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Vacciano prigioniero politico. Il Senato non lo libera più

aprile 21st, 2017 by mercantenotizie

Vacciano_FacebookSui social network qualcuno gli ha addirittura suggerito di iniziare lo sciopero della fame. “Ci sono motivi più seri per farlo e mi sembrerebbe persino offensivo nei confronti di persone che sono veramente in difficoltà”, mette subito in chiaro Giuseppe Vacciano, il senatore ex Movimento 5 Stelle (oggi nel Gruppo Misto) che ieri si è visto respingere per la quinta volta la richiesta di dimissioni dall’Aula di Palazzo Madama (90 voti a favore, 129 contrari e 7 astenuti). Però l’umore non è certo dei migliori. “Come mi sento? Non so se sono più demoralizzato o depresso”, risponde senza troppi giri di parole. Di fatto, sono due anni che il Senato lo tiene prigioniero. La prima volta che Vacciano ha provato a dimettersi era il 17 febbraio 2015. Sembrava una formalità, in un Paese in cui mediamente non si dimette nessuno. E invece l’Aula votò contro. Così come ha fatto pure il 16 settembre dello stesso anno e poi ancora il 13 luglio 2016, il 25 gennaio 2017 e infine ventiquattrore fa.

“Il ‘fronte del no’ alle mie dimissioni è trasversale – rivela il parlamentare campano –. C’è una parte del Pd, una di Forza Italia… Ho spiegato a tutti il perché del mio passo indietro, e l’essere passati da una quarantina a 90 sì è già qualcosa, anche se, com’è ovvio, non è sufficiente”. Chiaro che dietro a questo vero e proprio “accanimento” vi sia un calcolo politico. L’uscita di Vacciano rafforzerebbe infatti la pattuglia grillina in un’Aula in cui per la maggioranza i numeri sono ballerini. Col rischio però di far entrare Vacciano nel guinness dei primati in quanto a dimissioni rifiutate. “Non era mia intenzione entrare nel libro dei record parlamentari”, scherza per un attimo l’interessato prima di tornare serio: “Ho scritto cinque lettere e una trentina di solleciti, ho fatto discorsi pubblici e privati però, evidentemente, il mio atto politico risulta tutt’ora meno credibile di quello di Minzolini – dice –. Quel che è certo è che al Senato la logica non è di casa…”. Paradosso nel paradosso, pur avendo lasciato i 5 Stelle (“non condividevo più la linea di Grillo e Casaleggio e poi ho sempre detto che quella poltrona appartiene alla lista e non a me”) il senatore continua a seguirne seriosamente i dettami. Tanto da restituire la quasi totalità dello stipendio.

“Sono un dipendente della Banca d’Italia in aspettativa retribuita”, ricorda Vacciano, “perciò tranne il rimborso per le spese dei collaboratori dò mediamente indietro tremila euro al mese. Una volta sono arrivato a restituirne anche ottomila o diecimila”. Nonostante le battaglie perse finora, Vacciano questa guerra è comunque intenzionato a vincerla. Scontata, quindi, la decisione di ripresentare la richiesta di dimissioni. “Lascerò passare qualche giorno ma stavolta – conclude – nella lettera che l’accompagnerà mi toglierò qualche sassolino dalle scarpe”. Insomma, “fosse anche solo un giorno prima della fine della legislatura, io dal Senato voglio dimettermi”. A questo punto, non resta che dire: in bocca al lupo.

Twitter: @GiorgioVelardi

Articolo scritto il 20 aprile 2017 per La Notizia

Fake news mai per caso. Inventarle rende bene

aprile 18th, 2017 by mercantenotizie

FakeNewsC’è chi, pensate, è riuscito a guadagnare anche 10mila dollari al mese con una “bufala” sul web. Sì, avete letto bene: 10mila dollari. Una cifra che magari un comune lavoratore porta a casa in un anno. Quello delle panzane online, infatti, non è solo un gioco, un passatempo per adolescenti che non sanno come occupare il loro tempo libero. Anche se la percezione dei più resta questa. Molto spesso, dietro ai siti o alle pagine social che spargono “veleno” in rete – la fake news sulla sorella della presidente della Camera Laura Boldrini è solo l’ultimo caso – c’è un vero e proprio business. Che coinvolge, spesso loro malgrado (spesso no), anche le società che si occupano della raccolta pubblicitaria. “Fare una stima di quanto valga questo ‘mercato’ sia a livello nazionale sia mondiale è ancora difficile”, spiega a La Notizia Paolo Attivissimo, giornalista e consulente informatico ma, soprattutto, ‘cacciatore di bufale’ sul web. Però “ci sono aziende che arrivano a guadagnare decine di migliaia di euro al mese con dei costi di gestione assolutamente risibili”. Di fatto “è tutto profitto”.

