontario azzurro senior” (oltre i 65 anni). Trenta euro (15 in caso di reiscrizione) per il “volontario azzurro” (adesione ordinaria). Poi c’è il “sostenitore azzurro”, che dovrà versare una quota “a partire da 100 euro”. Infine la categoria più prestigiosa, il “benemerito azzurro”, cioè i fedelissimi di Forza Italia. Che dovranno tirare fuori dal portafogli almeno 500 euro.

(Articolo scritto il 5 febbraio 2016 per ilfattoquotidiano.it)

Scandali bancari, 14 proposte per la commissione d’inchiesta: opposizioni scatenate contro quella del Pd

domenica, gennaio 31st, 2016

Il ddl presentato a Palazzo Madama dal Partito democratico non fa riferimento ai quattro istituti salvati a novembre dal governo. Tra cui l’Etruria, dove il padre del ministro Boschi è stato vice presidente. De Petris (Si) ironizza: “E’ come buttare la palla in tribuna”. Artini (Alternativa Libera): “Un ddl di facciata che nasconde imbarazzo”. Pini (Lega): “Renzi cerca di sviare le attenzioni sul caso”. Villarosa (M5S): “L’esecutivo sa che il salva-banche è a rischio incostituzionalità”. Ma il renziano Marcucci replica: “Non ci interessa la polemica di un giorno ma capire come stanno le cose”. Ilfattoquotidiano.it ha visionato tutte le proposte depositate. Ecco cosa prevedono  

etruria-675Una pioggia di disegni e proposte di legge. Quattordici in totale: cinque alla Camera e nove al Senato. Per istituire una commissione di inchiesta parlamentare volta a fare luce sull’operato dei vertici dei quattro istituti di credito (Banca EtruriaBanca MarcheCarife e CariChieti) oggetto del contestato decreto “Salva banche” varato dal governo di Matteo Renzi il 22 novembre 2015. Ma non solo. Perché sfogliando i testi c’è anche chi punta il dito contro l’operato di Banca d’Italia e Consob, chiedendo che venga verificata l’ipotesi di omesso controllo sugli amministratori degli enti coinvolti. Chi chiede che siano valutati eventuali conflitti d’interessi, in particolare all’interno dell’esecutivo. E chi, ancora, vuole estendere l’inchiesta al suicidio del pensionato di Civitavecchia, Luigino D’Angelo. Il tutto non senza alimentare polemiche durissime. Perché le opposizioni giudicano l’unica proposta del Pd, presentata a Palazzo Madama dal renziano Andrea Marcucci (che nel testo di legge non cita mai le quattro banche), come il tentativo di “buttare la palla in tribuna”, per dirla con le parole della capogruppo del Misto, Loredana De Petris (Sinistra Italiana). Cioè di sviare l’attenzione dal recente scandalo che ha coinvolto, tra le altre, anche Banca Etruria, l’istituto di credito del quale il padre della ministra Maria Elena Boschi è stato vice presidente e il fratello dipendente. Accuse respinte dallo stesso Marcucci: “Non si fanno commissioni di indagine per alimentare polemiche di un giorno ma per capire come vanno le cose in un settore così delicato”. Ilfattoquotidiano.it ha visionato tutte le proposte depositate. Ecco cosa prevedono.

POKER STELLATO – Il partito che con maggiore ostinazione chiede l’istituzione di una commissione d’inchiesta sulle popolari (e più in generale sul sistema bancario) è il Movimento 5 Stelle. Fra Montecitorio e Palazzo Madama, infatti, i grillini hanno presentato in totale quattro fra disegni e proposte di legge. L’ultima ieri alla Camera – depositata insieme ad una mozione che impegna il governo a rinviare l’applicazione del bail-in al 2018 – firmata da Alessio VillarosaDaniele Pesco e Ferdinando Alberti. Un testo stringente. Con il quale i tre deputati chiedono che vengano esaminate “le procedure seguite e gli atti assunti dal governo, dal ministero dell’Economia e delle Finanze, da Banca d’Italia e da Consob” al fine di verificare se “siano conformi alle disposizioni normative in vigore all’atto dell’avvio della procedura di risoluzione”. Ma anche che siano analizzate “le relazioni intercorse fra le Istituzioni dell’Unione europea e Banca d’Italia in merito alla individuazione della procedura da seguire per la risoluzione della crisi delle banche”, nonché “la correttezza e la tempestività delle informazioni comunicate agli azionisti, obbligazionisti e clienti, sia da parte delle banche che da parte degli organi di vigilanza e controllo”. Senza dimenticare gli “eventuali conflitti d’interesse tra membri del governo, delle banche, Banca d’Italia e altre banche coinvolte nell’operazione di risoluzione della crisi delle banche” stesse. Proposta che si accompagna a quella, depositata alla Camera il 30 settembre 2015 (circa due mesi prima rispetto al decreto del governo), prima firmataria Dalila Nesci, “sulle attività illecite delle banche e sull’esercizio dell’attività di vigilanza della Banca d’Italia”. Due, invece, i disegni di legge presentati dal M5S al Senato. Uno di cui è primo firmatario Gianni Girotto (che intende fare luce sul “settore dell’intermediazione creditizia e finanziaria”), l’altro presentato da Stefano Lucidi, riguardante anche Banco di Desio e della Brianza Spa e Banca popolare di Vicenza.

INTERESSI PARTICOLARI – Infatti, nelle proposte di legge depositate in entrambe le Camere, nel mirino non ci sono solo Banca Etruria, Banca Marche, Carife e CariChieti. Nella pdl di Alternativa libera-Possibile, a prima firma Massimo Artini, le competenze della commissione d’inchiesta vengono estese anche al dissesto del Monte dei Paschi di Siena. Al fine di accertarne “le cause e le responsabilità, giuridiche e politiche”. Ma anche per valutare atti e decisioni “assunte dagli organi di amministrazione e di direzione” dei cinque istituti di credito, verificando “eventuali conflitti di interessi” e “comportamenti illeciti” a carico degli amministratori, dei dirigenti e dei dipendenti delle stesse banche. Non solo. A Montecitorio ci sono infatti altre due proposte depositate. Quella di Forza Italia, primo firmatario il capogruppo Renato Brunetta (‘gemella’ di quella su cui ha apposto il proprio nome il presidente dei senatori di FI, Paolo Romani, a Palazzo Madama), e quella di Scelta Civica, presentata da Giovanni Monchiero insieme ad altri colleghi di partito. Due i punti principali della pdl dei deputati forzisti. Prima di tutto “valutare”, oltre a quella di Palazzo Koch e Consob, “la condotta del governo in relazione alle vicende che hanno interessato Banca Etruria, Banca Marche, Carife e CariChieti accertando l’eventuale sussistenza di interessi particolari e di conflitti di interessi a carico di membri del governo”. E poi “verificare se siano fondate le affermazioni espresse da Jonathan Hill, commissario dell’Unione europea per la stabilità finanziaria, secondo cui le banche italiane avrebbero venduto ai risparmiatori prodotti inadeguati e, in caso affermativo, le iniziative assunte dalle autorità di vigilanza”. Più genericamente, invece, la proposta di Monchiero si prefigge di “accertare le cause, le responsabilità e le conseguenze dei più recenti casi di dissesto del mercato bancario e finanziario” e le “eventuali responsabilità degli organi di amministrazione degli istituti nel dissesto degli stessi.

