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Pd, che fine ha fatto? I fondatori delusi: “Tradite idee della base, non era questo il progetto iniziale”

giovedì, dicembre 10th, 2015

Lo sostiene l’ex ministro degli Interni Rosa Russo Iervolino. Ma allo stesso modo la pensa anche il senatore Maurizio Migliavacca. A otto anni dalla nascita, ilfattoquotidiano.it è andato a sentire le opinioni di alcuni di coloro che parteciparono alla creazione del Partito democratico. Da Follini a Finocchiaro, da Pollastrini a Lanzillotta. Ricavandone un quadro molto critico

assemblea-costituente-pd675C’è chi parla di “un Partito democratico diventato di destra con una scelta di campo precisa”. Chi sottolinea il “tradimento delle idee della base e l’assenza di democrazia interna”. E ancora chi, con toni meno polemici ma comunque fermi, chiede “un maggior radicamento sul territorio per evitare di mobilitare il partito solo nei periodi elettorali”. Il senso, però, è quello di un Pd che non ha rispecchiato il sogno di molti. Non solo delle nuove generazioni di parlamentari nati e cresciuti all’ombra del renzismo, come Matteo Richetti, che ha recentemente parlato di “un partito senza identità” che “non è più di nessuno”. Ma soprattutto dei suoi fondatori. Dopo la sortita di Franco Monaco e la risposta di Arturo Parisi, ilfattoquotidiano.it ha interpellato alcuni esponenti di spicco dei democratici che otto anni fa, a vario titolo, hanno lavorato alla nascita del partito. Ricavandone un quadro molto critico. Tanto che alcuni di loro, come Sergio Cofferati e Marco Follini tra gli altri, hanno addirittura preferito intraprendere altre strade.

ALTO TRADIMENTO – In prima linea nell’accusare il partito di uno spostamento a destra c’è la vecchia guardia. L’ex sindaco di Napoli, Rosa Russo Iervolino, per esempio, esprime un giudizio tranchant: “Il Pd non rispecchia il progetto iniziale. Avrebbe dovuto unire le culture riformiste, laiche e cattoliche con principi semplici alla base: democrazia, giustizia sociale e solidarietà. Ma oggi – prosegue l’ex primo cittadino partenopeo ed ex ministro degli Interni – la democrazia nel partito è scarna, quasi inesistente”. Le colpe, secondo Iervolino, sono in gran parte di Matteo Renzi. Autore, a suo dire, di “politiche che sono di destra, in particolare sul tema dei diritti sociali”. Insomma “il cambiamento è avvenuto sia nel contenuto politico che nei metodi. Il nostro patrimonio si è disperso negli anni – conclude – ma la situazione è precipitata negli ultimi tempi”. L’europarlamentare Sergio Cofferati, ex segretario generale della Cgil, non è più tenero nel giudizio. Tanto che, come noto, ha preferito lasciare il partito dopo le primarie in Liguria, perse con l’ombra dei brogli. “Il Pd non fa più riferimento ai valori ai quali dovrebbe ispirarsi”, cioè “quelli che riguardano i diritti delle persone e del lavoro”. Certo, non tutte le colpe sembrano essere dell’attuale segretario-premier, perché “qualche problema c’era stato anche prima della segreteria di Renzi, ad esempio con il governo Monti”, osserva Cofferati. “In quella fase il Pd ha deviato dalla sua strada proprio sui diritti, ma erano deviazioni giustificate dal carattere temporaneo del governo. Con Renzi questi cambiamenti sono stati strutturali – chiosa l’ex sindacalista –. Ora sono la linea ufficiale del Pd”. “Non è certamente questo il Pd che avevamo immaginato durante l’atto di nascita”, dice sulla stessa lunghezza d’onda il senatore Maurizio Migliavacca, che per quattro anni (dal 2009 al 2013) ha ricoperto il ruolo di coordinatore organizzativo del partito. “Io e gli altri fondatori avevamo pensato una forza politica saldamente ancorata all’alveo del centrosinistra, una forza che camminasse su due gambe: gli elettori e gli iscritti”. Un disegno tradito. “Mentre il numero dei primi, se pur con risultati altalenanti, tutto sommato tiene, gli iscritti diminuiscono a vista d’occhio – spiega Migliavacca –. Un segnale certamente non positivo”.

