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Archive for the ‘Politica’ Category

Si salda l’asse fra gli ex M5S e il Partito Pirata

lunedì, aprile 10th, 2017

piratenE se in Parlamento arrivassero i pirati? No, non è uno scherzo, ma quello che potrebbe accadere sul finire di questa convulsa legislatura. I protagonisti di questa storia sono i 5 deputati di Alternativa Libera – usciti a vario titolo dal M5S e oggi capitanati da Massimo Artini – e appunto il Partito Pirata italiano. Che sì, esiste anche nel Belpaese al grido di “tutto il potere al popolo sovrano”, malgrado non sia conosciuto come lo sono invece quelli di altri paesi (per esempio l’Islanda dove alle ultime elezioni ha raccolto il 14,5% dei voti e 10 seggi in Parlamento su 63). Nell’attesa che al dialogo aperto col sindaco di Parma Federico Pizzarotti facciano seguito i fatti, nei giorni scorsi, a Montecitorio, i deputati di Al Marco Baldassare, Samuele Segoni ed Eleonora Bechis hanno incontrato Aram Gurekian e Felice Zingarelli, membri del Partito Pirata.

Un colloquio che gli interessati hanno definito “cordiale e collaborativo”, soprattutto perché “ha consentito di individuare numerosi punti di convergenza, sia a livello di costruzione di un progetto politico alternativo sia a livello programmatico”. L’antipasto di una possibile collaborazione futura sarà la mozione sulla robotica che andrà in Aula alla Camera nelle prossime settimane. Ma non solo. È stata infatti ipotizzata anche la realizzazione di una sponda parlamentare tra le due forze su temi specifici. Quali? Brevetti farmaceutici, per esempio, ma anche economia peer to peer e reddito di esistenza. “Il Partito Pirata è uno dei nostri interlocutori visto che con loro condividiamo l’idea della democrazia diretta da realizzare con piattaforme informatiche che consentano ai cittadini di esprimersi direttamente sulle decisioni da prendere”, spiega Baldassarre a La Notizia. “Questi strumenti online – aggiunge – devono essere trasparenti, non come quello del M5S che è controllato da una società privata”.

Artini e co. hanno così raccolto l’appello recentemente lanciato da Gurekian e Zingarelli proprio ai “delusi/cacciati” dal M5S. Che, per i Pirati italiani, nient’altro è che “un’inquietante operazione di marketing politico via Web, un movimento che costruisce il consenso soffiando sul disagio e l’insoddisfazione della gente. (…) Il movimento che Grillo vi promise può ancora nascere, e di certo il vostro aiuto sarebbe molto utile”. Vedremo. 

Twitter: @GiorgioVelardi

Articolo scritto l’8 aprile 2017 per La Notizia

Caro ministro Orlando, sulla tortura siamo già al ridicolo

sabato, aprile 8th, 2017

OrlandoDa quando si è candidato alla segreteria del Pd il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, è diventato stranamente loquace. Parla di tutto, persino della fidanzata che tanto vorrebbe ma che purtroppo non ha.

Ieri il Guardasigilli è intervenuto per commentare la decisione dell’Italia di patteggiare un risarcimento con 6 persone che le avevano fatto causa alla Corte europea dei diritti dell’uomo per le violenze subite durante il G8 di Genova nella caserma Bolzaneto. “Credo che adesso non approvare la legge che introduce il reato di tortura sarebbe una contraddizione che renderebbe addirittura ridicola la posizione dello Stato italiano”, ha spiegato Orlando. Tutto molto interessante. Se non fosse che al ridicolo ci siamo già, visto che il provvedimento si è arenato al Senato dopo il via libera della Camera ad aprile 2015. Di più: l’Italia ha ratificato la convenzione Onu contro la tortura a fine Anni ‘80, ma non si è mai dotata di una legge.

Una chiara mancanza di volontà politica. Resa ancora più evidente da tre Governi che dal 2013 a oggi hanno usato 82 volte la fiducia per blindare pure la legge elettorale. Ma per la tortura neanche a parlarne.

Twitter: @GiorgioVelardi

Articolo scritto l’8 aprile 2017 per La Notizia

Garanzia Giovani è un flop. Non solo in Italia

venerdì, aprile 7th, 2017

piano-garanzia-giovaniPoche parole. Ma chiare: “I risultati conseguiti non rispecchiano le aspettative iniziali”. A metterle nero su bianco in una relazione di 93 pagine è stata la Corte dei conti europea, che ha passato sotto la lente Garanzia Giovani, il piano Ue per la lotta alla disoccupazione giovanile partito il 1° maggio di tre anni fa. Un programma rivolto a quegli Stati con un tasso di Neet (cioè coloro che non studiano né lavorano) superiore al 25% e per il quale Bruxelles ha sborsato 6 miliardi di euro, 1,5 solo per l’Italia, nel triennio 2014/2016. Nonostante le buone intenzioni, però, le cose non hanno girato proprio per il verso giusto. E stavolta – magra consolazione – i problemi non hanno riguardato solo il Belpaese.