Proprio così. La dimostrazione plastica arriva dagli Stati Uniti, dove Paul Horner, specialista nella creazione di siti di fake news, ha recentemente rivelato al Washington Post di guadagnare, grazie a Google AdSense (il servizio di banner pubblicitari offerto da Google) 10mila dollari al mese. Soldi che Horner ha sostenuto di poter guadagnare anche in sole 24 ore se una “bufala” diventa virale.

Soldi-soldi-soldi – Non solo. Durante l’ultima campagna elettorale americana un gruppo di adolescenti macedoni ha dato vita a un centinaio di siti fittizi a sostegno di Donald Trump. Che siano risultati decisivi ai fini del risultato finale? Difficile da dire. Quel che è certo è che l’operazione ha permesso loro di guadagnare qualcosa come 5mila dollari al mese. Mica male. “Il meccanismo per fare profitto è quello delle inserzioni pubblicitarie ma spesso – chiarisce Attivissimo – le agenzie non sanno precisamente dove verranno pubblicati gli annunci. Un caso emblematico è quello di Breitbart News, un sito di estrema destra razzista e sessista tanto caro a Trump, che con questo sistema riesce ad incassare parecchi soldi pubblicando la réclame di grandi marchi i quali però sono all’oscuro di tutto”. E le agenzie pubblicitarie? “Traggono un profitto portando a casa una commissione”. Il più classico dei circoli viziosi, insomma. Anche in Italia il numero di siti di fake news e relative pagine social (soprattutto su Facebook) è in costante ascesa. A metà dicembre scorso uno di questi, LiberoGiornale.com (crasi fra due testate conosciute, Libero e Il Giornale, che nulla hanno a che vedere col portale in questione), è stato chiuso dopo aver pubblicato una notizia falsa sul premier Gentiloni che invitava gli italiani a fare sacrifici e a non lamentarsi.

Virilità e viralità – Un altro, Senzacensura.eu, è stato oscurato circa due anni fa. Il curatore, un adolescente molisano, spiegò al sito de L’Espresso di “viaggiare” sulle 500mila visualizzazioni al mese. I contenuti pubblicati erano fake news sugli immigrati. “Ogni mille visite guadagnavo due euro”, spiegò l’interessato: “Perché pubblicavo notizie infondate? Come gli uomini cercano la virilità, io inseguivo la viralità. Mi costruivo da solo i miei scoop. E provavo a guadagnarmi in questo modo qualche euro”. Nessuna impronta politica o razziale, insomma. “Molti di coloro che si sono ‘buttati’ in questo settore – conclude Attivissimo – sono assolutamente neutrali, non hanno un programma politico o quant’altro. È semplicemente un’idea imprenditoriale che definirei cinica, perché non si prendono minimamente in considerazione le conseguenze che la diffusione di certe ‘notizie’ possono avere”. 

Twitter: @GiorgioVelardi

Articolo scritto il 15 aprile 2017 per La Notizia

Tutti vogliono trasparenza. Ma la legge sui partiti è ferma

aprile 13th, 2017 by mercantenotizie

Camera-Montecitorio-e1489039645650Tutti la vogliono (o quasi). Ma alla fine, per sapere che fine ha fatto la tanto agognata legge sui partiti, rischiamo di dover chiamare Chi l’ha visto? Provvedimento che torna d’attualità ogni qual volta c’è un caso che coinvolge il M5S. L’ultimo proprio due giorni fa, quando a Genova il tribunale civile ha accolto il ricorso presentato da Marika Cassimatis, vincitrice delle ‘comunarie’ poi “scomunicata” da Beppe Grillo. Ma poi tutto finisce sempre in una bolla di sapone. Eppure quando l’8 giugno 2016 l’Aula di Montecitorio ha dato il via libera alla legge in prima lettura (relatore Matteo Richetti del Pd) tutti pensavano ad un’approvazione rapida anche da parte dell’altro ramo del Parlamento.

Andamento lento – Dal partito dell’allora segretario-premier Matteo Renzi arrivarono commenti tonitruanti. “Finalmente – dichiarò la vicepresidente della Camera Marina Sereni – una normativa che interviene per regolare la vita interna dei partiti, dando così piena attuazione all’articolo 49 della Carta costituzionale. Una legge non troppo invasiva, rispettosa dell’autonomia delle singole forze politiche, ma che al tempo stesso introduce regole molto importanti per garantire trasparenza e partecipazione democratica”. Tutto molto bello, almeno a parole. E invece? Il testo è arenato nelle secche della commissione Affari costituzionali di Palazzo Madama. Dove, spiega a La Notizia un senatore di opposizione, non sono stati neppure fissati i termini per la presentazione degli emendamenti. Tradotto: è molto probabile che anche questo provvedimento rimarrà un’altra delle incompiute di questa legislatura. Insieme, tanto per dirne una, a quello sul conflitto d’interessi, bloccato sine die sempre in prima commissione al Senato.