BANCHE CERCASI – L’unico testo messo a punto dal Partito democratico (Pd) è stato depositato al Senato a prima firma del renziano Andrea Marcucci. Il solo riferimento a Banca Etruria, Banca Marche, Carife e CariChieti è contenuto nella relazione introduttiva, che ne cita le relative vicende a testimonianza di “come logiche deteriori abbiano avuto il sopravvento sull’interesse collettivo”. Ma delle quattro banche salvate recentemente dal governo si perde ogni traccia nel disegno di legge (ddl). L’articolo 1 istituisce “una commissione parlamentare di inchiesta sul sistema bancario e finanziario, con particolare riguardo alla tutela dei risparmiatori”. Ampliando al periodo 2000-2015, come chiarisce successivamente il testo, la verifica sull’operato “degli organi di gestione degli istituti bancari coinvolti in situazioni di crisi o di dissesto” – ma senza indicare espressamente quali – e “l’efficacia delle attività di vigilanza”. Se il ddl del socialista Enrico Buemi attribuisce alla commissione compiti di accertamento “sui fallimenti delle banche e delle assicurazioni nonché sulla cattiva gestione del sistema finanziario ad esse collegato”, molto più mirato è, invece, il testo messo a punto dai senatori del gruppo Misto, prima firmataria Loredana De Petris (Sinistra italiana). Che chiede l’istituzione di una commissione d’inchiesta “sulle cause del dissesto della Cassa di risparmio di Ferrara Spa, della Banca delle Marche Spa, della Banca popolare dell’Etruria e del Lazio Società cooperativa e della Cassa di risparmio della provincia di Chieti Spa”. Per verificare, tra l’altro, le modalità di emissione e collocamento al pubblico di titoli azionari e obbligazionari, “prassi e procedure di gestione del credito” con riferimento alla concessione di “prestiti non performanti”, oltre ai “criteri di nomina” dei rispettivi amministratori.

PERICOLO DI FUGA – Mano pesante anche dalla Lega Nord, che ha presentato due testi praticamente identici: uno alla Camera (primo firmatario Gianluca Pini) e l’altro al Senato (a prima firma Paolo Tosato). Oltre a verificare “la gestione finanziaria” di Banca Etruria, Banca Marche, Carife e CariChieti, deputati e senatori del Carroccio chiedono specifici accertamenti sulle “attività di speculazione finanziaria ad alto rischio” e sull’emissione di “titoli rischiosi che abbiano esposto il patrimonio degli istituti al pericolo di insolvenza”. Non solo. Tra i compiti della commissione d’inchiesta, i parlamentari della Lega includono anche quello di valutare “eventuali responsabilità” connesse “al suicidio del risparmiatore Luigino D’Angelo, avvenuto il 28 novembre 2015 a Civitavecchia”. Sempre al Senato, anche i Conservatori e Riformisti di Raffaele Fitto chiedono, con un ddl a prima firma della capogruppo Anna Cinzia Bonfrisco, che la commissione indaghi espressamente sulle vicende relative alle quattro banche interessate dalla procedura di risoluzione. Verificando, tra l’altro, il “rispetto dei principi di trasparenza delle operazioni, dei servizi, dei prodotti e degli strumenti di natura bancaria e finanziaria, compresi libretti di risparmio postale e buoni fruttiferi assistiti dalla garanzia dello Stato e di correttezza delle relazioni tra intermediari e clienti”. Ma anche l’operato delle agenzie di rating rispetto ad eventuali “meccanismi di insider trading attraverso possibili fughe anticipate e selezionate di notizie riguardanti le modalità e le tempistiche dei declassamenti, condizionando così investimenti e transazioni internazionali”.

MELINA DEMOCRATICA – “La proposta che ho sottoscritto parte dal caso delle quattro banche per comprendere un periodo più lungo, utile a capire i meccanismi di funzionamento del sistema nel suo complesso – spiega però Marcucci contattato da ilfattoquotidiano.it –. Non si fanno commissioni di indagine per alimentare polemiche di un giorno ma per capire come vanno le cose in un settore così delicato”. Peccato che non tutti la pensino come lui. “Il Pd? Cerca di buttare la palla in tribuna”, osserva Loredana De Petris. La presidente del gruppo Misto del Senato in quota Sinistra italiana critica l’assenza di riferimenti alle vicende di Banca Etruria, Banca Marche, Carife e CariChieti nel ddl del Pd. “Durante il governo Berlusconi, in seguito al crac della Parmalat, si istituì una commissione ad hoc mirata sui protagonisti dello scandalo – ricorda –. Oggi come allora non si può istituire una commissione d’inchiesta prescindendo da una seria indagine sulle modalità di gestione delle quattro banche sottoposte a procedura di risoluzione e sull’attività di vigilanza svolta nei confronti delle stesse”. E aggiunge: “Il Pd sta facendo melina. Avevamo chiesto, insieme al M5S, che i ddl per l’istituzione della commissione fossero esaminati in Aula contestualmente alla discussione sulle mozioni di sfiducia contro il ministro Boschi, ma non è stato possibile”. L’ex grillino Massimo Artini condivide e rilancia: “Il ddl Marcucci? Solo un testo di facciata che nasconde tutto l’imbarazzo del Pd – accusa il deputato di Alternativa libera, che ha incluso nell’oggetto dell’inchiesta anche il Monte dei Paschi di Siena –. Visto che chiede di prendere in esame i fatti tra il 2000 e il 2015, mi chiedo allora perché non includere anche gli anni ’90, quando è iniziato il processo di privatizzazione del sistema bancario”.

EFFETTI COLLATERALI – Per il leghista Gianluca Pini, invece, in questo modo “Renzi sta cercando in tutti i modi di sviare le attenzioni concentrate su Banca Etruria”, ma “sono sicuro che l’istituzione di una commissione di inchiesta, che noi preferiremmo fosse monocamerale, accerterà le responsabilità non solo dei vertici delle banche oggetto del contestato decreto, compresa quella di cui è stato vicepresidente il padre della Boschi, ma anche di Bankitalia”. Per Pini, infatti, Palazzo Koch “non ha vigilato come avrebbe dovuto concentrando le proprie attenzioni su situazioni collaterali di gravità assai minore, spingendo per esempio alla fusione le piccole banche con effetti suicidi. Vogliamo andare fino in fondo – conclude – non lasceremo che questa vicenda finisca nel dimenticatoio”. Per Alessio Villarosa (M5S), infine, oltre ai tentativi del Pd di annacquare la vicenda c’è un altro problema, addirittura “molto più grave” degli altri. “Il decreto sulle banche emanato dal governo rischia di essere nullo – spiega il deputato – perché uno degli articoli presenti al suo interno fa riferimento ad una norma non ancora entrata in vigore quando è stato emanato”. Risultato: “Se venissero presentati dei ricorsi alla Consulta, e questa dovesse dichiarare incostituzionale il decreto, oltre alle somme espropriate lo Stato dovrà pagare pure i danni, le spese legali ed eventuali interessi di mora”.

(Articolo scritto con Antonio Pitoni il 29 gennaio 2016 per ilfattoquotidiano.it)

Il Patto del Nazareno secondo Verdini: l’accordo Berlusconi-Renzi nei report dell’ex braccio destro al leader forzista

martedì, gennaio 19th, 2016

Ecco i punti più interessanti del libro del deputato Massimo Parisi (Ala). Costruito attraverso i rapporti scritti che lo stesso Verdini inviava al leader azzurro. Tra gennaio 2014 e gennaio 2015, data di nascita e morte del celebre accordo stretto nella sede del Pd. Con racconti inediti e giudizi sprezzanti anche sugli esponenti del Pd. Renzi? “È solo un chiacchierone. Dice sempre le stesse cose. Per ora è stato un perfetto trasformista”. La Boschi? “Più adatta al tema forme che al tema riforme”

verdini-renzi-6751È il racconto di una vicenda che ha indubbiamente segnato la recente storia politica italiana. Ma non solo. A sentire l’autore, il deputato di Alleanza liberalpopolare-autonomie (Ala), Massimo Parisi, è anche “il primo tassello di un progetto politico nuovo” che sarà definito negli anni a venire. Il Patto del Nazareno, libro edito da Rubbettino presentato oggi a Roma alle 18 alla sala del Tempio di Adriano, racconta, principalmente attraverso i report che Denis Verdini era solito inviare a Silvio Berlusconi, quanto è accaduto fra il 18 gennaio 2014 e il 31 gennaio 2015, data di nascita e di morte del celebre accordo stretto nella sede del Pd fra Matteo Renzi e il leader di Forza Italia. “L’idea iniziale era quella di scrivere un libro che esaltasse Renzi e Berlusconi come nuovi padri costituenti, poi le cose sono andate diversamente”, spiega Parisi. Tanto che “il primo titolo che avevo immaginato era Quelli che fecero l’Italicum”. Ilfattoquotidiano.it ha potuto leggere il libro in anteprima. Eccone, di seguito, i 10 punti principali.