La bocciatura è stata pressoché totale anche per gli altri sei Paesi analizzati, cioè Portogallo, Spagna, Croazia, Francia, Slovacchia e Irlanda. Anche se l’Italia si è voluta distinguere ancora una volta classificandosi ultima in questa mini-classifica. Cosa non ha funzionato? “La Corte ha rilevato una mancanza di strategie con tappe intermedie e obiettivi chiari, per raggiungere tutti coloro che necessitano di offerte di lavoro, istruzione o formazione”, ha sintetizzato una nota.

Tris di problemi – Di fatto, ha chiarito Iliana Ivanova, membro della Corte responsabile della relazione, “al termine del primo semestre 2016, oltre 4 milioni di giovani sotto i 25 anni erano ancora disoccupati”. Ecco perché “i responsabili delle politiche dovrebbero fare in modo che i programmi volti ad aiutare i giovani non suscitino aspettative che non possono essere soddisfatte”, ha aggiunto tranchant. Più nel dettaglio, i problemi che riguardano il nostro Paese sono sostanzialmente tre. Il primo concerne i reali effetti della partecipazione al piano. “L’occupazione è la destinazione più comune per le ‘uscite positive’ in tutti gli Stati membri visitati, eccetto l’Italia, dove i tirocini rappresentano il 54% di queste – è scritto nel report –. In tutti gli altri Stati membri visitati, le uscite verso un’occupazione oscillano tra il 64% in Irlanda e il 90% in Francia”. Il secondo riguarda un fattore certamente non secondario (e collegato al primo): quello dei pagamenti. “In Italia, in tutti i casi in cui le persone incluse nel campione hanno aderito a un’offerta di tirocinio, si sono verificati ritardi significativi (di almeno due mesi) nei pagamenti – prosegue la relazione –. L’Italia ha riconosciuto che il ritardo nel pagamento costituiva un problema ricorrente nei tirocini in generale, non solo nell’ambito del campione. Per la riscossione del pagamento si è infatti registrato un ritardo medio di 64 giorni”.

Rotta sbagliata – La terza questione ha come oggetto la strategia usata dal nostro Paese per la registrazione alla Youth Guarantee. “In Italia, le autorità nazionali hanno deciso di non trasferire automaticamente al sistema della Garanzia per i giovani i soggetti rispondenti ai criteri Neet che erano già registrati come ‘disoccupati’ presso lo Spi (i servizi per l’impiego, ndr), chiedendo invece loro di riregistrarsi”, fa notare la Corte. Scelta che “ha comportato un ulteriore onere per i Neet e un tasso di registrazione molto basso”. Recentemente il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, ha parlato di “risultati positivi” raggiunti in Italia dal programma. In vista della partenza della “fase 2”, forse (forse) è il caso di rivedere qualcosa.

Twitter: @GiorgioVelardi

Articolo scritto il 6 aprile 2017 per La Notizia

I morosi non pagano: Forza Italia rischia di fallire

giovedì, aprile 6th, 2017

Berlusconi visita il comitato elettorale per Bertolaso SindacoHanno fatto orecchie da mercante. Costringendo il tesoriere del partito, Alfredo Messina, a brandire nuovamente carta e penna per scrivere una lettera dal finale infuocato. Sintetizzabile più o meno così: Forza Italia è a rischio fallimento. Tutto vero. A niente è servito l’appello lanciato il 27 gennaio scorso dal successore di Mariarosaria Rossi in un’altra missiva indirizzata a parlamentari, europarlamentari e consiglieri regionali azzurri. Nella quale, in sostanza, Messina “invitava” i “morosi” a versare entro il 28 febbraio la quota che gli eletti devono corrispondere al partito. Pena il deferimento al collegio dei probiviri e (addirittura) l’esclusione dalle prossime liste. “Siamo oramai sotto il livello di sopravvivenza”, avvertiva il tesoriere, ed “esiste un limite fisiologico al di sotto del quale la ‘macchina partito’ diventa un puro costo e non è più di nessuna utilità”. Come avranno risposto gli interessati? Si saranno premurati di saldare i debiti? Macché.

Per capire l’andazzo basta prendere infatti la seconda lettera messa nero su bianco da Messina il 31 marzo, che La Notizia ha potuto visionare. “Lo stato d’insolvenza rimane grave – ha chiarito senza mezzi termini il guardiano delle casse di FI –. Con vivo rammarico faccio presente che nel bimestre gennaio-febbraio 2017 solo il 40% dei parlamentari e il 10% dei consiglieri eletti ha finora provveduto ad erogare i corrispettivi mensili dovuti”. Più chiaro di così. Non solo. Messina ha tenuto a ricordare “come i costi di funzionamento non possano essere ulteriormente ridotti, cosicché l’unica via è quella di riequilibrare le entrate”. E allora “mi permetterete di chiedere a coloro che persistono nella posizione di parziale o di totale insolvenza”, conclude il tesoriere di FI, “se siano consapevoli che il Movimento rischia la paralisi, e se ritengano sia equo e leale che solo alcuni debbano farsi carico per tutti di tenere in vita la struttura di Forza Italia”.