Che pasticcio – “È una situazione grave”, dice senza mezzi termini il presidente della commissione Affari costituzionali della Camera, Andrea Mazziotti (Civici e Innovatori). “Se c’è una legge di cui si sta vedendo la necessità è proprio questa. Fra l’altro – aggiunge – il provvedimento lascia massima libertà ai partiti ma li incentiva ad adottare regole statutarie chiare, e non pasticciate o sparse in mille documenti come quelle del M5S. Che questa legge non sia andata avanti, lasciando la determinazione delle regole alla magistratura, com’è accaduto a Genova, è uno sbaglio della politica. Mi auguro che ci sia un’accelerazione e che si arrivi al traguardo”. La speranza, si sa, è l’ultima a morire.

Twitter: @GiorgioVelardi

 Articolo scritto il 12 aprile 2017 per La Notizia

Forza Italia le prova tutte: ora è caccia al 2X1000

aprile 12th, 2017 by mercantenotizie

Silvio_Berlusconi_PortraitCi risiamo. Come se non bastassero le due già ricevute nelle scorse settimane (leggi qui e qui), venerdì 7 aprile parlamentari e responsabili territoriali di Forza Italia si sono visti recapitare una terza lettera. Stavolta in calce non c’è solo la firma del tesoriere Alfredo Messina, ma anche quella del responsabile nazionale dell’organizzazione, Gregorio Fontana (uno dei tre deputati questori della Camera). L’oggetto? “Destinazione 2X1000 redditi a Forza Italia”.

Breve riassunto delle puntate precedenti: complice l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti e l’alta percentuale di “morosi” che, nonostante i ripetuti solleciti e la minaccia di essere esclusi dalle liste, non hanno ancora versato quanto pattuito (800 euro al mese), FI si ritrova con un “buco” di oltre 2 milioni di euro. Non proprio briciole. Circostanza che fa aleggiare sul partito di Silvio Berlusconi lo spettro del default. Così, per cercare di limitare i danni, Messina e Fontana hanno preso carta e penna e lanciato un appello rivolto stavolta a coordinatori regionali, provinciali e delle grandi città. “Quest’anno è di estrema importanza rafforzare l’impegno sulla campagna per destinare il 2X1000 delle dichiarazioni dei redditi a Forza Italia – scrivono –. (…) Nella difficile situazione di bilancio che conoscete, si tratta di una risorsa preziosa che non possiamo assolutamente trascurare”. Ma in che modo dovranno muoversi gli interessati con militanti e simpatizzanti di FI? “Occorre contattarli uno ad uno al più presto”, chiariscono i due dirigenti forzisti, “tenendo conto del fatto che è già in corso la distribuzione ai lavoratori dipendenti del CU (la certificazione unica, ndr) 2017”. Non solo. “È indispensabile programmare tutte le iniziative di sensibilizzazione possibili”, per esempio “sensibilizzare i centri di assistenza fiscale e i professionisti che si occupano di dichiarazione dei redditi, sollecitandoli a ricordare a tutti i contribuenti che esiste questa opportunità”.

I risultati finali “saranno monitorati per provincia” e “saranno valutati direttamente dal presidente Berlusconi e dal comitato di presidenza”. Come andrà a finire? Vedremo. Nel 2016, proprio grazie al 2X1000, Forza Italia raccolse 615.761 euro. Un bel gruzzoletto, non c’è che dire, ma niente a che vedere con la cifra incassata dal Pd: 6 milioni 400 mila euro, il 50,5% della torta. Ad avercene.

Twitter: @GiorgioVelardi

Articolo scritto l’11 aprile 2017 per La Notizia

Si salda l’asse fra gli ex M5S e il Partito Pirata

aprile 10th, 2017 by mercantenotizie

piratenE se in Parlamento arrivassero i pirati? No, non è uno scherzo, ma quello che potrebbe accadere sul finire di questa convulsa legislatura. I protagonisti di questa storia sono i 5 deputati di Alternativa Libera – usciti a vario titolo dal M5S e oggi capitanati da Massimo Artini – e appunto il Partito Pirata italiano. Che sì, esiste anche nel Belpaese al grido di “tutto il potere al popolo sovrano”, malgrado non sia conosciuto come lo sono invece quelli di altri paesi (per esempio l’Islanda dove alle ultime elezioni ha raccolto il 14,5% dei voti e 10 seggi in Parlamento su 63). Nell’attesa che al dialogo aperto col sindaco di Parma Federico Pizzarotti facciano seguito i fatti, nei giorni scorsi, a Montecitorio, i deputati di Al Marco Baldassare, Samuele Segoni ed Eleonora Bechis hanno incontrato Aram Gurekian e Felice Zingarelli, membri del Partito Pirata.