TOCCO DI CLASSE – Anche per un altro dei fondatori, Marco Follini (uscito nel 2013), “la premessa iniziale con la quale è nato il Partito democratico è venuta meno perché nel frattempo è cambiato il Paese”. Si tratta, insomma, di “un percorso incompiuto al quale è impossibile oggi come oggi dare un voto”, dice l’ex segretario dell’Udc. Secondo cui è necessario aprire un dibattito per capire “qual è l’idea di Italia che si intende mettere in campo: la direzione che il partito deve intraprendere ne è solo la conseguenza”. Anche perché “il Pd aveva fra i suoi obiettivi quello di accorciare le distanze – spiega Follini –. Mi riferisco in particolar modo a quelle riguardanti il divario dei redditi e l’altro fra Nord e Sud. Obiettivi di questa portata richiedono, adesso, qualcosa di più di un ragionamento di partito: “Bisogna dare vita ad una nuova fase costituente nella quale domandarsi, per esempio, se la politica è essenzialmente scelta di un leader, e allora le primarie sono un must, oppure se deve tornare ad essere, come io credo, un confronto di idee. È solo su questo sfondo – aggiunge – che si può affrontare il tema della natura del Pd, partito del socialismo europeo oppure partito della Nazione sul modello centrista”. In definitiva, quindi, per Follini “il consenso deve fare riferimento a un’idea”, altrimenti non si va da nessuna parte. Problemi evidenti, insomma. Testimoniati anche dalle parole della senatrice Anna Finocchiaro, oggi presidente della commissione Affari costituzionali di Palazzo Madama: “Dobbiamo investire molto di più nel radicamento sul territorio, non bisogna mobilitarsi solo nei periodi elettorali. Un altro compito – aggiunge – è quello di fare formazione delle classi dirigenti, un nostro tallone d’Achille. Tuttavia, penso che sulla linea politica stiamo sviluppando l’idea originaria del partito, anche andando controcorrente. Mi riferisco in particolare al diritto di cittadinanza e alle politiche sull’immigrazione”. Per Finocchiaro, comunque, serve una “maggiore ambizione”. Perché, conclude, “bisogna sempre alzare l’asticella degli obiettivi da raggiungere”.

DITTA IN PERDITA – La senatrice Linda Lanzillotta, anche lei tra le fondatrici del Pd, ha avuto invece un percorso accidentato, essendo uscita dal partito nel 2009 con l’adesione all’Alleanza per l’Italia (Api) di Francesco Rutelli. A Palazzo Madama, nel 2013, è stata poi eletta nelle liste di Scelta Civica, prima di tornare alla base nel febbraio 2015. Nuotando controcorrente, a suo modo di vedere il problema del Pd non è stato rappresentato tanto da Matteo Renzi quanto dal suo predecessore: Pier Luigi Bersani. “Il Pd doveva essere a vocazione maggioritaria, come spiegò Walter Veltroni nel discorso del Lingotto. Questa concezione è stata tradita con la segreteria di Bersani, quando prevaleva il principio della ‘Ditta’”, ragiona Lanzillotta. E ora, invece? “Renzi ripropone lo stesso progetto iniziale – risponde –. Si sta ponendo di nuovo gli obiettivi previsti alla fondazione. In questo senso il Pd sta ripercorrendo la rotta interrotta con Bersani”. “Se c’è una continuità con il Partito democratico nato otto anni fa? In molti fanno fatica a vederla”, risponde Marina Magistrelli, senatrice per tre legislature e vicina all’ex premier, Romano Prodi. “Il nostro motto, ‘uniti per unire’, in buona parte si è perso”, spiega. Aggiungendo che “la colpa non è solo di Renzi, che pure deve assolutamente evitare la deriva del partito della Nazione, la quale rimetterebbe in discussione l’essenza stessa del Pd” e che “in tanti non capirebbero né gradirebbero”. Ma di errori, per Magistrelli, ne hanno commessi tutti. Compreso l’ex segretario. “Ho creduto in Bersani e l’ho appoggiato, ma nell’ultima fase della campagna elettorale in vista delle elezioni del 2013 ha commesso diversi errori che hanno indebolito la spinta elettorale del partito, dice. Ecco perché ora “serve aprire una seria discussione politico-programmatica per capire che cosa vuole davvero diventare il Pd”.