Ma cosa dicono i parlamentari? L’ex ministro Gianfranco Rotondi twitta così: “Accade ora a Forza Italia quel che nell’indifferenza generale accadde al mio partito: insolvenza, zero entrate, sto pagando io a rate. Va così”. Interpellato da La Notizia, invece, un suo collega, dietro garanzia di anonimato, ci va giù durissimo: “Ormai FI non esiste come partito ma solo come ramo d’azienda di Berlusconi, quindi se la paghi lui…”. 

Twitter: @GiorgioVelardi

Articolo scritto il 5 aprile 2017 per La Notizia

Un Parlamento pieno di cespugli. Così il Gruppo Misto è diventato la quarta forza

mercoledì, aprile 5th, 2017

Montecitorio-675Qualcuno li chiama cespugli, qualcun altro fronde. Ex grillini, ex leghisti, ex montiani, ex berlusconiani. Ce n’è davvero per tutti i gusti in un Parlamento che si è trasformato in una giungla e che in questa legislatura ha già fatto registrare il record di cambi di casacca: 458 fra Montecitorio (262) e Palazzo Madama (196). E potrebbe non essere finita qui. Il risultato? Alla Camera, ha calcolato Openpolis, dei 12 schieramenti esistenti solo sei (il 50%) hanno un minimo di 20 componenti, quelli previsti dall’articolo 14 del regolamento per la formazione di un gruppo.

Si tratta di Pd (238 deputati), M5S (91), Forza Italia (50), Gruppo Misto (47), Articolo 1 – Mdp e Alternativa popolare (26). Tutti gli altri esistono grazie a deroghe concesse dall’ufficio di presidenza: è il caso di Lega Nord (19 deputati), Sinistra Italiana – Possibile (17), Civici e Innovatori (16), Democrazia solidale – Centro democratico (14) e Fratelli d’Italia (11). Chiariamoci: il già citato regolamento concede all’ufficio di presidenza la facoltà di autorizzare la costituzione di un gruppo con meno di 20 iscritti a determinate condizioni.

Alla carica – Certo è che l’andazzo non è proprio dei migliori, soprattutto se si paragona quella in corso con la precedente legislatura quando a Montecitorio c’erano 8 gruppi, tutti con più di venti membri. Non è un caso che il Misto, quello che sia alla Camera sia al Senato “raccoglie” i parlamentari non iscritti a un gruppo, occupi proprio a Montecitorio la quarta posizione con appena 3 deputati in meno di FI. Ma chi c’è nel contenitore “capitanato” da Pino Pisicchio? Gli 11 “fittiani” dei Conservatori e Riformisti fra i quali Daniele Capezzone e l’ex An Massimo Corsaro, per esempio, più i tre “tosiani” di Fare!, gli ex leghisti Matteo Bragantini, Roberto Caon ed Emanuele Prataviera. Senza dimenticare gli ex 5 Stelle di Alternativa Libera (5), i 3 socialisti Carmelo Lo Monte, Pia Locatelli e Oreste Pastorelli o i 4 Udc Paola BinettiRocco ButtiglioneAngelo Cera e Giuseppe De Mita, nipote dell’“immortale” Ciriaco. Quattro sono pure i deputati della componente Idea-Usei (l’Unione sudamericana emigrati italiani): Renata BuenoVincenzo Piso, Eugenia Roccella e Guglielmo Vaccaro.

Tutti dentro – E le minoranze linguistiche? Ci sono pure quelle, capeggiate dall’altoatesino Daniel Alfreider. Undici, infine, sono i deputati non iscritti ad alcuna componente. Fra questi, pure la presidente della Camera Laura Boldrini, che il 3 marzo ha lasciato SI. Le cose vanno un tantino meglio a Palazzo Madama, dove per costituire un gruppo “bastano” 10 senatori. Sciolto quello dei “fittiani”, nessuno è sotto la soglia minima. Anche in questo caso però nel Misto c’è di tutto: dall’Idv a Insieme per l’Italia (il duo Sandro BondiManuela Repetti), da Liguria Civica (Maurizio Rossi) a Movimento X (Laura Bignami) fino ai Verdi, rappresentati da Cristina De Pietro.

Twitter: @GiorgioVelardi

Articolo scritto il 4 aprile 2017 per La Notizia

Anche Gentiloni ha la fiducite. Sulle leggi si vota e basta

lunedì, aprile 3rd, 2017

Primo_Consiglio_dei_ministri_del_governo_GentiloniPersino il chiaro atto d’accusa di Pietro Grasso è rimasto inascoltato. Decretazione d’urgenza e voti di fiducia, disse il presidente del Senato pochi giorni prima del referendum costituzionale dello scorso 4 dicembre parlando agli studenti della Luiss, “mortificano il ruolo primario del Parlamento” che fatica a svolgere la propria funzione a causa della “frammentazione politica e del trasformismo”.

Il risultato? Mercoledì, proprio a Palazzo Madama, il Governo di Paolo Gentiloni ha posto l’ennesima questione di fiducia (passata con 145 voti sì e 107 no), stavolta sul cosiddetto decreto legge migranti che prevede l’apertura di nuovi centri di identificazione ed espulsione (Cie) e procedure più rapide per l’espulsione degli immigrati irregolari. Sarà che quello guidato dall’ex ministro degli Esteri è considerato come un Esecutivo “fotocopia” del precedente con a capo Matteo Renzi, fatto sta che l’andazzo è rimasto pressoché identico. Dal 12 dicembre, giorno in cui è entrato in carica, il Governo ha già usato lo strumento della fiducia 6 volte: una media di due al mese, come ha fatto notare Openpolis.