Un colloquio che gli interessati hanno definito “cordiale e collaborativo”, soprattutto perché “ha consentito di individuare numerosi punti di convergenza, sia a livello di costruzione di un progetto politico alternativo sia a livello programmatico”. L’antipasto di una possibile collaborazione futura sarà la mozione sulla robotica che andrà in Aula alla Camera nelle prossime settimane. Ma non solo. È stata infatti ipotizzata anche la realizzazione di una sponda parlamentare tra le due forze su temi specifici. Quali? Brevetti farmaceutici, per esempio, ma anche economia peer to peer e reddito di esistenza. “Il Partito Pirata è uno dei nostri interlocutori visto che con loro condividiamo l’idea della democrazia diretta da realizzare con piattaforme informatiche che consentano ai cittadini di esprimersi direttamente sulle decisioni da prendere”, spiega Baldassarre a La Notizia. “Questi strumenti online – aggiunge – devono essere trasparenti, non come quello del M5S che è controllato da una società privata”.

Artini e co. hanno così raccolto l’appello recentemente lanciato da Gurekian e Zingarelli proprio ai “delusi/cacciati” dal M5S. Che, per i Pirati italiani, nient’altro è che “un’inquietante operazione di marketing politico via Web, un movimento che costruisce il consenso soffiando sul disagio e l’insoddisfazione della gente. (…) Il movimento che Grillo vi promise può ancora nascere, e di certo il vostro aiuto sarebbe molto utile”. Vedremo. 

Twitter: @GiorgioVelardi

Articolo scritto l’8 aprile 2017 per La Notizia

Caro ministro Orlando, sulla tortura siamo già al ridicolo

aprile 8th, 2017 by mercantenotizie

OrlandoDa quando si è candidato alla segreteria del Pd il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, è diventato stranamente loquace. Parla di tutto, persino della fidanzata che tanto vorrebbe ma che purtroppo non ha.

Ieri il Guardasigilli è intervenuto per commentare la decisione dell’Italia di patteggiare un risarcimento con 6 persone che le avevano fatto causa alla Corte europea dei diritti dell’uomo per le violenze subite durante il G8 di Genova nella caserma Bolzaneto. “Credo che adesso non approvare la legge che introduce il reato di tortura sarebbe una contraddizione che renderebbe addirittura ridicola la posizione dello Stato italiano”, ha spiegato Orlando. Tutto molto interessante. Se non fosse che al ridicolo ci siamo già, visto che il provvedimento si è arenato al Senato dopo il via libera della Camera ad aprile 2015. Di più: l’Italia ha ratificato la convenzione Onu contro la tortura a fine Anni ‘80, ma non si è mai dotata di una legge.

Una chiara mancanza di volontà politica. Resa ancora più evidente da tre Governi che dal 2013 a oggi hanno usato 82 volte la fiducia per blindare pure la legge elettorale. Ma per la tortura neanche a parlarne.

Twitter: @GiorgioVelardi

Articolo scritto l’8 aprile 2017 per La Notizia

Garanzia Giovani è un flop. Non solo in Italia

aprile 7th, 2017 by mercantenotizie

piano-garanzia-giovaniPoche parole. Ma chiare: “I risultati conseguiti non rispecchiano le aspettative iniziali”. A metterle nero su bianco in una relazione di 93 pagine è stata la Corte dei conti europea, che ha passato sotto la lente Garanzia Giovani, il piano Ue per la lotta alla disoccupazione giovanile partito il 1° maggio di tre anni fa. Un programma rivolto a quegli Stati con un tasso di Neet (cioè coloro che non studiano né lavorano) superiore al 25% e per il quale Bruxelles ha sborsato 6 miliardi di euro, 1,5 solo per l’Italia, nel triennio 2014/2016. Nonostante le buone intenzioni, però, le cose non hanno girato proprio per il verso giusto. E stavolta – magra consolazione – i problemi non hanno riguardato solo il Belpaese.

La bocciatura è stata pressoché totale anche per gli altri sei Paesi analizzati, cioè Portogallo, Spagna, Croazia, Francia, Slovacchia e Irlanda. Anche se l’Italia si è voluta distinguere ancora una volta classificandosi ultima in questa mini-classifica. Cosa non ha funzionato? “La Corte ha rilevato una mancanza di strategie con tappe intermedie e obiettivi chiari, per raggiungere tutti coloro che necessitano di offerte di lavoro, istruzione o formazione”, ha sintetizzato una nota.

