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Libertà è partecipazione – da “Il Punto” del 7/12/2012

giovedì, dicembre 13th, 2012

Colloquio con Frank La Rue, il relatore speciale dell’Onu per la protezione della libertà d’espressione e di stampa. «Quella del giornalista dovrebbe essere la più libera di tutte le professioni, credo che la diffamazione vada depenalizzata. Il governo Monti? È di transizione e deve fare scelte precise. A breve chiederò un incontro ufficiale»

«The worst case». Il caso peggiore. Frank La Rue, il relatore speciale dell’Onu per la protezione della libertà d’espressione e di stampa, usa queste tre parole quando parla dell’Italia. Focalizzandosi, in particolare, sulla concentrazione del potere mediatico nel nostro Paese. Lo abbiamo incontrato la scorsa settimana, durante una visita-lampo a Roma. Il suo nome è legato a doppio filo alle nomine all’Agcom, l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, avvenute nel giugno scorso. Il 27 aprile, due mesi prima che le stesse fossero formalizzate, La Rue inviò una lettera al sottosegretario agli Esteri Staffan de Mistura. Scrisse: «Vorrei ribadire la mia preoccupazione relativa alla procedura istituita dal Parlamento italiano per la nomina dell’autorità di regolamentazione dell’Agcom, che dovrebbe essere assolutamente indipendente. Invito il governo italiano e il Parlamento – proseguiva la missiva – ad aprire il processo di nomina al pubblico», fornendo «le informazioni sui candidati sulla base dei programmi, tenendo consultazioni con la società civile come un segnale forte di trasparenza e di partecipazione aperta». Elementi che, insieme alla libertà di espressione, «sono fondamentali di ogni società democratica». La Rue concludeva dicendo: «In quanto relatore speciale Onu, vorrei offrire il mio sostegno e la cooperazione tecnica per queste iniziative. Sarei più che felice di viaggiare in Italia per assistere e rafforzare questo processo».

Che ne è stato del suo appello?

«Nessuno ha mai risposto. Speravo che con l’esecutivo guidato da Mario Monti potesse avvenire una rottura con il passato. Magari considerando i diritti umani una priorità. Invece tutto è rimasto com’è».

Perché, secondo lei?

«Non amo fare commenti parlando in generale, mi piacerebbe invece venire in visita ufficiale per investigare meglio ed essere più preciso…».

Nella sua ultima relazione, ad ottobre, lei cita l’Italia una sola volta. È sotto la dicitura «Country visits – Pending requests». Fra parentesi una data: 2009. Allora c’era Berlusconi…

«Ho chiesto diverse volte al suo governo un incontro ma, semplicemente, non c’è mai stata nessuna risposta. Ogni volta dicevano che ero il benvenuto ma dovevo aspettare il momento giusto. Che non è mai arrivato. Ora sto pensando di chiedere a questo governo di organizzare un incontro ufficiale. Vedremo quale sarà la risposta ma spero accetteranno perché in un periodo di transizione bisogna rafforzare i diritti e la partecipazione dei cittadini. Ciò può portare grandi benefici alla democrazia e al governo stesso».

Freedom House ha detto che dopo la caduta del governo Berlusconi in Italia c’è una maggiore libertà d’informazione. È davvero così?

«Credo ci sia una maggiore libertà di stampa, perché Berlusconi ha perso parte del suo controllo ed è una cosa buona. Però nel vostro Paese ci sono diversi punti critici…».

Quali, per esempio?

«Penso che l’Italia debba deregolamentare il fatto che ogni giornale e ogni forma di mezzo di comunicazione deve essere registrato. Per me questa è una violazione della libertà di espressione e della libertà di stampa. In molti Paesi del mondo non ci sono queste regole riguardo la registrazione, in particolar modo per ciò che riguarda i giornalisti. Nonostante sia importante, la professione non deve essere vincolata ad un particolare titolo di studio: il giornalista deve studiare ed essere preparato, ma questa non deve essere una condizione vincolante. I cronisti, poi, non devono essere obbligati a costituire un’organizzazione professionale, come succede in alcuni Stati. Si tratta di un’altra violazione della libertà di espressione. Personalmente credo nelle associazioni della stampa, ma non ci deve essere obbligatorietà».