Agli albori del patto. Uno dei primi episodi raccontati dal deputato di Ala nel suo libro è quello relativo alla possibilità che l’incontro fra Renzi Berlusconi potesse tenersi a Firenze e non nella Capitale. Qualche giorno prima del vertice al Nazareno, Parisi si reca quindi nello studio di Verdini per sconsigliargli il manifestarsi di un simile scenario: così “sembrerebbe che anche Berlusconi viene a omaggiare Renzi e a Firenze dobbiamo farci le amministrative”. Verdini risponde facendo leggere al suo interlocutore un promemoria del 14 gennaio 2014 che ha spedito al leader di FI: “Io ti consiglio ancora di vedere Renzi a Roma, presso la sede del Pd, per una serie di motivi”, scrive. Primo: “Sfatare un tabù: pensa al tuo ingresso a largo del Nazareno e al giro del mondo che faranno quelle immagini”. Due: “Questa trattativa, al di là della sostanza, che in questo caso è vita, ti riporta al centro della politica e degli assetti futuri delle istituzioni”. Infine: “Pensa all’importanza di un incontro pubblico con il segretario del Partito democratico, proprio nei mesi in cui volevano renderti ‘impresentabile’ e trattarti da ‘pregiudicato’ espulso dalla politica. Ora invece ricevuto nella sede del Pd, saresti uno dei padri fondatori della Terza Repubblica”.

Lo zio dell’Italicum. L’ex braccio destro del Cavaliere non parteciperà al faccia a faccia. “Ho detto a Renzi che lo chiamerà Gianni Letta per fissare ora e giorno dell’incontro e le relative modalità. (…) Penso che ti potrei essere utile e sarei anche orgoglioso di essere al tuo fianco in un momento così decisivo, ma non c’è bisogno che tu mi dica niente: capisco che per una questione d’immagine è meglio passare la palla a Gianni”, scrive Verdini. Ma il senatore toscano ha già intavolato la trattativa con Roberto D’Alimonte, “lo zio dell’Italicum”, come ama autodefinirsi. Il confronto fra i due si tiene domenica 12 gennaio 2014 a Firenze e dura quattro ore. “Anche in questo caso tutto avviene al riparo di telecamere e giornalisti, giacché i due si vedono nell’abitazione di D’Alimonte”, annota Parisi. È un nuovo report di Verdini a Berlusconi del 14 gennaio 2014 a raccontare com’è andata: “L’incontro è stato lungo e molto approfondito sia sul piano tecnico che su quello sociologico. (…) Per sua stessa ammissione, la conoscenza, i dati e le simulazioni che io gli ho illustrato e consegnato erano quasi del tutto identici ai suoi. (…) Dopo le basi che io e D’Alimonte abbiamo gettato – conclude – il suo successivo incontro con Renzi è stato ottimo per il possibile accordo. Di questo ho avuto notizia da entrambi”.

Telefonare Palazzo Chigi. Un altro episodio curioso, raccontato nel libro, è quello che avviene durante il vertice a Largo del Nazareno. “L’incontro dura molto più del previsto – scrive Parisi –. Alle 6 della sera, Berlusconi e Letta sono ancora seduti sul divanetto dell’ufficio di Renzi. (…) Il telefonino del segretario del Pd squilla di frequente e, stando al racconto che Berlusconi farà poco dopo a Verdini, a chiamare con insistenza è Palazzo Chigi”. Dall’altra parte del telefono, a chiamare ripetutamente Renzi, è l’allora presidente del Consiglio, Enrico Letta, “un altro toscano che di questa storia sarà però soltanto prima spettatore e poi vittima” che “aspetta con impazienza notizie e forse ha già in fondo capito che anche la vita del suo governo è appesa a quel vertice”.

Il perfetto trasformista. Leggendo il testo si capisce come, almeno nelle fasi iniziali del loro rapporto, Verdini non avesse grande stima di Renzi. Quando, durante la campagna del 2013 per le primarie per la leadership (poi perse dall’allora sindaco di Firenze contro Pier Luigi Bersani), Parisi cerca di mettere in guardia Verdini “dal rischio ‘Renzi’ e dalla possibilità che ottenesse un successo clamoroso e che ce lo ritrovassimo come avversario”, egli risponde: “È solo un chiacchierone. Dice sempre le stesse cose”. E ancora, il 27 dicembre 2013: “Se fosse uno sciatore”, Renzi “sarebbe uno specialista degli slalom, ma ora il bluff sta necessariamente per essere visto. Tolta la rottamazione, che è un concetto piuttosto semplice, non è ancora chiaro che cosa sia esattamente il renzismo”. Di più: “Abbiamo letto tante autorevoli analisi sulla sua carica innovativa e la sua radicale discontinuità, il ricambio generazionale, il rinnovamento politico-culturale, la rigenerazione morale ed esistenziale. (…) Renzi riesce a promuovere molto bene la confezione” ma “per ora è stato un perfetto trasformista”.

Le segretarie del segretario. Tranchant sono invece i giudizi che Verdini dà dei componenti della segreteria del Pd guidata dal futuro premier. “Più che di una segreteria politica – scrive Parisi citando il report del 28 dicembre 2013 – si tratta di un gruppo di segretarie e segretari di Renzi”. Luca Lotti? “L’unica cosa che si sa di lui è che è un collaboratore di Renzi. Non solo per età e inesperienza, il profilo appare oggettivamente modesto”. Francesco Nicodemo? “Forse l’unica cosa che può aver eccitato Renzi è che questo tipo ha passato gli ultimi mesi a insultarsi con i comunicatori più vicini a Bersani, tali Stefano Di Traglia e Chiara Geloni”. Debora Serracchiani? “Studia faziosità da Rosy Bindi”. Federica Mogherini? “La solita solfa gné-gné-pacifismo-femminismo-europeismo”. Pina Picierno? “Veltroniana, franceschiniana, bersaniana e fervente anti-renziana alle scorse primarie, ma poi evidentemente pentita: un altro salto sul carro del vincitore ben riuscito”. Maria Elena Boschi? “Bella è certamente bella, a dir poco. Più adatta al tema forme che al tema riforme, si potrebbe dire”. Marianna Madia? “Ha già girato praticamente tutte le correnti del Pd”. L’unico su cui Verdini esprime apprezzamento è il vicesegretario Lorenzo Guerini: “Forse è l’unico elemento davvero bravo e interessante. Simpatico e concreto, appare (e forse è) effettivamente lontano dallo stereotipo del sinistro torvo, ideologico e trinariciuto”.

Non trattate con Nardella. Il 18 dicembre 2013 il Corriere della Sera dà notizia di un faccia a faccia fra il capogruppo di Forza Italia alla Camera, Renato Brunetta, e Dario Nardella (al tempo deputato del Pd) sulla legge elettorale. I due avrebbero ragionato su una rivisitazione del Mattarellum. “L’incontro ha un impatto deflagrante: i due mediatori non sanno a quel momento dello stato avanzato (ma riservato) dei contatti Verdini-Renzi – rivela Parisi –. Verdini di per sé fa spallucce, tuttavia quando lo stato maggiore del partito si riunisce e Brunetta insiste sull’opportunità di proseguire nel contatto con Nardella, Verdini perde le staffe e i due di fronte a numerosi testimoni si prendono a male parole, fin quando, esasperato dall’insistenza del capogruppo, il fiorentino di ghiaccio viola la riservatezza cui è vincolato da settimane, tira fuori il telefonino e mostra un sms”. Il mittente è Matteo Renzi. Scrive: “Non trattate di legge elettorale con Nardella”.