Tris di problemi – Di fatto, ha chiarito Iliana Ivanova, membro della Corte responsabile della relazione, “al termine del primo semestre 2016, oltre 4 milioni di giovani sotto i 25 anni erano ancora disoccupati”. Ecco perché “i responsabili delle politiche dovrebbero fare in modo che i programmi volti ad aiutare i giovani non suscitino aspettative che non possono essere soddisfatte”, ha aggiunto tranchant. Più nel dettaglio, i problemi che riguardano il nostro Paese sono sostanzialmente tre. Il primo concerne i reali effetti della partecipazione al piano. “L’occupazione è la destinazione più comune per le ‘uscite positive’ in tutti gli Stati membri visitati, eccetto l’Italia, dove i tirocini rappresentano il 54% di queste – è scritto nel report –. In tutti gli altri Stati membri visitati, le uscite verso un’occupazione oscillano tra il 64% in Irlanda e il 90% in Francia”. Il secondo riguarda un fattore certamente non secondario (e collegato al primo): quello dei pagamenti. “In Italia, in tutti i casi in cui le persone incluse nel campione hanno aderito a un’offerta di tirocinio, si sono verificati ritardi significativi (di almeno due mesi) nei pagamenti – prosegue la relazione –. L’Italia ha riconosciuto che il ritardo nel pagamento costituiva un problema ricorrente nei tirocini in generale, non solo nell’ambito del campione. Per la riscossione del pagamento si è infatti registrato un ritardo medio di 64 giorni”.

Rotta sbagliata – La terza questione ha come oggetto la strategia usata dal nostro Paese per la registrazione alla Youth Guarantee. “In Italia, le autorità nazionali hanno deciso di non trasferire automaticamente al sistema della Garanzia per i giovani i soggetti rispondenti ai criteri Neet che erano già registrati come ‘disoccupati’ presso lo Spi (i servizi per l’impiego, ndr), chiedendo invece loro di riregistrarsi”, fa notare la Corte. Scelta che “ha comportato un ulteriore onere per i Neet e un tasso di registrazione molto basso”. Recentemente il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, ha parlato di “risultati positivi” raggiunti in Italia dal programma. In vista della partenza della “fase 2”, forse (forse) è il caso di rivedere qualcosa.

Twitter: @GiorgioVelardi

Articolo scritto il 6 aprile 2017 per La Notizia

I morosi non pagano: Forza Italia rischia di fallire

aprile 6th, 2017 by mercantenotizie

Berlusconi visita il comitato elettorale per Bertolaso SindacoHanno fatto orecchie da mercante. Costringendo il tesoriere del partito, Alfredo Messina, a brandire nuovamente carta e penna per scrivere una lettera dal finale infuocato. Sintetizzabile più o meno così: Forza Italia è a rischio fallimento. Tutto vero. A niente è servito l’appello lanciato il 27 gennaio scorso dal successore di Mariarosaria Rossi in un’altra missiva indirizzata a parlamentari, europarlamentari e consiglieri regionali azzurri. Nella quale, in sostanza, Messina “invitava” i “morosi” a versare entro il 28 febbraio la quota che gli eletti devono corrispondere al partito. Pena il deferimento al collegio dei probiviri e (addirittura) l’esclusione dalle prossime liste. “Siamo oramai sotto il livello di sopravvivenza”, avvertiva il tesoriere, ed “esiste un limite fisiologico al di sotto del quale la ‘macchina partito’ diventa un puro costo e non è più di nessuna utilità”. Come avranno risposto gli interessati? Si saranno premurati di saldare i debiti? Macché.

Per capire l’andazzo basta prendere infatti la seconda lettera messa nero su bianco da Messina il 31 marzo, che La Notizia ha potuto visionare. “Lo stato d’insolvenza rimane grave – ha chiarito senza mezzi termini il guardiano delle casse di FI –. Con vivo rammarico faccio presente che nel bimestre gennaio-febbraio 2017 solo il 40% dei parlamentari e il 10% dei consiglieri eletti ha finora provveduto ad erogare i corrispettivi mensili dovuti”. Più chiaro di così. Non solo. Messina ha tenuto a ricordare “come i costi di funzionamento non possano essere ulteriormente ridotti, cosicché l’unica via è quella di riequilibrare le entrate”. E allora “mi permetterete di chiedere a coloro che persistono nella posizione di parziale o di totale insolvenza”, conclude il tesoriere di FI, “se siano consapevoli che il Movimento rischia la paralisi, e se ritengano sia equo e leale che solo alcuni debbano farsi carico per tutti di tenere in vita la struttura di Forza Italia”.