Il confronto – In precedenza, la stessa era già stata posta due volte per il decreto salva banche (sia alla Camera sia al Senato), due volte per il Milleproroghe (anche in questo caso in entrambi i rami del Parlamento) e a Palazzo Madama per l’approvazione del ddl sul codice penale. Non proprio benissimo, se si considera che il rapporto fra voti di fiducia e leggi approvate è al 40% e in questa legislatura ne sono già state poste 82: “solo” 10 sotto il Governo di Enrico Letta, 66 durante quello dell’ex sindaco di Firenze e segretario del Pd e 6 – appunto – da quello di Gentiloni. E potrebbe non essere finita qui se è vero, come riferito nei giorni scorsi da alcuni organi di stampa, che dopo due anni di tira e molla anche il ddl concorrenza si appresta a sbarcare nell’Aula di Palazzo Madama “blindato” dalla fiducia. Staremo a vedere. Quel che è certo, al momento, è che dal quarto Governo di Silvio Berlusconi in poi (2008/2011), soltanto Mario Monti e i “suoi” tecnici avevano raggiunto livelli superiori (45,13%) con una media di 3 al mese.

Oltre i limiti – Insomma, i nostri Esecutivi hanno un evidente problema di “fiducite”. Se n’era accorto, già una decina d’anni fa, pure l’oggi presidente emerito Giorgio Napolitano. Messaggio che l’ex capo dello Stato aveva più volte ribadito prima di passare il testimone a Sergio Mattarella. La fiducia, disse per esempio “Re Giorgio” nel 2011, “non dovrebbe eccedere limiti oltre i quali si verificherebbe una inaccettabile compressione delle prerogative delle Camere”. Com’è andata a finire? Che due anni fa, come noto, il Governo Renzi decise addirittura di porla sulla legge elettorale, quell’Italicum che non solo non è stato “copiato” da mezza Europa (“Matteo” dixit) ma che è stato pure “rottamato” dalla Corte costituzionale, scatenando l’ira sia delle opposizioni sia della minoranza del Pd.

Twitter: @GiorgioVelardi

Articolo scritto il 1 aprile 2017 per La Notizia

Sindaci minacciati ma in trincea. Migliaia di intimidazioni soltanto negli ultimi quattro anni

giovedì, marzo 30th, 2017

sindaciNinni Gemmato è il sindaco di Terlizzi, comune di circa 27mila abitanti in provincia di Bari. Lo scorso 7 marzo, alle 10.30 del mattino, il suo staff ha trovato una pallottola attaccata col nastro adesivo alla porta del suo ufficio. Ventiquattro ore prima, Gemmato aveva ricevuto anche una lettera con all’interno la fotocopia proprio di un proiettile. Prima di lui, il 4 marzo, era toccato a Pasquale Chieco, primo cittadino di Ruvo di Puglia al quale era stata incendiata la casa di campagna. Sono solo alcuni degli episodi avvenuti nelle scorse settimane. Ma non gli unici. Le minacce a sindaci, assessori e consiglieri comunali, infatti, stanno purtroppo diventando circostanze all’ordine del giorno.

I numeri dell’Osservatorio sul fenomeno delle intimidazioni nei confronti degli amministratori locali, istituito il 2 luglio 2015 col decreto del ministro dell’Interno su sollecitazione dell’Associazione nazionale dei comuni (Anci), ne sono la dimostrazione plastica. Nei primi tre mesi del 2017 sono stati 15 i sindaci che hanno subito atti intimidatori mentre solo fra gennaio e maggio 2016 i casi “censiti” sono stati 180: il 78% al Sud e nelle Isole, il 9% al Nord-Ovest, l’8% al Nord-Est e infine il 5% al Centro.

I numeri – A finire nel mirino, nel 44% dei casi, sono stati proprio i primi cittadini. Ma – come detto – non mancano nemmeno le minacce a consiglieri comunali (20%), assessori comunali (15%), assessori regionali (5%), vice sindaci (5%) e consiglieri municipali (4%). Un fenomeno rilevante e preoccupante, considerato pure il tributo di sangue pagato fra il 2010 e il 2013 dal sindaco di Pollica Angelo Vassallo, da quello di Cardano al Campo Laura Prati e da Alberto Musy, il consigliere comunale di Torino morto dopo un lungo periodo di coma. Non solo. Nel triennio 2013-2015, sempre secondo i dati del ministero dell’Interno, gli amministratori che hanno subito intimidazioni sono stati 2.098. Nel raffronto tra 2013 e 2014, a livello nazionale si è registrato un aumento del 19,4%, passando dai 674 casi a 805 (di cui 5 attribuiti alla criminalità organizzata). Nel 2015, invece, gli atti intimidatori sono stati in tutto 619, con incrementi rispetto ai dodici mesi precedenti in Sardegna, Basilicata, Friuli Venezia-Giulia e Piemonte.