L’accordo è rotto (anzi no). Più volte, come racconta Parisi, il patto del Nazareno sembra sull’orlo di rompersi. Evidente, anche se “non trapela minimamente sui giornali della domenica”, è “il disappunto di Verdini” nei confronti di Renzi al termine del fatidico incontro al Nazareno. I due avevano concordato una legge elettorale sul ‘modello spagnolo’, ma davanti a Berlusconi e Letta il segretario dem cambierà le carte in tavola. A Sant’Andrea delle Fratte, infatti, lo ‘Spagnolo’ diventerà ‘Italicum’. Renzi, come riporta il deputato di Ala, spiegherà ai suoi interlocutori che contro questo sistema “si coalizzerebbero tutti, da Napolitano a Enrico Letta, (…) con effetti devastanti sulla stessa tenuta della legislatura”. Un cambiamento sostanziale: il computo dei seggi viene spostato dal livello del collegio alla distribuzione nazionale. Ma non solo: ci sono le questioni relative alle ‘liste civetta’ e alla soglia da raggiungere per conquistare il premio di maggioranza. Senza dimenticare gli emendamenti ‘salva Lega’ e ‘Lauricella’. Il momento di massima tensione, in questa fase, è però il durissimo faccia a faccia fra Brunetta e la Boschi del 10 marzo 2014. Il capogruppo di FI chiede un incontro a Renzi (“un quarto d’ora nella pausa pranzo”) per parlare della questione delle ‘quote rosa’. Il segretario dem, già sbarcato a Palazzo Chigi, decide però di non convocare l’ex ministro. Morale: nell’ufficio del presidente della commissione Affari costituzionali di Montecitorio, al tempo il forzista Francesco Paolo Sisto, Brunetta sbotta. “Il patto è rotto”, dice. “Il patto è rotto”, ripete. “Ne nasce una furibonda rissa verbale fra Brunetta e la Boschi: non l’avevo mai vista incazzata, e la ministra dimostra di tener testa al suo antagonista”, scrive Parisi. Alla fine la situazione tornerà alla normalità. Il patto è salvo. Per ora.

Verdini jr. diventa renziano. A un certo punto, nel testo di Parisi, compare anche il figlio di Denis Verdini, Tommaso. Di buon mattino, il 20 gennaio 2014, dopo una notte passata in discoteca, il 25enne viene svegliato dal padre. Il motivo? Per comunicare con Verdini senior, che “ha poca confidenza con il computer”, nel weekend Renzi invia le proprie mail alla casella di posta elettronica del giovane. Il quale, ‘a sua insaputa’, è un sostenitore del premier. O almeno così ha detto a quest’ultimo lo stesso Verdini. Una volta venuto a conoscenza dell’involontario endorsement, Tommaso starà al gioco tanto da inviare a Renzi un sms: “Matteo sono molto contento di come sono andate le cose, ho molta fiducia in te, l’ho sempre avuta… In bocca al lupo. Post scriptum: in casa Verdini vada come vada hai sempre un alleato”. E poi? “In verità nel corso dei mesi successivi – annota l’autore –Tommaso si è realmente convertito al renzismo”.

Pistola schizza piscio. Fondamentale è anche il lungo report che Verdini invia a Berlusconi il 7 aprile 2014, pochi giorni dopo una dura intervista di Brunetta al Corriere (“Renzi vuole distruggerci”) e un fuori onda fra Maria Stella Gelmini e Giovanni Toti nel quale quest’ultimo dice che il Cavaliere “non sa cosa fare con Renzi, perché ha capito che questo abbraccio mortale ci sta distruggendo, ma non sa come sganciarsi”. Parisi riporta il contenuto del documento: “Io, malgrado ciò che scrivono i quotidiani (debitamente imbeccati da qualcuno dei nostri) non ho alcun interesse individuale a portare avanti il rapporto con Renzi – scrive Verdini –. Se sono un convinto sostenitore dell’esigenza di proseguire questa strada è solo perché sono certo che sia quella giusta principalmente per te e per il nostro movimento politico. (…) Quando avevamo le pistole cariche non le abbiamo usate, ora che, come si dice in Toscana, abbiamo una pistola ‘schizza piscio’, vorremmo far paura a chi ha il cannone!”. Si tratta di un documento ‘storico’. All’interno del quale, secondo Parisi, avviene una “conversione laica”, l’“ingresso” di Verdini “nella chiesa del Nazareno”. Il premier “somiglia a quel genio della politica e dell’impresa che nel 2001 propose agli italiani un ‘contratto con gli italiani’”, scrive il leader di Ala. Cioè proprio Berlusconi. In un altro report (15 maggio), dopo la pubblicazione del colloquio tra Alan Friedman e il Cavaliere nel quale egli si dice molto deluso da Renzi seppellendo il Nazareno, Verdini chiede all’ex premier di essere “sollevato” dall’incarico di “ufficiale di collegamento” con il numero uno di Palazzo Chigi.

Il cerchio tragico. L’ultimo report è datato 27 marzo 2015, circa due mesi dopo l’elezione al Colle di Sergio Mattarella che ha messo la parola “fine” sull’accordo. Verdini, oltre che a Berlusconi, lo invia a Gianni Letta e Fedele Confalonieri, che del patto sono stati sponsor ‘esterni’. Quelle che l’ex plenipotenziario di FI mette nero su bianco sono parole dure. “Dopo aver buttato via in un colpo solo il patrimonio politico del patto del Nazareno – domanda Verdini – intendi cestinare anche l’immenso patrimonio politico che hai costruito in vent’anni? Ti sei rinchiuso nel castello incantato con intorno personaggi che il partito non apprezza e non rispetta e li stai usando come clave per regolare non si sa quali conti e perché”. Sono i componenti di quello che il senatore toscano chiama “cerchio magico”, chiedendosi però se non sia “tragico”. Addirittura “un mediocre sinedrio fatto di arroganza, di superficialità e anche, lasciamelo dire, di incompetenza”. Seguono gli addii di Raffaele FittoDaniele Capezzone e dello stesso Verdini. Il resto è storia.

(Articolo scritto il 18 gennaio 2016 per ilfattoquotidiano.it)

La massoneria ci riprova: dopo il silenzio di Grasso, lettera ai partiti per fare museo nel palazzo del Senato

mercoledì, gennaio 6th, 2016

Il Gran Maestro Bisi non ha avuto risposta al suo dossier per chiedere che sia riconcesso uno spazio al Grande Oriente d’Italia. Ora ci riprova con due missive indirizzate ai capigruppo

giustiniani-Una lettera. Anzi, due. Spedite direttamente al presidente del Senato, Pietro Grasso, e ai capigruppo delle forze politiche che siedono a Palazzo Madama. Dal Partito democratico a Forza Italia fino al Movimento 5 Stelle e ai ‘verdiniani’ di Ala. Insomma, stavolta il Grande Oriente d’Italia (Goi) è davvero determinato a riprendersi ciò che, a suo dire, gli spetta di diritto. Ovvero una porzione di Palazzo Giustiniani, la struttura che attualmente ospita l’appartamento di rappresentanza della seconda carica dello Stato e gli uffici dei senatori a vita un tempo di proprietà della più numerosa comunione massonica italiana, da utilizzare come sede del museo storico della massoneria. Circa centro metri quadrati all’interno dei quali esporre, nelle intenzioni del Goi, anche alcuni indumenti indossati dal massone italiano più famoso del mondo, Giuseppe Garibaldi. Una vicenda della quale ilfattoquotidiano.it si è recentemente occupato, anticipando i contenuti di un dossier che il Gran Maestro, Stefano Bisiha messo a punto e poi inviato al presidente del Senato. Accompagnato da una lunga lettera nella quale viene ripercorsa una questione che, fra grembiuli massonici, camicie nere e cavilli burocratici è iniziata oltre cento anni fa.