Ma cosa dicono i parlamentari? L’ex ministro Gianfranco Rotondi twitta così: “Accade ora a Forza Italia quel che nell’indifferenza generale accadde al mio partito: insolvenza, zero entrate, sto pagando io a rate. Va così”. Interpellato da La Notizia, invece, un suo collega, dietro garanzia di anonimato, ci va giù durissimo: “Ormai FI non esiste come partito ma solo come ramo d’azienda di Berlusconi, quindi se la paghi lui…”. 

Twitter: @GiorgioVelardi

Articolo scritto il 5 aprile 2017 per La Notizia

Un Parlamento pieno di cespugli. Così il Gruppo Misto è diventato la quarta forza

aprile 5th, 2017 by mercantenotizie

Montecitorio-675Qualcuno li chiama cespugli, qualcun altro fronde. Ex grillini, ex leghisti, ex montiani, ex berlusconiani. Ce n’è davvero per tutti i gusti in un Parlamento che si è trasformato in una giungla e che in questa legislatura ha già fatto registrare il record di cambi di casacca: 458 fra Montecitorio (262) e Palazzo Madama (196). E potrebbe non essere finita qui. Il risultato? Alla Camera, ha calcolato Openpolis, dei 12 schieramenti esistenti solo sei (il 50%) hanno un minimo di 20 componenti, quelli previsti dall’articolo 14 del regolamento per la formazione di un gruppo.

Si tratta di Pd (238 deputati), M5S (91), Forza Italia (50), Gruppo Misto (47), Articolo 1 – Mdp e Alternativa popolare (26). Tutti gli altri esistono grazie a deroghe concesse dall’ufficio di presidenza: è il caso di Lega Nord (19 deputati), Sinistra Italiana – Possibile (17), Civici e Innovatori (16), Democrazia solidale – Centro democratico (14) e Fratelli d’Italia (11). Chiariamoci: il già citato regolamento concede all’ufficio di presidenza la facoltà di autorizzare la costituzione di un gruppo con meno di 20 iscritti a determinate condizioni.

Alla carica – Certo è che l’andazzo non è proprio dei migliori, soprattutto se si paragona quella in corso con la precedente legislatura quando a Montecitorio c’erano 8 gruppi, tutti con più di venti membri. Non è un caso che il Misto, quello che sia alla Camera sia al Senato “raccoglie” i parlamentari non iscritti a un gruppo, occupi proprio a Montecitorio la quarta posizione con appena 3 deputati in meno di FI. Ma chi c’è nel contenitore “capitanato” da Pino Pisicchio? Gli 11 “fittiani” dei Conservatori e Riformisti fra i quali Daniele Capezzone e l’ex An Massimo Corsaro, per esempio, più i tre “tosiani” di Fare!, gli ex leghisti Matteo Bragantini, Roberto Caon ed Emanuele Prataviera. Senza dimenticare gli ex 5 Stelle di Alternativa Libera (5), i 3 socialisti Carmelo Lo Monte, Pia Locatelli e Oreste Pastorelli o i 4 Udc Paola BinettiRocco ButtiglioneAngelo Cera e Giuseppe De Mita, nipote dell’“immortale” Ciriaco. Quattro sono pure i deputati della componente Idea-Usei (l’Unione sudamericana emigrati italiani): Renata BuenoVincenzo Piso, Eugenia Roccella e Guglielmo Vaccaro.

Tutti dentro – E le minoranze linguistiche? Ci sono pure quelle, capeggiate dall’altoatesino Daniel Alfreider. Undici, infine, sono i deputati non iscritti ad alcuna componente. Fra questi, pure la presidente della Camera Laura Boldrini, che il 3 marzo ha lasciato SI. Le cose vanno un tantino meglio a Palazzo Madama, dove per costituire un gruppo “bastano” 10 senatori. Sciolto quello dei “fittiani”, nessuno è sotto la soglia minima. Anche in questo caso però nel Misto c’è di tutto: dall’Idv a Insieme per l’Italia (il duo Sandro BondiManuela Repetti), da Liguria Civica (Maurizio Rossi) a Movimento X (Laura Bignami) fino ai Verdi, rappresentati da Cristina De Pietro.