Giro di vite – Fenomeni di questo tipo, fa sapere l’Associazione guidata dal sindaco di Bari Antonio Decaro, non sono ascrivibili unicamente alla malavita organizzata, visto che la responsabilità degli amministratori locali è cresciuta al punto da sovraesporre gli stessi primi cittadini agli occhi dell’opinione pubblica. Per questo motivo, l’Anci propone un inasprimento della fattispecie penale inerente la violenza e le minacce di natura intimidatoria nei confronti dei sindaci, la copertura assicurativa per gli amministratori che subiscono danni – sia materiali sia immateriali – a seguito di atti di intimidazione e la costituzione dell’Associazione come parte civile nei procedimenti contro le attività criminose di stampo mafioso. Ma non solo. Per Decaro e colleghi è infatti necessaria la “riattivazione” dell’Osservatorio del Viminale, la cui ultima riunione tecnica si è svolta a luglio 2016. Praticamente otto mesi fa.

Twitter: @GiorgioVelardi

Articolo scritto il 29 marzo 2017 per La Notizia

Legge sulle lobby, dal Parlamento solo melina. Provvedimento fermo da due anni a Palazzo Madama

giovedì, marzo 16th, 2017

6lobbistiSono tutti favorevoli, almeno a parole. Dal ministro della Giustizia (oggi candidato alla segreteria del Pd), Andrea Orlando, fino alla sottosegretaria alla presidenza del Consiglio, Maria Elena Boschi. Passando per la presidente della Camera Laura Boldrini e il numero uno dell’Autorità nazionale anticorruzione (Anac), Raffaele Cantone. Peccato però che ancora oggi, a 41 anni esatti dalla presentazione della prima proposta in merito, l’Italia non si è ancora dotata di una legge che regoli l’attività di lobbying. Tutto, tragicamente vero. E finora anche questa legislatura, nonostante gli squilli di tromba, non ha fatto eccezione.

Eppure, pensate, due anni fa – era il 9 aprile 2015 – la commissione Affari costituzionali di Palazzo Madama ha adottato come testo base quello dei due senatori ex M5S, Luis Alberto Orellana e Lorenzo Battista. Sembrava la “volta buona”, per dirla col gergo renziano. Invece? Che fine ha fatto il disegno di legge? È arenato nella secche dell’organismo parlamentare, come ha spiegato a La Notizia lo stesso Orellana, “e il fatto che non sia ancora stato scelto il sostituto della presidente Finocchiaro e che il relatore, Francesco Campanella, non sia più in commissione, certamente non aiutano”. Un quadro tutt’altro che rassicurante, insomma, che lascia presagire come anche stavolta, quando manca un anno alla fine del quinquennio, si arriverà ad un nulla di fatto. Ecco perché c’è chi, per uscire dall’impasse, immagina un’unica soluzione.

Paravento – “Visto che il Parlamento ha dimostrato di non avere alcuna volontà di approvare la legge, il Governo Gentiloni dovrebbe intervenire con un decreto”, dice senza mezzi termini Pier Luigi Petrillo, professore di Teorie e tecniche del Lobbying all’Università Luiss, considerato uno dei massimi esperti italiani in materia. Misura resa necessaria, argomenta Petrillo, “dal combinato disposto tra il finanziamento privato alla politica e il reato di traffico di influenze illecite, al momento piuttosto difficile da dimostrare”, che rischiano di diventare una bomba in campagna elettorale. Certo, sarebbe ingiusto dare la colpa dello stallo esclusivamente agli attuali eletti. “Perché la politica non è mai intervenuta a dovere? Semplice: non vuole far emergere il fatto che in alcuni casi è stata suddita di certi gruppi di pressione. Meglio usare quello delle lobby come un ‘paravento’”, spiega il docente. Non solo. “Per tanti anni in Italia il vuoto normativo ha consentito alla politica e soprattutto ai partiti di scegliere a quali interessi dare spazio e a quali no, secondo una logica clientelare – aggiunge Petrillo –. Al contrario, una legge avrebbe portato ad un’ulteriore erosione del consenso delle forze politiche”.

Confusione – A sentire l’esperto, a poco sembrano servire anche quei piccoli passi in avanti fatti recentemente. Come l’introduzione da parte della Camera di un registro dei portatori di interessi o le agende degli incontri con aziende e stakeholder del ministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda, e del viceministro dei Trasporti, Riccardo Nencini. O i regolamenti approvati da alcune Regioni. “Regole diverse da un ente all’altro rischiano di creare solo confusione e schizofrenia”, dice a questo proposito Petrillo: “Quello che è lobby per la Toscana non lo è per il Molise e così via. Di più: Montecitorio confina questa attività alle proprie sedi, come se il lobbista svolgesse il suo lavoro solo recandosi fisicamente nel Palazzo. Ciò è assurdo”. Quello che l’Esecutivo deve fare è quindi “avviare una sperimentazione, introducendo poche regole chiare per un periodo non eccessivamente lungo per poi intervenire con norme più dettagliate e specifiche, come quelle tedesche o canadesi”, conclude l’esperto. Chissà se qualcuno gli darà ascolto.