Missiva alla quale il presidente del Senato non ha però ancora fornito risposta, nonostante Bisi l’abbia spedita quasi due mesi fa, il 12 novembre 2015. Nelle due pagine e mezzo scritte di proprio pugno, il numero uno del Grande Oriente d’Italia ha ricordato a Grasso “il mancato adempimento da parte del Senato della Repubblica delle obbligazioni nascenti dall’atto transattivo intercorso il 14.11.1991 tra Intendenza di Finanza, Senato e Società Urbs”, appositamente costituita dal Goi nel 1911 per l’acquisto della struttura. Poi espropriata dal fascismo nel 1926. Accordo, quello firmato ai tempi in cui a presiedere l’Aula di Palazzo Madama c’era Giovanni Spadolini, che prevedeva “la concessione in uso da parte del Senato alla Urbs, e quindi al Grande Oriente d’Italia, di una porzione limitata dei locali stessi da adibire a museo storico della massoneria italiana. (…) Mi auguro che si possa aprire un canale di comunicazione per portare ad attuazione piena l’accordo transattivo del 1991 e fornire così finalmente una risposta adeguata alle altre finalità sottese che – conclude Bisi – attengono alla stessa memoria storica del nostro Paese”.

Ma non è tutto. Perché alla luce del silenzio di Grasso, il Gran Maestro del Goi ha preso nuovamente carta e penna e il 16 dicembre scorso ha scritto un’altra lettera. Indirizzandola, stavolta, a Luigi Zanda (Pd), Renato Schifani (Area popolare), Michele Giarrusso (M5S), Paolo Romani (FI), Lucio Barani (Ala), Mario Ferrara (Gal), Cinzia Bonfrisco (Conservatori e Riformisti), Gian Marco Centinaio (Lega Nord), Karl Zeller (Per le Autonomie) e Loredana De Petris (Gruppo Misto). Una missiva in questo caso più stringata, una pagina e mezzo circa, attraverso la quale Bisi chiede ai capigruppo dei partiti rappresentati a Palazzo Madama, “anche a nome di 23mila cittadini di questa Repubblica (cioè il totale degli iscritti al Goi, ndr), di contribuire alla soluzione di quanto sottoscritto per la realizzazione della piccola area museale della massoneria italiana”. Risposte? Per il momento nessuna. E chissà se arriveranno mai.

Twitter: @GiorgioVelardi

(Articolo scritto il 5 gennaio 2016 per ilfattoquotidiano.it)

Forza Italia in libera uscita, dopo il Senato ora tocca alla Camera: verso l’addio anche Lainati e Romele

giovedì, dicembre 24th, 2015

A Montecitorio gli emissari di Verdini al lavoro. Girandola di contatti con gli ex colleghi del partito di Berlusconi per rafforzare il gruppo di Ala. Praticamente fatta per la Polverini, in stand by anche i campani Cesaro, Russo e Sarro: solo la nomina di Mara Carfagna a nuovo capogruppo azzurro in sostituzione di Brunetta potrebbe convincerli a restare. D’Anna: “FI paga l’appiattimento sulle posizioni di Meloni e Salvini”. Ma nel mirino ci sono anche i fittiani a Palazzo Madama: l’obiettivo è sgonfiare i Conservatori e Riformisti dell’ex governatore della Puglia

berlusconi-675Lunedì pomeriggio Luca D’Alessandro percorreva chilometri da un lato all’altro del Transatlantico di Montecitorio. Senza mai staccare mani e orecchie dal telefonino. Insieme ad Ignazio Abrignani e Massimo Parisi sta gestendo i contatti con gli ex colleghi di Forza Italia che stanno meditando seriamente l’addio al partito di Silvio Berlusconi. Per gli emissari di Denis Verdini, fondatore della nuova componente parlamentareAlleanza Liberalpopolare Autonomie (Ala), sono giornate intense e decisive. E il trasloco annunciato ieri al Senato dai coniugi Sandro Bondi e Manuela Repetti insieme ad Enrico Piccinelli tra i banchi del gruppo dell’ex plenipotenziario del Cavaliere sarebbe solo l’antipasto di quello che, entro la fine dell’anno, potrebbe succedere anche alla Camera. Dove a parte l’ex governatrice del Lazio, Renata Polverini, che ha praticamente già anticipato a mezzo stampa l’intenzione di passare coi verdiniani, potrebbero lasciare FI anche l’ex capo ufficio stampa del partito Giorgio Lainati e Giuseppe Romele. Nomi ai quali vanno aggiunti anche quelli di una serie di deputati ancora in forse, che stanno meditando sul da farsi. A cominciare dalla pattuglia dei campani (da Luigi Cesaro a Paolo Russo e Carlo Sarro), che restano però in attesa della nomina della Mara Carfagna come nuovo capogruppo al posto del contestato Renato Brunetta prima di sciogliere la riserva.

TUTTI CONTRO TUTTI – È questo il risultato delle ultime, travagliate vicende che stanno spaccando il partito di Berlusconi. A cominciare dalle laceranti divisioni emerse in occasione del voto sulla mozione di sfiducia individuale contro il ministro delle Riforme, Maria Elena Boschi, in relazione alla vicenda Banca Etruria. Un episodio che ha seminato all’interno dei gruppi parlamentari ulteriori dosi di malumore e scontento. “Più che di scontento parlerei di sconcerto”, fotografa con una battuta la situazione dentro FI il senatore verdiniano Vincenzo D’Anna a ilfattoquotidiano.it.“Ormai assistono attoniti a tutta una serie di decisioni in contrasto tra loro: da un lato Brunetta attacca Renzi, dall’altro Romani cerca di interloquire con il Pd per mantenere l’accordo sui giudici costituzionali; mentre il giorno dopo Berlusconi sconfessa gli uni e gli altri – continua –. C’è gente che non ci si raccapezza più, il tutto mentre il partito si appiattisce sul lepenismo e l’euroscetticismo da una parte e la xenofobia e il razzismo del duo Meloni-Salvini dall’altra”. E proprio al Senato l’esodo potrebbe non finire qui. Nella lista degli indecisi, infatti, ci sarebbe anche i nome di Sante Zuffada.

DAGLI AI FITTIANI – Ma nel mirino del fondatore e leader di Ala non ci sono solo i berlusconiani. Infatti “l’altro obiettivo di Verdini a Palazzo Madama, oltre agli ex colleghi di Forza Italia, sono i fittiani”, rivela un ex ministro azzurro. Cioè i senatori del gruppo Conservatori e Riformisti, nato a giugno di quest’anno, che fa capo all’europarlamentare pugliese. E a cui Verdini, nei mesi scorsi, ha già strappato due importanti pedine: Eva Longo (nominata vicepresidente di Ala al Senato) e Ciro Falanga (segretario). “A Palazzo Madama – prosegue la fonte – l’uscita di un solo senatore dal gruppo di Fitto porterebbe di fatto alla sua implosione, perché scenderebbe sotto la soglia minima dei dieci eletti necessaria per formare una componente autonoma”. Proprio questo sembra essere l’obiettivo dichiarato di Verdini. Il quale, in particolare, ha messo gli occhi su Antonio Milo e Marco Lionello Pagnoncelli (anche loro ancora incerti sul da farsi). “Ma potrebbe non essere finita qui – aggiunge l’ex ministro –, anche perché il pressing è a tutto campo, sia alla Camera sia al Senato”. E poi, rivela, “quello che Verdini ha da offrire non ce l’ha nessun altro”. Ovvero? “Niente poltrone di governo o ricandidature alle prossime elezioni, ma prospettive lavorative utilizzando l’esecutivo”. Cioè quelli che in gergo vengono definiti incarichi di sottogoverno. Non è un caso che ciò che resta del ‘cerchio magico’ di Forza Italia (Deborah BergaminiMariarosaria Rossi e Giovanni Toti) stia spingendo affinché Berlusconi torni in campo in prima persona per raddrizzare la situazione. Ammesso che, arrivati a questo punto, ciò possa ancora servire a qualcosa.