Twitter: @GiorgioVelardi

Articolo scritto il 4 aprile 2017 per La Notizia

Anche Gentiloni ha la fiducite. Sulle leggi si vota e basta

aprile 3rd, 2017 by mercantenotizie

Primo_Consiglio_dei_ministri_del_governo_GentiloniPersino il chiaro atto d’accusa di Pietro Grasso è rimasto inascoltato. Decretazione d’urgenza e voti di fiducia, disse il presidente del Senato pochi giorni prima del referendum costituzionale dello scorso 4 dicembre parlando agli studenti della Luiss, “mortificano il ruolo primario del Parlamento” che fatica a svolgere la propria funzione a causa della “frammentazione politica e del trasformismo”.

Il risultato? Mercoledì, proprio a Palazzo Madama, il Governo di Paolo Gentiloni ha posto l’ennesima questione di fiducia (passata con 145 voti sì e 107 no), stavolta sul cosiddetto decreto legge migranti che prevede l’apertura di nuovi centri di identificazione ed espulsione (Cie) e procedure più rapide per l’espulsione degli immigrati irregolari. Sarà che quello guidato dall’ex ministro degli Esteri è considerato come un Esecutivo “fotocopia” del precedente con a capo Matteo Renzi, fatto sta che l’andazzo è rimasto pressoché identico. Dal 12 dicembre, giorno in cui è entrato in carica, il Governo ha già usato lo strumento della fiducia 6 volte: una media di due al mese, come ha fatto notare Openpolis.

Il confronto – In precedenza, la stessa era già stata posta due volte per il decreto salva banche (sia alla Camera sia al Senato), due volte per il Milleproroghe (anche in questo caso in entrambi i rami del Parlamento) e a Palazzo Madama per l’approvazione del ddl sul codice penale. Non proprio benissimo, se si considera che il rapporto fra voti di fiducia e leggi approvate è al 40% e in questa legislatura ne sono già state poste 82: “solo” 10 sotto il Governo di Enrico Letta, 66 durante quello dell’ex sindaco di Firenze e segretario del Pd e 6 – appunto – da quello di Gentiloni. E potrebbe non essere finita qui se è vero, come riferito nei giorni scorsi da alcuni organi di stampa, che dopo due anni di tira e molla anche il ddl concorrenza si appresta a sbarcare nell’Aula di Palazzo Madama “blindato” dalla fiducia. Staremo a vedere. Quel che è certo, al momento, è che dal quarto Governo di Silvio Berlusconi in poi (2008/2011), soltanto Mario Monti e i “suoi” tecnici avevano raggiunto livelli superiori (45,13%) con una media di 3 al mese.

Oltre i limiti – Insomma, i nostri Esecutivi hanno un evidente problema di “fiducite”. Se n’era accorto, già una decina d’anni fa, pure l’oggi presidente emerito Giorgio Napolitano. Messaggio che l’ex capo dello Stato aveva più volte ribadito prima di passare il testimone a Sergio Mattarella. La fiducia, disse per esempio “Re Giorgio” nel 2011, “non dovrebbe eccedere limiti oltre i quali si verificherebbe una inaccettabile compressione delle prerogative delle Camere”. Com’è andata a finire? Che due anni fa, come noto, il Governo Renzi decise addirittura di porla sulla legge elettorale, quell’Italicum che non solo non è stato “copiato” da mezza Europa (“Matteo” dixit) ma che è stato pure “rottamato” dalla Corte costituzionale, scatenando l’ira sia delle opposizioni sia della minoranza del Pd.

Twitter: @GiorgioVelardi

Articolo scritto il 1 aprile 2017 per La Notizia

L’attacco al Pentagono dell’11 settembre nelle nuove foto dell’Fbi

marzo 31st, 2017 by mercantenotizie

9-11 Pentagon Emergency Response 3Ventisette scatti inediti di una giornata che gli Stati Uniti e il mondo intero non dimenticheranno mai.

Sedici anni dopo l’11 settembre 2001, l’Fbi ha pubblicato nuove immagini che mostrano gli effetti dell’attacco di al-Qaida al Pentagono in cui persero la vita 189 persone, 125 delle quali lavoravano per il dipartimento della Difesa americano. Molte delle foto diffuse sul sito Internet del Federal Bureau of Investigation (“9/11 Attacks and Investigation Images”) sono state scattate subito dopo l’impatto del Boeing 757 della American Airlines, che in volo tra Washington e Los Angeles era stato dirottato dai terroristi fedeli a Osama bin Laden.

Nelle immagini si vede l’edificio sede del quartier generale del Dipartimento della difesa Usa in fiamme, i pompieri che combattono contro l’incendio, l’arrivo dei soccorsi. Altre foto, stavolta aeree, mostrano invece l’enorme voragine lasciata dall’impatto della fusoliera sul lato occidentale dell’edificio, all’altezza del primo piano. In altre ancora ci sono gli investigatori tra le macerie e scorci dell’interno distrutto. L’aereo che colpì il Pentagono fu dirottato tra le 08.51 e le 08.54, pochi minuti dopo che un altro velivolo dell’American Airlines si era schiantato contro il World Trade Center. 