Twitter: @GiorgioVelardi

Articolo scritto il 15 marzo 2017 per La Notizia

I collaboratori parlamentari sono senza regole e le Camere se ne fregano

venerdì, marzo 10th, 2017

Camera-Montecitorio-e1489039645650Non si sa nemmeno quanti sono in tutto. E già questo basterebbe per comprendere la reale portata del problema. Al punto che recentemente l’associazione che riunisce alcuni di loro ha indirizzato una nuova lettera ai questori di Montecitorio e Palazzo Madama per chiedere un repentino cambio di passo, dopo che alla precedente “non è arrivata risposta”. Proprio così. Stiamo parlando dei collaboratori parlamentari, quelli che spesso – in maniera non proprio edificante – vengono chiamati “portaborse”. Professionalità che affiancano deputati e senatori nel proprio lavoro quotidiano ma che, ancora oggi, sono praticamente privi di tutele. A cominciare da quelle contrattuali. Insomma, se all’Europarlamento si scopre addirittura che qualche deputato ha assunto come collaboratore un suo parente pagandolo la bellezza di oltre 120mila euro l’anno (nel 2005 Bruxelles ha adottato lo “Statuto dei deputati del Parlamento europeo” che all’articolo 21 regola la figura in questione), nel nostro Paese “non vi è alcun tipo di modello contrattuale al quale il parlamentare possa fare riferimento”, ha denunciato l’Associazione italiana collaboratori parlamentari (Aicp) presieduta da Valentina Tonti.

Non solo. “Non vi è alcuna relazione fra l’incarico ricoperto, il numero di ore lavorate e la retribuzione, non vi è alcuna chiarezza sul dovere di versamento delle tasse, contributi e non vi è alcun elemento di trasparenza”, ha accusato ancora l’Aicp, malgrado il fatto che “vi sia l’obbligo da parte del parlamentare di depositare presso gli uffici competenti il contratto del proprio collaboratore”. Così “permane il ricorso diffuso a contratti di lavoro atipici”, in particolare partite Iva e collaborazioni a progetto, “nonostante il rapporto di lavoro abbia, molto spesso, le caratteristiche del rapporto di lavoro subordinato”. Uno scandalo a tutti gli effetti, considerando il fatto che il Parlamento è il luogo dove si fanno le leggi e che oltre all’indennità (circa 5.000 euro) e alla diaria (circa 3.500 euro), ogni eletto riceve un rimborso spese per il proprio mandato. Stiamo parlando di 3.690 euro alla Camera e circa 4mila euro al Senato. Cifra – non proprio briciole – pensata per sostenere le attività istituzionali. Metà della quale, come ha ricordato nei giorni scorsi l’associazione Openpolis in un approfondimento sul tema, è sottoposta a rendicontazione quadrimestrale mentre l’altra metà è erogata forfettariamente. Cosa c’è tra le spese da certificare? Anche quella per il proprio collaboratore, ovvio.

Questo vuol dire che ogni deputato e senatore ha a disposizione una somma che può spendere per assumere un assistente. Eppure, come dicevamo, i dettagli del rapporto di lavoro sono lasciati alla piena discrezione del politico e dell’interessato. Ecco perché due giorni fa, dopo lo scoppio della vicenda europea, la Tonti ha commentato amaramente. “Solo laddove ci sono norme chiare e stringenti possono emergere irregolarità – ha detto –. A differenza di Bruxelles, non sappiamo quali siano gli esiti dei controlli fatti a campione dalle stesse Camere sulla documentazione dei nostri parlamentari perché non pubblici né conoscibili”. Come ha sottolineato l’Aicp, la professione è regolamentata anche in Francia, Germania, Gran Bretagna e Spagna. Ma ai nostri onorevoli, si sa, su certe cose piace fare orecchie da mercante.

Twitter: @GiorgioVelardi

Articolo scritto il 9 marzo 2017 per La Notizia

Agenda digitale, Italia quartultima nella classifica Ue. E buttiamo fiumi di incentivi

giovedì, marzo 9th, 2017

Grafico_Agenda-digitaleUn Paese in zona retrocessione. Non ci sono solo i dati dell’Ocse a testimoniare il fatto che l’Italia fatichi ad agganciare il treno delle più importanti economie continentali. C’è pure un altro terreno sul quale il Belpaese è parecchio indietro rispetto ai propri partner. È quello che riguarda l’attuazione della cosiddetta Agenda digitale, cioè l’insieme di azioni e norme per lo sviluppo delle tecnologie, dell’innovazione e dell’economia digitale. Ebbene: nei giorni scorsi la Commissione europea ha pubblicato i valori, aggiornati a fine 2016, del Desi, l’indice che misura il grado di diffusione del digitale negli Stati Ue. Dove siamo? Soltanto in 25esima posizione, quartultimo posto prima di Romania, Bulgaria e Grecia. Insomma, c’è chiaramente qualcosa che non va.