(Articolo scritto con Antonio Pitoni il 23 dicembre 2015 per ilfattoquotidiano.it)

Legge di Stabilità, assenze al voto finale: Lega batte tutti, seguita da Forza Italia, Fratelli d’Italia, Sinistra, Misto e M5S

mercoledì, dicembre 23rd, 2015

Renzi aveva detto: “I grillini non erano in Aula”. I deputati Cinque Stelle assenti erano 37 su 91 (il 40,6% del gruppo). Il grillino Fico: “Il premier mente sapendo di mentire”. Ma il record spetta al Carroccio. Il cui tasso di diserzione ha toccato il 75%. Nel Pd assenze al 6%. Molti i big che hanno mancato il voto. Da Bossi alla Santanché, dalla Meloni e La Russa a Fratoianni. E poi, Ruocco, Lombardi, Toninelli, Boschi, Bersani, Colaninno…

italicum-ok-6751La bordata è arrivata in diretta televisiva. Di domenica pomeriggio, durante la seguitissima trasmissione di Massimo Giletti. Ospite de L’Arena, su Rai Uno, Matteo Renzi ha preso di mira i grillini: “La legge di stabilità è stata approvata alle 2.58 di stanotte e i 5 Stelle non erano in Aula perché purtroppofanno un’opposizione che regge fino a che sono accese le telecamere – ha accusato il premier –. Forse è la famosa febbre del sabato sera, si sono ammalati tutto insieme”. È davvero così? A scorrere i tabulati delle presenze di Montecitorio non è che l’ex sindaco di Firenze abbia tutti i torti. Numeri alla mano, però, le defezioni non hanno riguardato solo i grillini. Basti pensare che dei 630 inquilini di Montecitorio solo 362 (il 57,5%) hanno partecipato alla votazione finale – quella delle 2.58 appunto – sulla manovra finanziaria. Il restante 42,5%, l’equivalente di 268 deputati, mancava invece all’appello. Tra loro anche quelli di Forza Italia, che è riuscita a fare peggio dei pentastellati. Se dei 91 parlamentari della pattuglia del M5S in 37 (il 40,6% dell’intero gruppo) hanno saltato l’ultima votazione notturna, sono stati 36 su 54 (il 66,6%) gli azzurri che hanno lasciato vuoti gli scranni del partito di Silvio Berlusconi.

TUTTI A CASA – Nella lista degli assenti alla votazione decisiva della Camera non mancano i volti noti del movimento fondato da Beppe Grillo Gianroberto Casaleggio, a cominciare dagli ex capigruppo Roberta Lombardi e Giorgio Sorial (il quale spiega però che era malato). Non c’erano neppure Danilo Toninelli, uno degli artefici della trattativa con il Partito democratico (Pd) che ha permesso di sbloccare lo stallo dell’elezione dei giudici della Corte Costituzionale, e Mattia Fantinati, asceso all’onore delle cronache per il suo assalto al meeting di Comunione e liberazione dell’estate scorsa. Vuote anche le sedie di Massimo Baroni, Andrea Cecconi e Carla Ruocco, unica componente del direttorio assente sabato notte. “Quando attacca il Movimento 5 Stelle, Renzi mente sapendo di mentire”, accusa il deputato Roberto Fico. “Nel corso della discussione sulla legge di Stabilità abbiamo dimostrato come si fa opposizione – aggiunge il presidente della commissione di Vigilanza Rai e membro del direttorio del M5S a ilfattoquotidiano.it –. Rivelando, peraltro, che ‘marchettificio’ è questo provvedimento, grazie al quale verranno finanziate le fondazioni degli amici degli amici: un atteggiamento inaccettabile da parte del governo”. Quanto a Forza Italia, oltre al solito Antonio Angelucci, recordman di assenze secondo la classifica di Openpolis, non c’erano neanche Deborah Bergamini, Micaela Biancofiore, Daniela Santanchè e la figliol prodiga Nunzia De Girolamo. Tra i big non pervenuti tra gli scranni di Montecitorio, anche gli ex ministri Antonio Martino e Gianfranco Rotondi, che si dichiara, però, “assente giustificato” perché, racconta, “c’era il congresso di Rivoluzione Cristiana (il partito di cui è fondatore e presidente, ndr) al quale non potevo non partecipare”. La compagnia dei desaparecidos si allarga a Gabriella GiammancoJole Santelli e all’ex presidente della commissione Affari costituzionali, Francesco Paolo Sisto, reduce dalla batosta della mancata elezione alla Consulta. Senza dimenticare le ex ministre Mara Carfagna e Maria Stella Gelmini, che hanno partecipato alle precedenti votazioni disertando, però, quella finale. I numeri, insomma, danno ragione a Renzi. Che oltre al M5S ha rimarcato, nel suo intervento televisivo, anche le defezioni di Forza Italia. Il suo Pd, peraltro, stavolta si è distinto per compattezza e presenza. Solo in 20 sui 301 del gruppo parlamentare della Camera, appena il 6,6%, sono mancati all’appello. Anche se scorrere i nomi degli assenti fa un certo effetto. Non hanno preso parte al voto delle 2.58 la ministra delle Riforme, Maria Elena Boschi (così come lo stesso presidente del Consiglio, Matteo Renzi, ma lui neanche è elencato nella lista degli aventi diritto in quanto non deputato), l’ex segretario del partito, Pier Luigi Bersani e l’attuale vice segretario, Lorenzo Guerini (che fa sapere di essersi sottoposto ad un “intervento chirurgico in mattinata e di essere rimasto in aula fino alle 19”). Notturna disertata anche dall’ex ministro dell’Istruzione, Maria Chiara Carrozza, dall’ex responsabile giustizia del partito, Danilo Leva, dal fedelissimo del premier e commissario alla spending review Yoram Gutgeld. Oltre ai deputati Micaela Campana (che però precisa che si trova in convalescenza post-operatoria da 10 giorni), Matteo Colannino e al guardasigilli Andrea Orlando, che però risultava in missione.

CERCASI LEGA – E gli altri gruppi? Pesanti le defezioni anche tra i deputati di Sinistra Italiana17 su 31, pari al 54,8%. Tra loro il candidato sindaco di Torino, Giorgio Airaudo, il vice presidente della commissione Antimafia Claudio Fava e Nicola Fratoianni. In Aula a ranghi ridottissimi anche la Lega Nord12 assenti su 16, il 75% dell’intera pattuglia parlamentare. A cominciare dal senatùr Umberto Bossi. Contagiati dalla febbre del sabato sera anche i deputati di Fratelli d’Italia: domenica notte ne mancavano all’appello 5 su 8, il 62,5% del totale. A cominciare dall’ex ministro e leader del partito Giorgia Meloni e Ignazio La RussaSette su 23, invece, le assenze fra gli scranni di Scelta Civica (il 30,4% del totale). Fra questi, Alberto Bombassei, presidente di Brembo, e gli ex 5 Stelle Ivan Catalano e Paola Pinna. Dieci deputati sui 31 totali sono stati gli assenti fra i banchi di Area Popolare (Ncd più Udc). Il 32,2%. Fra i quali il viceministro della Giustizia, Enrico CostaGiuseppe De Mita (nipote del più noto Ciriaco) e Sergio Pizzolante. Il gruppo Per l’Italia, che a Montecitorio fa capo a Lorenzo Dellai, ha fatto registrare il 30,7% di assenze: 4 deputati su 13. Hanno invece disertato la votazione delle 2.58, 33 deputati sui 62 totali del gruppo Misto (il 53,2%), del quale fanno parte numerose componenti. Dall’Alleanza liberalpopolare autonomie (Ala) diDenis Verdini (assenti Francesco Saverio Romano e Massimo Parisi) ai Conservatori e Riformisti di Raffaele Fitto (assente Daniele Capezzone). A proposito di febbre del sabato sera, Renzi ce l’aveva per caso anche con loro?