RIPIANTIAMO L’ULIVO – Ma non è tutto. Perché c’è anche chi sogna un partito di respiro maggiormente internazionale. Come Barbara Pollastrini, ex ministro per le Pari opportunità del secondo governo Prodi, anche lei tra le fondatrici del Pd. Secondo la quale “quello di oggi assomiglia ma non è il Partito democratico che avevamo sognato e che vorrei”. Anche in Europa. Dove, dice la deputata dem, “bisognerebbe, nell’alveo del Pse, dialogare e contaminarsi con altre esperienze come Syriza e Podemos. Magari recuperando lo spirito dell’Ulivo e mettendo da parte una logica di autosufficienza”. Anche per Pollastrini, insomma, quella del Pd è ad oggi una “scommessa riuscita a metà” e da “immaginare nuovamente”. Un partito che però “deve essere saldamente ancorato alla sinistra e al centrosinistra, senza strizzare troppo l’occhio ad un centrismo da ancien règime. Una forza che guardi alle periferie e recuperi un uso sobrio del potere, che stia dalla parte degli svantaggiati. Se si pensa che l’obiettivo sia solo vincere e stare comunque al governo – conclude – si smarrisce l’anima del progetto iniziale”.

(Articolo scritto con Stefano Iannaccone il 9 dicembre 2015 per ilfattoquotidiano.it)

Primarie Pd, parla Parisi: “C’è il rischio di trasformarle nella conferma pubblica di decisioni prese in privato”

domenica, novembre 29th, 2015

L’ex ministro della Difesa critico nei confronti di Renzi. “Bisogna mettere fine alle voci sulla loro possibile eliminazione”. Marino e Bassolino candidati? “Devono decidere i cittadini”. Il co-fondatore del Pd contrario al partito della Nazione: “La sua formazione metterebbe a rischio la democrazia”

parisi675C’è “il tentativo ripetuto di fare le primarie ma anche di non farle, trasformandole nella conferma pubblica di una decisione già presa in privato”. E ancora: “Un cambiamento ad hoc delle regole dimostrerebbe che i nuovi riescono a vincere solo con i vecchi trucchi”. Arturo Parisi, ex ministro della Difesa del secondo governo Prodi ma, soprattutto, tra i fondatori del Partito democratico (Pd), commenta così, ailfattoquotidiano.it, le voci che negli ultimi giorni si sono susseguite a proposito della possibilità, da parte della segreteria dem, di vietare a Ignazio Marino (Roma) e Antonio Bassolino(Napoli) di candidarsi alle primarie del centrosinistra in vista delle comunali del 2016. “Il giudizio finale spetta ai cittadini – aggiunge –. Nella mia idea di democrazia chi ha qualcosa da dire deve dirla senza chiedere il permesso né accettare divieti”.

Professore, nonostante le smentite di rito c’è stato un momento nel quale si è pensato che alle primarie di coalizione del centrosinistra a Napoli avrebbe potuto partecipare anche Ncd. Lei, “padre” proprio delle primarie in Italia, se lo sarebbe mai aspettato?
Non è una novità. Quanto è accaduto porta ad evidenziare un’interpretazione distorta della democrazia maggioritaria. L’idea è che, pur di vincere, si possa mettere insieme tutto e il contrario di tutto, dimenticando che la democrazia stessa ha come fine il governo e non la semplice vittoria elettorale. Peraltro, fu questa l’accusa che fin dall’inizio proprio noi rivolgemmo a Berlusconi, alle sue coalizioni improvvisate solo grazie ai suoi mezzi e ai suoi media. E allo stesso tempo fu questo il fondamento di quella scommessa che chiamammo Ulivo.

Ma allora che cosa bisognerebbe fare?
A livello locale, dove la competizione è ancora fra coalizioni, c’è la necessità di mettere in campo un’alternativa migliore, formata da più partiti, capace non solo di vincere ma di governare. Costruita attraverso una lunga fatica alla luce del sole. Basata su un programma comune e addirittura sul progetto di un’Italia diversa. Un progetto che tenga nel tempo.

“Un progetto comune”, dice lei. Ma recentemente la vice segretaria dem Debora Serracchiani ha ipotizzato il varo di una norma interna al Pd per escludere dalle primarie Ignazio Marino e Antonio Bassolino. Poi c’è stato il dietrofront. Un bel pasticcio…
Mi sembra che pasticcio sia la parola esatta. Spero veramente che il tempo della moratoria proposta da Renzi serva a una riflessione, e non solo a un rinvio del problema.

Sentendola parlare pare di capire che il meccanismo si sia inceppato. Sbaglio?
La verità è che i nodi, annodati di volta in volta, hanno una sola origine: il tentativo ripetuto, non solo la tentazione, di fare le primarie ma anche di non farle, trasformandole nella conferma pubblica di una decisione già presa in privato.

Le sue sono parole forti. Anche perché più volte si è vociferato proprio sul fatto che Renzi non sia così propenso a continuare a farle. Ma allora le primarie andrebbero eliminate del tutto o, al contrario, regolate per legge?
La seconda è una meta che non possiamo smettere di perseguire, ma che tuttavia è ancora lontana. Quanto all’eliminazione, potrei dire: ci provino.