“Le criticità sono molteplici”, dice senza mezzi termini Luca Gastaldi, direttore dell’Osservatorio sull’Agenda digitale del Politecnico di Milano. “Prima di tutto – spiega a La Notizia – c’è un problema infrastrutturale: l’Italia ha investito meno di altri paesi nel garantire connettività a famiglie, imprese e pubbliche amministrazioni”. Così facendo “sono ancora poche le persone che possono usufruire di connessioni Internet a banda larga” e “anche quei piccoli passi in avanti che sono stati fatti non hanno ancora portato a risultati adeguati”.

Strategia miope – In sostanza: “Nel 2016 il ministero dello Sviluppo economico ha messo sul piatto 2,6 miliardi di euro per ‘coprire’ le cosiddette aree bianche, cioè quelle che sono a fallimento di mercato e sulle quali lo Stato decide comunque di investire per incentivare l’offerta di connettività”. Però? “Ci vorranno anni prima di recuperare il gap con i competitor europei, che nel frattempo non sono certo rimasti a guardare”, prosegue Gastaldi: “La verità è che abbiamo capito tardi quanto le tecnologie digitali siano centrali per la nostra economia”. Anni di miopia non si correggono in poco tempo con ingenti investimenti, è il ragionamento. Non solo. L’altra grande questione è infatti quella che riguarda la digitalizzazione della pubblica amministrazione: qui siamo scivolati da un già poco incoraggiante 17esimo posto al 21esimo. “La nostra Pa è travolta dalla burocrazia – dice Gastaldi –. Il digitale è l’unica arma che abbiamo per combatterla, peccato che al contrario si pensi solo a varare altre norme e leggi, cioè nuova burocrazia. Non proprio un approccio vincente…”.

Risorse al vento – Eppure per ridurre il gap le risorse ci sarebbero. “Dal 2014 al 2020 l’Europa mette a disposizione circa 1,6 miliardi l’anno per attuare l’Agenda digitale italiana” ma “molti di questi soldi non li stiamo usando perché manca un coordinamento fra i vari attori”, specialmente tra Regioni e Agenzia per l’Italia digitale. Proprio a proposito dell’organismo diretto da Antonio Samaritani, “il suo lavoro è fondamentale”, dice Gastaldi, così come la nomina di Mr. Amazon Diego Piacentini a commissario straordinario per il Digitale. Ma anche in questo caso non è tutto rose e fiori. Lo Spid, il sistema pubblico di identità digitale, ad esempio, presenta ancora delle criticità. “Un milione di italiani ha oggi una chiave digitale per accedere ai servizi della Pa” ma “sono ancora troppo pochi i servizi offerti e Spid è scarsamente usato”, rivela Gastaldi. Serve cambiare passo. “Piacentini ha individuato delle priorità sulle quali lavorare con l’Agid”, conclude il direttore dell’Osservatorio sull’Agenda digitale. Chissà però se presto dalla teoria si riuscirà alla pratica.

Twitter: @GiorgioVelardi

Articolo pubblicato l’8 marzo 2017 su La Notizia

Otto marzo, c’è poco da festeggiare. Tra partiti e grandi aziende la parità dei sessi è ancora un miraggio

mercoledì, marzo 8th, 2017

8-marzo-mimosaTrenta per cento. È questa la quota di donne in alcuni dei luoghi che contano della politica (non solo quella italiana) e dell’economia. Certo, si tratta di numeri in crescita rispetto al passato, come ha rivelato l’ultimo dossier di Openpolis dal titolo “Trova l’intrusa”. Ma se dal mero dato quantitativo, chiarisce l’associazione, si passa all’aspetto qualitativo le cose cambiano parecchio. Così, analizzando le varie situazioni, si scopre per esempio che se da un lato è vero che alle ultime amministrative due donne, Virginia Raggi e Chiara Appendino (entrambe del Movimento 5 Stelle), sono state elette sindache di importanti città come Roma e Torino, dall’altro nei 106 capoluoghi di provincia le prime cittadine sono appena 9, l’8,4%. La parità, nonostante slogan e buoni propositi, resta dunque un miraggio.

Prendiamo il Parlamento. La legislatura in corso è quella che ha visto la maggior presenza femminile di sempre. Alla Camera le deputate sono il 31,30% del totale degli eletti, ma quelle che occupano poltrone “di peso” sono il 19,23%. Al Senato le cose viaggiano sulla stessa lunghezza d’onda. La presenza di quote rosa fra gli scranni scende infatti al 29,6% mentre aumenta il numero di quelle che ricoprono incarichi importanti: 25,58%. Un po’ poco, obiettivamente, rispetto a quelli appannaggio dei colleghi maschi.

Indietro tutta – Che dire poi del Governo? Se tre anni fa quello guidato da Matteo Renzi faceva registrare una percentuale femminile del 26,23% (16 su 61 tra ministri, viceministri e sottosegretari), Paolo Gentiloni è partito senza scelte eclatanti in fatto di parità, con il 27,78% di ministre: 5 su 18 di cui due senza portafoglio. Questo vuol dire che nel Consiglio dei ministri il 40% dei ministri senza portafoglio è donna; le viceministre sono il 14,29% del totale mentre tra i sottosegretari il 31,43% è donna. La musica non cambia nemmeno nelle giunte e nei consigli regionali, fa notare ancora Openpolis. Le governatrici sono appena 2, Debora Serracchiani (Friuli-Venezia, Pd) e Catiuscia Marini (Umbria, Pd), e le donne restano lontane dalla gestione dei capitoli più importanti. Le assessore sono infatti molto più rare nelle tre materie che compongono la quasi totalità dei budget regionali: bilancio (dove sono appena il 15%), urbanistica, infrastrutture e trasporti (24%) e sanità (25%).