(Articolo scritto con Antonio Pitoni il 22 dicembre 2015 per ilfattoquotidiano.it)

Idea, il partito di Quagliariello con la diaspora Ncd: parlamentari e consiglieri, tutti gli uomini dell’ex ministro

martedì, dicembre 22nd, 2015

Dalle Marche alla Campania e al Piemonte. Fino al Veneto e alla Sardegna. Con l’ex saggio di Napolitano e il suo movimento molti fuoriusciti dal Nuovo centrodestra. Come l’ex europarlamentare Roberta Angelilli nel Lazio. In Emilia Romagna, Carlo Giovanardi cura la crescita sul territorio. Mentre in Abruzzo c’è anche l’ex governatore Gianni Chiodi

quagliariello-675Sono già in tanti. Ma il loro numero è destinato a salire nelle prossime settimane, quando verranno costituiti i comitati regionali di quello che, giura il suo fondatore e leader, “non sarà l’ennesimo partitino”. Ma “un movimento alternativo a Matteo Renzi e al suo governo”. E così Idea, acronimo che sta per Identità e Azione, la nuova creatura che Gaetano Quagliariello ha tenuto a battesimo qualche settimana fa a Roma, sta muovendo velocemente i primi passi nelle Regioni. Dall’Abruzzo alla Campania e al Lazio. Fino al Veneto. Del resto, nel presentarla alla stampa, l’ex ministro delle Riforme costituzionali del governo di Enrico Letta era stata chiaro: “I nostri interlocutori non sono i parlamentari, perché la nostra non è un’operazione di palazzo, ma chi sta nei territori”. Ecco perché molti degli aderenti al progetto che hanno lasciato il Nuovo Centrodestra di Angelino Alfano vengono dai contesti locali. Stanchi, proprio come Quagliariello, che prima di dire addio al partito si era dimesso dal ruolo di coordinatore nazionale, della linea politica del capo del Viminale. Accusato di essere diventato la stampella di Renzi.

ROMAGNA MIA – Se in Parlamento, per ora, Idea conta solo 8 fra deputati e senatori (Andrea Augello, Luigi Compagna, Carlo Giovanardi e lo stesso Quagliariello a Palazzo Madama; Renata Bueno, Vincenzo Piso, Eugenia Roccella e Guglielmo Vaccaro a Montecitorio), numeri non sufficienti per dare vita a gruppi autonomi, è in Emilia Romagna, dove è stato designato come coordinatore Pierluigi Pollini, già membro dell’assemblea nazionale di Ncd, e Puglia che il movimento raccoglie i maggiori consensi. Nel primo caso, anche grazie al lavoro di Giovanardi, già il 26 ottobre scorso i coordinatori provinciali di Ncd di Piacenza, Romano Tribi, di Reggio Emilia, Christian Immovili, di Modena, Alessandro Lei, il sindaco di Monzuno (Bologna), Marco Mastacchi, i consiglieri comunali di Modena, Luigia Santoro, e di Rimini, Eraldo Giudici, più i presidenti di 31 circoli regionali hanno sottoscritto un documento con il quale hanno denunciato “l’arroganza del governo e del Partito democratico”. Il tutto “direttamente collegabile all’incomprensibile atteggiamento del Ncd – è scritto nella nota – disponibile ad accettare qualsiasi forzatura pur di non mettere in discussione la sua partecipazione al governo sino a teorizzare un’alleanza strategica con la sinistra con una vera e propria mutazione genetica della originale vocazione del partito”. Più chiaro di così.

CIAO ANGELINO – In Puglia, invece, a guidare la pattuglia dei fuoriusciti dal Nuovo centrodestra c’è Domi Lanzilotta, membro dimissionario della direzione del partito. Il quale, il 24 novembre, ha preso carta e penna e scritto una lettera di fuoco ai vertici regionali della compagine alfaniana. Che, “sebbene regolarmente invitati, hanno inopinatamente disertato il tavolo del centrodestra pugliese convocato per mettere in campo alle prossime elezioni amministrative una proposta comune in grado di battere la sinistra – ha attaccato Lanzilotta –. La nostra pubblica denuncia di questo atto di diserzione ha avuto come sola risposta un assordante ‘silenzio assenso’ che ci consente oggi, con la coscienza a posto di chi le ha provate tutte, di considerare irreversibile l’abbandono da parte di Ncd della linea che, nonostante taluni atteggiamenti irresponsabili, ci ha visto in prima linea alle elezioni regionali”. Una linea, dice ancora il testo della missiva, “inequivocabilmente alternativa alla sinistra, che noi intendiamo continuare a perseguire e che ci costringe oggi per coerenza a rassegnare le dimissioni dagli organi nazionali e territoriali del partito”. Con Lanzilotta hanno lasciato Ncd in 18: i membri dell’assemblea nazionale Francesco Tricase, Stefano Diperna, Stanislao Morea, Giuseppe Corrado, Maria Cicirelli, Vincenzo Guerra, Francesco Palazzo, Damiano Binetti, Matteo Savastano, Savino Santarella, Giuseppe Calia, Claudio Sgambati, Giovanni Volpe e i componenti del coordinamento regionale Leo Vicino, Fabio Colella, Francesco Perchinunno, Antonella Lella e Pasquale Coccia. Nomi ai quali si aggiunge quello dell’ex consigliere regionale Davide Bellomo, fuoriuscito dal Movimento Politico Schittulli (che prende il nome dal candidato governatore di Raffaele Fitto e Area Popolare sconfitto alle Regionali 2015 dal democratico Michele Emiliano), tra i fondatori del neonato movimento. E dell’imprenditore Paolo Dell’Erba, anch’egli candidato alle scorse Regionali.

VENGO ANCH’IO – Ma non è tutto. Perché, anche in molte altre Regioni, Idea ha raccolto in queste settimane numerosi consensi. Nel Lazio, per esempio, hanno già aderito in 5: oltre al consigliere regionale Daniele Sabatini (nominato responsabile) ci sono anche l’ex vicesindaco di Latina, Enrico Tiero, i consiglieri municipali di Roma Jessica De Napoli e Stefano Erbaggi, e l’ex parlamentare europeo Roberta Angelilli, con un passato in Azione Giovani prima e Alleanza Nazionale poi. In Campania c’è invece il terzetto composto da Francesco Ranieri, sindaco di Terzigno (Napoli), scelto come responsabile regionale, Pietro Diodato (membro della direzione nazionale di Ncd) e Alessandro Sansoni. Molti anche gli aderenti in Sardegna: la consigliera comunale di Alghero, Maria Grazia Salaris, più l’ex coordinatore provinciale del Nuovo Centrodestra Walter AneddaGianfranco Picciau, anch’egli membro della direzione nazionale di Ncd. Il consigliere comunale di Pisa, Raffaele LatrofaRoberto Ferraro e Alberto Magnolfi rappresentano invece la Toscana. In Friuli-Venezia Giulia figura il nome del consigliere comunale di Gorizia, Ciro Del Pizzo, mentre a breve anche Paolo Rovis, consigliere comunale di Trieste, dovrebbe sciogliere la riserva e aderire. In Abruzzo, oltre al consigliere regionale Mauro Di Dalmazio, c’è pure l’ex presidente della Regione, Gianni Chiodi. Il quale, pur rimanendo comunque in Forza Italia, ha deciso di entrare far parte di Idea sfruttando il principio vigente all’interno del movimento: la possibilità del doppio tesseramento. Discretamente qualificata la truppa degli aderenti anche in Marche, Lombardia, Veneto, Piemonte e Liguria con, rispettivamente, Vittoriano Solazzi (ex presidente del consiglio regionale), Nicolò Mardegan (ex coordinatore Ncd Milano), Stefano Casali (consigliere regionale), Claudia Porchietto (consigliere regionale) e Tiziana Notarnicola, membro della direzione nazionale di Ncd, ormai prossima all’uscita dal partito insieme ad altri esponenti locali. E potrebbe non essere finita qui.