Auto blu e super pensioni. Pure la Consulta non scherza: il bilancio di previsione per quest’anno è di 54 milioni

marzo 30th, 2017 by mercantenotizie

Palazzo_della_Consulta_Roma_2006Una piccola sforbiciata rispetto agli anni passati c’è stata, sia chiaro, complice pure il fatto che a partire dal 1° maggio 2014 i compensi dei giudici sono stati ridotta del 22,6% passando da 465 mila 138 euro lordi a 360 mila. Nonostante tutto, però, la Corte costituzionale continua a costare decine di milioni di euro. Per la precisione: 54 milioni 649 mila 646 euro, stando al bilancio di previsione 2017 recentemente pubblicato sul sito istituzionale. Spese coperte grazie a un contributo statale di 55 milioni 200 mila euro, in sostanza la totalità della torta riguardante le entrate che nel documento ammontano a 56 milioni 43 mila 846 euro. Sfogliando le 8 pagine del bilancio c’è di tutto. A cominciare, ovviamente, dal capitolo che da sempre attira gli appetiti degli osservatori: quello della spesa per stipendi e oneri previdenziali degli ermellini.

A bilancio per l’anno in corso ci sono 2 milioni 530 mila euro solo per le loro retribuzioni. Come detto, ogni giudice percepisce un compenso annuo di 360mila euro lordi (120mila euro in più rispetto al tetto previsto per i dipendenti pubblici), mentre il presidente Paolo Grossi incassa una cifra più alta, 432mila euro lordi. Numeri che, per dire, negli ultimi anni hanno fatto storcere il naso a Roberto Perotti, economista bocconiano ed ex commissario governativo alla spending review, che nel suo ultimo libro (Status Quo) ha messo a confronto le retribuzioni dei giudici italiani e statunitensi al netto delle ritenute.

Vecchiaia serena – Il risultato? Per il professore, i componenti della Consulta tricolore incassano 197.146 euro l’anno mentre quelli a stelle e strisce si devono “accontentare” di 119.539 (181.951 lordi), pagando però molte meno tasse rispetto a Giuliano Amato e colleghi: 62.411 euro contro 162.855. Ma torniamo al bilancio. La spesa indubbiamente più alta è quella riguardante il personale: 29 milioni 14 mila 500 euro. Di questi, 8.480.000 euro se ne vanno per le retribuzioni dei dipendenti di ruolo (174), mentre per pagare l’unico a contratto la Consulta ha previsto di spendere quest’anno 95mila euro. Più alte sono invece le dotazioni previste per le missioni, 313 mila 500 euro, e per i compensi ad incaricati esterni e collegio esperti in contabilità pubblica, 375mila euro. E ancora: 48 mila euro se ne vanno in formazione e aggiornamento del personale, 62.500 per l’assicurazione contro gli infortuni, 68.500 per la “sicurezza e salute dei lavoratori sul luogo di lavoro” e 290.000 per le spese per i buoni pasto. Quasi 11,5 milioni verranno spesi invece per le pensioni: 3 milioni 849 mila 384 euro per riequilibrare il fondo relativo ai trattamenti degli ex giudici (22 più 12 superstiti) e 7 milioni 643 mila 562 euro per riequilibrare quello degli ex dipendenti (139 più 88 superstiti).

Tutti a bordo – Non è finita. Nella categoria 4, “acquisto di beni e servizi”, salta all’occhio la considerevole somma di 584 mila euro per il noleggio, l’assicurazione, la manutenzione e le spese di funzionamento delle autovetture (un altro dei capitoli di spesa da sempre più dibattuti). Non scherza nemmeno l’uscita prevista per il “noleggio attrezzature d’ufficio e servizi integrati di gestione documentale e stampa”: 463 mila euro. Mentre 400 mila euro verranno impiegati per la manutenzione dei sistemi informatici e 223 mila per “telefonia e manutenzione impianto”. Degni di nota sono anche i 264 mila euro per il funzionamento della struttura sanitaria. Per partecipazioni a “incontri multilaterali” con altre Corti costituzionali, convegni e conferenze, la Consulta prevede di tirar fuori 125 mila euro; 111 mila saranno invece utilizzati per comprare materiali d’ufficio e informatici. E le spese per il restauro e la manutenzione delle opere d’arte? Tranquilli, ci sono pure quelle, anche se sono più contenute: “solo” 64 mila euro.

Twitter: @GiorgioVelardi

Articolo scritto il 29 marzo 2017 per La Notizia