Fuorigioco – Ma non c’è solo la politica. Un capitolo a parte meritano infatti anche le grandi aziende e i loro consigli di amministrazione (Cda). Lo scorso anno, ha calcolato l’associazione, le donne sono arrivate ad occupare 687 poltrone in Cda e organi di controllo. Un record se, come detto precedentemente, si guarda esclusivamente al dato numerico. Scavando si scopre però che in queste realtà le donne hanno per lo più incarichi non esecutivi: nel 68,56% dei casi si tratta di amministratrici indipendenti, quindi di figure non legate ai dirigenti esecutivi o agli azionisti, chiamate a vigilare nel solo interesse della società. Man mano che si sale al vertice, per di più, queste diminuiscono: solo il 3% è presidente o presidente onorario e solo il 2,47% amministratrice delegata. Si tratta di un problema che non riguarda solo l’Italia, sia chiaro. Ecco perché, purtroppo, c’è ancora poco da festeggiare.

Twitter: @GiorgioVelardi

Articolo scritto il 7 marzo 2017 per La Notizia

Rivive il Patto del Nazareno per sbloccare lo stallo sulla legge elettorale. Pd e Forza Italia verso un nuovo accordo

lunedì, marzo 6th, 2017

Renzi-BerlusconiUn nuovo patto tra Pd e Forza Italia, anche se “è meglio non scomodare il Nazareno” perché “sappiamo com’è andata a finire…”. Sarà. Certo è che l’indiscrezione raccolta da La Notizia farebbe pensare alla riedizione plastica del famoso accordo stretto il 18 gennaio 2014 nella sede del Pd fra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi. Per andare al sodo bisogna prima riavvolgere il nastro tornando al 12 dicembre scorso, giorno della nomina di Anna Finocchiaro a ministro per i Rapporti con il Parlamento del “nuovo” Governo Gentiloni. Nomina arrivata dopo la vittoria del No al referendum che ha lasciato vuota l’importante casella di presidente della commissione Affari costituzionali di Palazzo Madama.

La sostituzione della Finocchiaro sarebbe dovuta arrivare in tempi rapidissimi, complice la voglia dell’ex premier di approvare una nuova legge elettorale per tornare al voto il prima possibile. Poi però le cose sono andate diversamente: la Consulta che ha “smontato” l’Italicum, il pressing di Bruxelles sui conti pubblici, l’inchiesta Consip che coinvolge il padre di Renzi e il suo braccio destro Luca Lotti. Senza dimenticare, ultima in ordine di tempo, la scissione dentro al Pd, arrivata a complicare ulteriormente i giochi proprio dentro la prima commissione del Senato.

Ballando al buio – Non è un mistero, come avevamo già raccontato, che il Pd voglia piazzare su quella poltrona uno fra Roberto Cociancich, Stefano Collina e Francesco Russo. Mentre gli scissionisti di Mdp, rimasti in maggioranza, hanno intenzione di riproporre il nome di Doris Lo Moro, che insieme a Maurizio Migliavacca siede in commissione (Miguel Gotor è uscito due giorni fa perché il neonato gruppo ha diritto a due soli posti). Qui viene il bello: i membri della commissione sono 27 ma la maggioranza – Pd più alleati – si ferma a 13, contando pure Lo Moro e Migliavacca. Senza di loro si scende a 11. Ecco quindi entrare in gioco Forza Italia. “Si potrebbe raggiungere un accordo fra noi e il Pd”, rivela un importante parlamentare berlusconiano. Un accordo che permetterebbe ai dem di portare a casa la guida dell’organismo scongiurando i pericoli che potrebbero scaturire dai mal di pancia dei due esponenti di Mdp. Il tutto con un presupposto: “Non siamo disponibili a trattare al buio”, chiarisce l’azzurro. Tradotto: il testo della nuova legge elettorale dovrà essere condiviso e condivisibile.

Tutti per uno – Un particolare mica da ridere, vista la posizione di Berlusconi per il quale “non c’è nessuna alternativa al proporzionale”. Mentre Renzi, dopo la bocciatura dell’Italicum, ha rilanciato il Mattarellum. Calcolatrice alla mano, in Affari costituzionali FI conta 3 membri: Claudio FazzoneAnna Maria Bernini e Lucio Malan. E, guarda caso, 11 più tre fa 14: cioè la maggioranza. Certo, i verdiniani Riccardo Mazzoni e Antonio Milo sono pronti al soccorso, ma a quel punto Movimento 5 Stelle e Mdp alzerebbero le barricate. Ecco perché alla fine il “delitto perfetto” potrebbe essere nientemeno che la resurrezione del Nazareno.

Twitter: @GiorgioVelardi

Articolo scritto il 4 marzo 2017 per La Notizia