Twitter: @GiorgioVelardi

(Articolo scritto il 21 dicembre 2015 per ilfattoquotidiano.it)

Conflitto d’interessi, tra vantaggi patrimoniali, astensioni e blind trust: cosa c’è nella bozza della Camera

venerdì, dicembre 11th, 2015

Il Comitato ristretto in commissione Affari costituzionali ha approvato un testo base firmato da Sanna (Pd) e Sisto (Forza Italia). Senza il voto di Sel e Movimento 5 Stelle. Ed è subito polemica. Vediamo i punti critici del provvedimento. Anche con l’apporto del costituzionalista Pertici. Il presidente Mazziotti: “Testo migliorabile, l’importante era iniziarne l’esame”

camera675Non è ancora nemmeno iniziato l’esame in commissione che già divampano le polemiche. Da una parte gli autori del provvedimento, Francesco Sanna (Pd) e Francesco Paolo Sisto (Forza Italia). Dall’altra Sel e Movimento 5 Stelle. Stiamo parlando della “nuova” bozza della legge sul conflitto di interessi, il cui testo base è stato approvato ieri dal Comitato ristretto in commissione Affari costituzionali alla Camera e dal quale, rispetto alla prima versione, è scomparso il comma 2 all’articolo 4 che riguardava i conflitti non patrimoniali. Circostanza che ha scatenato le proteste delle forze di opposizione, che non hanno partecipato al voto. Anche perché scontente di altri aspetti importanti della normativa. “Il Comitato ristretto, che Sel e M5S avrebbero voluto sciogliere, è riuscito, anche se tra molti distinguo, a produrre un testo condiviso che sarà emendato e migliorato come è giusto che sia – commenta il presidente della commissione Affari costituzionali Andrea Mazziotti (Scelta civica) –. A questo punto la cosa più importante era sbloccare il testo e consentirne l’esame”. Ma cosa prevede davvero questa bozza? Cosa cambia rispetto alla legge Frattini, varata nel 2004 dal secondo governo Berlusconi e in seguito bocciata dal Consiglio d’Europa?

DICHIARAZIONI OBBLIGATORIE – La proposta di Sanna e Sisto cerca di fare dei passi in avanti nel risolvere l’annosa questione. Pur non senza diverse criticità. La futura legge si applicherà ai titolari di cariche di governo nazionali, dal presidente del Consiglio ai ministri, vice, sottosegretari e commissari straordinari nominati dall’esecutivo. Ma anche ai titolari di cariche di governo regionali (a cominciare dai presidenti), ai parlamentari e ai consiglieri regionali. A vigilare sull’attuazione della legge sarà l’Antitrust. Ma non è tutto. Per i due proponenti di Pd e Forza Italia, stavolta “sussiste conflitto di interessi in tutti i casi in cui il titolare di una carica di governo” sia, allo stesso tempo, “titolare di un interesse economico privato tale da condizionare l’esercizio delle funzioni pubbliche ad esso attribuite o da alterare le regole di mercato relative alla libera concorrenza”. Per questo, entro venti giorni dalla nomina, i titolari di cariche di governo nazionali devono obbligatoriamente presentare una serie di dichiarazioni: da quella delle cariche di cui sono eventualmente titolari a quella dei redditi. Compresa anche quella riguardante “la possibile esistenza di un’interferenza tra un interesse pubblico e un interesse pubblico o privato tale da influenzare – dice il testo – l’esercizio obiettivo, indipendente o imparziale di funzioni pubbliche, anche in assenza di uno specifico vantaggio economicamente rilevante”. Dichiarazioni che “sono rese anche dal coniuge non legalmente separato e dai parenti e affini entro il secondo grado del titolare della carica di governo nazionale o comunque dalla persona con lui stabilmente convivente non a scopo di lavoro domestico”. E che andranno presentate anche al termine del mandato, pena una sanzione amministrativa che varia da 5 mila a 35 mila euro.

OCCHIO AL BLIND TRUST – Ma, come detto, non mancano gli aspetti più controversi, che saranno oggetto di un’accesa discussione parlamentare. Come quello sul cosiddetto blind trust, cioè l’affidamento dei beni che compongono il patrimonio di un soggetto al fine di evitare proprio situazioni di conflitto di interessi patrimoniale. Vale a dire tutti i casi nei quali il titolare della carica di governo nazionale possiede, anche per interposta persona o tramite società fiduciariepartecipazioni nei settori della difesa, dell’energia, eccetera. Oppure quando queste siano tali da condizionare l’esercizio delle sue funzioni pubbliche alterando le regole di mercato. Quando rilevi una forma di conflitto di interesse patrimoniale, l’Antitrust potrà affidare le attività ad una gestione fiduciaria. Il gestore sarà scelto “tra banche, società di gestione del risparmio e società di intermediazione mobiliare”, è scritto nel testo, e sarà “tenuto ad amministrare i beni e le attività patrimoniali conferiti con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle sue specifiche competenze, apprestando altresì a tal fine, salvo diverso accordo tra le parti, idonee garanzie assicurative”. Secondo Andrea Pertici, professore di diritto costituzionale all’Università di Pisa, che ha letto il testo, quello del conflitto di natura patrimoniale è “il problema principale” della proposta di Sanna e Sisto. Il motivo? “Il ricorso alla gestione fiduciaria non esclude la conoscibilità dei propri interessi da parte del titolare – risponde –. La caratteristica principale del blind trust, utilizzato negli Stati Uniti in queste situazioni, è invece quella per cui i beni vengono trasformati dalla persona alla quale sono affidati e reinvestiti senza che il titolare ne venga a conoscenza, proprio per evitare che nell’esercizio delle sue funzioni pubbliche possa favorire i propri interessi privati, agendo in conflitti di interessi”. In questo caso, invece, “il possessore saprà dove sono i suoi averi, quindi nella propria attività pubblica e al momento di prendere decisioni rischierà di essere influenzato da questo aspetto specifico”. Con un unico distinguo. “Il testo dice che ‘qualora non vi siano altre misure possibili per evitare il conflitto di interessi, l’Autorità può disporre che il titolare della carica di governo proceda alla vendita dei beni e delle attività patrimoniali rilevanti’. Ma si tratta di un caso indicato come eccezionale e che rimane molto indefinito – conclude il docente –. Probabilmente la sua applicazione sarà assai controversa e, anche per questo, limitatissima”.

ASTENERSI PER FAVORE – Ma sorge spontanea un’altra domanda: cosa accadrebbe nel caso in cui uno dei titolari di cariche pubbliche dovesse trovarsi a prendere decisioni tali da provocare un indebito vantaggio a sé o a persone a lui strettamente vicine? Leggendo il testo verrebbe da rispondere: niente. O quasi. “L’Autorità (…), se rileva che il titolare di una carica di governo nazionale, nell’esercizio delle funzioni pubbliche ad esso attribuite, può prendere decisioni, adottare atti o partecipare a deliberazioni che, pur destinati alla generalità o a intere categorie di soggetti, sono tali da produrre, nel patrimonio dello stesso o di uno dei soggetti di cui al comma 5 dell’articolo 5 (cioè il coniuge non legalmente separato più i parenti e affini entro il secondo grado, ndr), un vantaggio economicamente rilevante e differenziato, ancorché non esclusivo, rispetto a quello della generalità dei destinatari del provvedimento – è scritto nel testo –informa il medesimo soggetto della rilevata ricorrenza, nei suoi confronti, dell’obbligo di astensione”. E anche in caso di violazione di tale obbligo non sembra succedere granché. Perché se “il titolare di una carica di governo nazionale prende una decisione, adotta un atto, partecipa a una deliberazione o omette di adottare un atto dovuto, conseguendo per sé o per uno dei soggetti di cui al comma 5 dell’articolo 5 un vantaggio economicamente rilevante e differenziato rispetto a quello conseguito dalla generalità dei destinatari, ovvero un vantaggio economicamente rilevante e incidente su una categoria ristretta di destinatari della quale il medesimo fa parte, salvo che il fatto costituisca reato, l’Autorità applica una sanzione amministrativa pecuniaria non inferiore al doppio e non superiore al quadruplo del vantaggio patrimoniale effettivamente conseguito dai soggetti interessati”.

Twitter: @GiorgioVelardi

(Articolo scritto l’11 dicembre 2015 per ilfattoquotidiano.it)