In Italia accade tutto il contrario di quanto lei afferma…

«Quella del giornalista dovrebbe essere la più libera di tutte le professioni. Pensi al caso del citizen journalism, i cittadini-giornalisti. In situazioni particolarmente critiche, come il terremoto in Giappone o la guerra in Siria, ci sono persone che si armano di videocamera o cellulare con fotocamera e scendono nelle strade a documentare la situazione, postando poi sul web i loro contributi. Queste persone dovrebbero essere protette esattamente come i giornalisti di professione. Il fatto che in Italia ci siano delle condizioni per essere un giornalista e dei regolamenti per aprire un mezzo di comunicazione non è positivo. Queste sono solo reminiscenze del passato».

Nelle ultime settimane si è dibattuto molto di diffamazione, di mandare in galera i giornalisti ma non i direttori etc… Una matassa complicata da sbrogliare. Qual è la sua opinione in proposito?

«Credo che la diffamazione debba essere depenalizzata, rimanendo solo passibile di azione civile ed avere dei limiti. Non ci dovrebbe essere neanche la sanzione economica. Al limite, se proprio ci deve essere una multa, dovrebbe trattarsi di una somma simbolica. La diffamazione è usata come una forma di intimidazione, gli inglesi lo definiscono chilling effect».

Insomma, lo Stato che dovrebbe proteggere i giornalisti in realtà li sottopone a un “ricatto”…

«Una delle cose che mi spaventano è che nel mondo vedo aumentare i pericoli per i giornalisti: a quello di persecuzione legale sulla base della diffamazione si affiancano i crimini religiosi e un aumento di aggressioni fisiche ed uccisioni. Se il giornalismo diventa una professione così pericolosa, l’obbligo di un Paese  dovrebbe essere quello di proteggere particolarmente i giornalisti, non metterli ancora più in pericolo. I cronisti dovrebbero essere protetti in maniera speciale per il servizio che offrono alla società».

In Italia non abbiamo una legge sul conflitto di interessi…

«Io credo nei media pubblici, che devono essere assolutamente indipendenti. Di conseguenza, gli organi dirigenziali non devono essere eletti dal governo e ancora meno dal primo ministro, e devono essere assolutamente sganciati da tutti i partiti politici. L’Italia dovrebbe imboccare questa strada. Per questo, ad aprile, ho chiesto di essere invitato durante il processo di elezione dei membri dell’Agcom. Ma, come ho già detto, nessuno mi ha mai risposto e la nomina è avvenuta seguendo le solite regole. Questo non va bene».

Perché non si è provveduto ad un vero cambiamento?

«Forse perché qualcuno ha avuto paura di cambiare le regole. Credo invece che questo sia il momento per fare dei cambiamenti, ma ci vuole coraggio. Un governo di transizione deve fare una scelta: essere di passaggio per arrivare alla prossima legislatura oppure decidere di organizzare un cambio di passo, anche se questo può richiedere del tempo».

Avrà sicuramente letto della candidatura del giornalista americano Wolfgang Achtner, che si è proposto per la guida del “Tg1” senza ricevere alcuna risposta dal Consiglio di amministrazione della Rai. Cosa ne pensa?

«Credo che come non ci dovrebbero essere condizioni per praticare il giornalismo non ci dovrebbe essere neanche una “nazionalita” che lo impedisca. Basta citare il caso dei corrispondenti esteri. Se questi possono riportare le notizie dagli altri Paesi perché non possono anche lavorare per un media estero, sia esso pubblico o privato? Non c’è niente di male. Una sentenza della Corte dei diritti umani interamericana ha riguardato proprio un giornalista straniero che era andato in Costa Rica, dove non gli era stato permesso di fare il suo lavoro. Il verdetto ha stabilito invece che lui doveva poter svolgere la sua professione, perché non ci devo essere condizioni per fare il giornalista».