Addirittura?
Mi accontenterei che almeno Renzi e il Pd, che delle primarie sono figli e padri, mettessero fine a questa voce che gira da molti mesi. Troppi per un partito che delle primarie ha fatto il suo mito fondativo. E troppi per un leader che più di ogni altro, proprio alle primarie deve tutto intero il suo percorso politico. È per questo che continuo a non credere a queste voci.

Non sarà che il segretario-premier ha paura che, a Napoli, un’eventuale vittoria di Bassolino metterebbe la parola “fine” sulla rottamazione? Con De Luca è successa la stessa cosa…
Diciamo più che altro che andrebbe incontro ad una battuta d’arresto se la rottamazione fosse solo un nuovo nome per definire la banale necessità di avvicendamento tra leve del personale politico. Sarebbe invece una vera sconfitta se la rottamazione fosse un cambiamento non tanto dei politici ma delle forme politiche. Un cambiamento ad hoc delle regole dimostrerebbe che i nuovi riescono a vincere solo con i vecchi trucchi.

A proposito dell’ex sindaco del capoluogo campano: farebbe comunque bene a candidarsi?
Se ha alzato la mano, vuol dire che pensa di avere per il futuro di Napoli una proposta che altri non hanno ancora avanzato. Ora se questi altri ci sono è il momento che parlino: poi il giudizio finale spetta ai cittadini.

Capitolo Ignazio Marino: per lei dovrebbe presentarsi alle primarie del centrosinistra a Roma?
Questa è una domanda che solo Marino può rivolgere alla sua coscienza. Nella mia idea di democrazia chi ha qualcosa da dire deve dirla senza chiedere il permesso né accettare divieti.

Detto ciò, come giudica il modo in cui lo stesso Marino è stato fatto decadere da sindaco della Capitale proprio per mano del Pd?
È un episodio che vorrei dimenticare. Una gara a chi sbaglia di più. Come dicono a Bologna: una gara dura. Vinta purtroppo da Marino, anche se con l’aiuto di troppi.

Oggi, con una lettera al “Fatto”, Franco Monaco la chiama in causa e scrive di una “manifesta deriva centrista del Pd”. Si parla molto, negli ultimi mesi, di “partito della Nazione”. È in quella direzione che sta andando il Partito democratico?
A parte il fatto che la deriva centrista richiederebbe un discorso più lungo, sul “partito della Nazione” Monaco e tutti gli altri che, a cominciare da Veltroni, hanno levato la loro voce, hanno ragioni da vendere. All’inizio l’avevo intesa come l’ambizione del partito di rivolgere la propria proposta a tutti i cittadini, certo senza alcuna distinzione pregiudiziale.

E invece?
Pur preferendo per la nostra parte, nel caso, la definizione di “partito della Repubblica”, nella mia idea di politica una democrazia che non dispone di almeno due partiti della Nazione, cioè due forze in contrapposizione fra loro, è una democrazia a rischio. Il passaggio da un unico partito della Nazione al partito unico della Nazione è sempre in agguato: il modo con il quale la formula è stata finora declinata nella comunicazione e nella prassi, a questo punto, la rende indifendibile. Prima viene abbandonata e meglio è.

Sempre Monaco aggiunge che “tra il ‘nome’ Pd e la ‘cosa’ da noi intensamente voluta si è aperto un fossato che mi pare incolmabile”. È davvero così?
È una denuncia che Monaco va ormai sporgendo da tempo e in molti punti è fondata. Diverso è invece il mio giudizio sulla proposta politica che da questa denuncia Monaco fa derivare, una proposta che avevo considerato finora una provocazione appassionata, ma che sento ora invece come un progetto politico.

Che tipo di progetto politico?
L’idea di una separazione consensuale e amichevole del Pd tra centro e sinistra per poi ritrovarsi in un centro-sinistra di nuovo separato da un bel trattino.

Considera anche lei inevitabile una scissione?
Quella che non vedo è una scissione consensuale. O fuori o dentro.

E allora come dar seguito al disagio di Monaco verso quello che lui definisce un “fossato incolmabile”?
Per chi, dentro il Pd, non è contento di come vanno le cose, cioè della linea che legittimamente Monaco contesta, non vedo alternative ad una battaglia interna. La quale, muovendo da una opposizione nitida e riconoscibile, punti alla conquista della guida del partito e, grazie alla difesa delle primarie, alla guida dell’intero campo di centrosinistra.

Twitter: @GiorgioVelardi

(Articolo scritto il 28 novembre 2015 per ilfattoquotidiano.it)